il pensiero unico uccide la giustizia



da articolo21.com
19/10/2004
di Antonio Caronia

Serge Latouche: Il pensiero unico uccide la giustizia

da L'Unità

Il suo ultimo libro tradotto in italiano si intitola Giustizia senza limiti
(Bollati Boringhieri, pagine 281, euro 22), una formula che Serge Latouche
ha abilmente «rubato» a George Bush (Enduring Justice era il primo nome con
cui il presidente americano indicò la reazione americana all'11 settembre),
rovesciandone il senso. In questo libro Latouche fa un'analisi dell'economia
nell'era della mondializzazione e ne denuncia la fondamentale ingiustizia.
Ma introduce sin dall'inizio un concetto caro al pensiero ecologista, quello
di «limite».

Che relazioni ci sono fra giustizia e limite, ai tempi della
mondializzazione?
«Le due cose, a mio parere, sono strettamente legate: se la giustizia, come
dice il titolo del mio libro, si presenta "senza limiti", è perché viviamo
in una società senza limiti, con un'economia senza limiti, che tende a
formare un mondo unico con un pensiero unico, e immagina che questo basti
per avere una società giusta. Questa è l'ideologia liberale e, dunque, dopo
aver denunciato l'impostura del mondo ridotto a mercato, mi sono sentito
chiamato a denunciare l'impostura di un mondo che vorrebbe essere giusto, ma
"senza limiti". Perché io credo che la giustizia sia, prima di tutto, una
questione di limiti. La giustizia, come indicò già Aristotele, risiede
essenzialmente nella misura: un mondo senza limiti è legato all'
atteggiamento che i greci hanno chiamato hybris, qualcosa appunto che è
eccessivo, "fuori misura", sia per quanto riguarda la giustizia che la
società più in generale.
Ma al stesso tempo il paradosso, anzi il vero e proprio inganno, consiste
nel fatto che non si fa altro che parlare di etica. Non abbiamo mai avuto
tanta "etica": a livello economico le imprese adottano delle "carte etiche",
i governi formano dei comitati per l'etica, la bioetica, e così via. La
costruzione di questa società, mondiale, globale crea effettivamente un'
aspirazione all'etica, e questo accade perché in questa fase l'economia
perde ogni orientamento morale, ogni nozione di giustizia (se mai ne ha
avuta una), al punto che attualmente è quasi impossibile stabilire il
confine tra l'economia "normale" e l'economia criminale. La cosa è
chiarissima: l'economia normale si "criminalizza" sempre di più, con i
paradisi fiscali, le zone franche, etc. I paradisi fiscali sono luoghi di
riciclaggio di denaro sporco, e tutti gli stati e tutte le imprese li
utilizzano. La Francia ha Monaco, l'Inghilterra le isole anglo-normanne o l'
isola di Mann, gli Usa le isole Cayman. Ogni paese ha il suo paradiso
fiscale. E tutti i tentativi di commissioni parlamentari sui paradisi
fiscali sono miseramente falliti. In Francia ce n'è stata una, ma anche in
altri paesi. Anche gli americani, dopo l'11 settembre, si sono resi conto
che il terrorismo si finanzia attraverso il sistema finanziario
internazionale, e hanno cercato di controllare il processo; ma anche loro
hanno dovuto abbandonare il campo. In effetti, non si capisce più se è il
denaro sporco che finanzia le imprese normali, o se sono le imprese normali
che finanziano le imprese terroristiche e i progetti criminali».

Il quadro che lei delinea non è certo roseo. Lei si considera ottimista o
pessimista sulla possibilità di raggiungere un grado accettabile di
giustizia, in questa situazione?
«La questione della giustizia non è separabile dalla questione dell'avvenire
del mondo, dalla situazione più generale nella quale ci troviamo. E su
questo insieme di problemi devo rifarmi anch'io alla famosa formula di
Gramsci: "pessimismo della ragione, ottimismo della volontà". È vero che, se
ragioniamo logicamente, a partire dalle tendenze attuali, dagli orientamenti
dominanti, non c'è dubbio che ci aspettano conseguenze catastrofiche,
effetti spaventosi. Però io credo anche fermamente in quella che si potrebbe
chiamare "pedagogia delle catastrofi", penso cioè che le catastrofi abbiano
anche un aspetto dialettico, che possano essere un'occasione per rimettere
in questione gli orientamenti, le scelte, per correggere il tiro. Ciò è vero
per la giustizia, per la crisi ecologica, per la crisi sociale. In ciascuno
di questi ambiti abbiamo di fronte la stessa hybris, la stessa dismisura.
Stiamo distruggendo l'ecologia del pianeta. È vero non abbiamo tutti le
stesse responsabilità: ci sono delle persone, dei gruppi, delle società che
inquinano, altre che non inquinano affatto, ma sfortunatamente ciò non ha
alcun effetto sulle prospettive. Se il pianeta esplode, noi esplodiamo con
lui. In questo momento, insomma, dobbiamo concludere che siamo tutti sulla
stessa barca. E quindi è nostro interesse fare qualcosa».

Nelle sue analisi, lei utilizza con grande parsimonia la nozione di
«classe». Come possiamo leggere allora, nella situazione odierna, la
struttura sociale delle società capitalistiche?
«Certo, oggi è molto difficile parlare di "lotta di classe" come se ne
parlava una volta. Eppure le contraddizioni di classe, oggi, sono più forti
che mai. Il problema è che il concetto di classe è un concetto in divenire,
perché le classi sono sottoposte al processo di mondializzazione, come tutto
ciò che avviene oggi nel mondo. L'analisi marxista classica, tradizionale,
non è mai riuscita a produrre una lettura davvero internazionale dei
fenomeni di classe. Ora, se vogliamo entrare nel merito, il problema non è
tanto che non ci sono più contraddizioni di classe, ma al contrario che ce
ne sono troppe. Ci sono contraddizioni tra i lavoratori immigrati e i
lavoratori delle nazioni occidentali, tra i lavoratori, che so?, cinesi e
gli operai europei, e all'interno dell'occidente tra i lavoratori di diversi
paesi. Ma il problema più importante, ad ogni modo, è che la struttura
sociale e l'immaginario sono sempre più collegati; e quindi anche le lotte
sociali sono influenzate dai processi di manipolazione dell'immaginario
sociale, e in modo molto forte. In definitiva, non ho mai detto e non dirò
mai che non ci sono più le classi; ma effettivamente oggi è più difficile di
ieri fare una seria analisi in termini di classe, perciò può essere che si
possa dire che anch'io l'ho utilizzata poco.

La questione non mi sembra nuova. Già negli anni sessanta si dimostrò
difficile legare il discorso delle classi all'interno dei paesi sviluppati
con le contraddizioni internazionali fra primo, secondo e terzo mondo; e l'
emergere di posizioni «terzomondiste» fu una conseguenza di queste
difficoltà. Non sarà la classe operaia dei paesi capitalisti che ci salverà,
dicevano allora alcuni, ma le masse oppresse del terzo mondo. Che differenze
vede fra il dibattito sul terzomondismo negli anni sessanta e settanta e
quello attuale?
«La situazione di adesso è molto più complicata. Lo vediamo anche qui da
noi, nell'occidente. La difesa dei meccanismi di protezione sociale, ad
esempio, genera nuovi conflitti all'interno delle nostre società. Si è
creata una nuova classe, quella dei disoccupati, che non sono rappresentati
da alcun sindacato, eppure hanno problemi enormi: ma le loro rivendicazioni,
spesso, non sono prese per nulla in considerazione da quelli che invece il
lavoro ancora ce l'hanno. È una contraddizione molto difficile, come si può
capire. Poi c'è il problema dei contadini senza terra, che già ora è un
grossissimo problema in America Latina, e che si avvia a diventando un
problema enorme anche in Cina. Insomma, una situazione e delle modalità di
cambiamento di questo tipo non si lasciano interpretare facilmente con una
semplice "analisi di classe".
Insomma, forse non sappiamo bene quali siano oggi le classi sfruttate, o le
classi più sfruttate. In compenso sappiamo benissimo chi è il nuovo padrone
del mondo (come dice Le monde diplomatique), e cioè la lobby delle aziende
transnazionali. Qui si vede benissimo come funzionare un potere economico
arrogante, onnipotente e manipolatore. E questo aspetto della manipolazione,
attraverso i media, attraverso la pubblicità, è una dimensione enorme, che
non è mai stata davvero presa in considerazione dalle analisi marxiste.
Mentre è una dimensione nuova e molto importante, che mette in gioco gli
apparati ideologici dello stato come quelli del potere economico, e
rappresenta un avversario temibile, di cui tener conto e contro cui
mobilitare il maggior numero di forze possibile».