il costo del futuro



Il costo del futuro

Ferruccio De Bortoli  La Stampa - 17/09/2004

DOMANDA: versereste lo 0,1 per cento di quello che guadagnate per
assicurarvi un futuro migliore Risposta individuale: sì. Le proposte della
Confindustria su innovazione e ricerca equivalgono a una spesa di 1,5
miliardi di euro nel 2005, lo 0,1 per cento della ricchezza prodotta dal
Paese ogni anno. La risposta pubblica al quesito è stata finora no. Da ieri
c'è un promettente forse. Ma quanto durerà questa incertezza Letizia Moratti
ha confermato, alla Terza Giornata della Ricerca, l'intenzione del governo
di concedere sgravi Irap alle imprese in proporzione al numero degli
occupati in innovazione e sviluppo. La leva fiscale terrà conto del peso
specifico dei settori produttivi sulla competitività del Paese e sulla sua
capacità di esportare. Il segnale del ministro per l'Istruzione,
l'Università e la Ricerca è positivo. Ma non sufficiente, nota Pasquale
Pistorio che a nome di Confindustria, di cui è vicepresidente, ha proposto
una serie di interventi (dal credito d'imposta decennale alla scelta di
dieci progetti strategici per il Paese finanziati in parte da contributi
pubblici) per avvicinarsi all'obiettivo europeo di spesa in ricerca del 3
per cento del Pil.
La realtà, almeno quella dei grandi numeri, è oggi amara e sconsolante. Nel
2003, come ha scritto Il Sole-24 Ore, gli investimenti sono addirittura
diminuiti e su mille lavoratori solo 2,82 erano impegnati in laboratori e
attività scientifiche. Come la Bulgaria. La Repubblica Ceca fa meglio. La
Svezia cinque volte di più. Eppure i centri di eccellenza sono tanti e la
vitalità dei distretti (dalle tecnologie elettroniche o chimiche di Milano
alle telecomunicazioni di Torino) persino sorprendente. Isole di un
arcipelago che non c'è. Splendide realtà che producono risultati
singolarmente importanti ma la cui somma è modesta. Il numero dei brevetti
italiani (12,4 per milione di abitanti) è un decimo di quelli svizzeri e un
sesto dei tedeschi. Superiore alla Spagna, la cui spesa in ricerca però
cresce rapidamente e presto sarà maggiore della nostra. Madrid conta già il
doppio dei nostri scienziati. Non è un dato sportivo, dunque non se ne
parlerà.
Non è solo una questione di fondi. L'attenzione di un Paese nella ricerca e
nell'innovazione è anche l'indicatore della sua voglia di futuro. Più il
livello è basso più si condannano le prossime generazioni alla marginalità
se non alla povertà relativa. E non è solo un problema di impegno pubblico o
governativo. E' vero che l'Italia spende poco più dell'1 per cento del Pil,
ma la ricerca finanziata dalle imprese è inferiore a quella promossa dalle
istituzioni pubbliche. Negli altri Paesi, che pure complessivamente spendono
di più, accade esattamente il contrario. Dipenderà anche dalla ridotta
dimensione delle aziende, dalla mancanza di grandi gruppi, ma l'insieme di
questi dati svela un atteggiamento culturale, più che economico, miope e
rinunciatario che a volte non risparmia né il pubblico né il privato.
La sola tecnologia digitale è in grado di migliorare del cinquanta per cento
la produttività del fattore lavoro. Ogni nuovo prodotto crea mercato,
occupazione e benessere ma è destinato inesorabilmente a mandarne in
soffitta un altro. «Effetto fotografia» era lo slogan con il quale
trent'anni fa si commentava l'inesorabile declino della produzione europea
di macchine fotografiche rispetto a quella giapponese. Oggi dovremmo parlare
di «effetto pellicola» guardando ai destini drammatici di Ferrania, Agfa
Gevaert e Ilford, vittime del digitale. Immagini gloriose, ma ingiallite e
sfocate. Il progresso è ricco di opportunità ma disseminato di trappole.
Senza ricerca si finisce inesorabilmente in queste ultime.