le nuove tecnologie nucleri



da boiler.it
10 settembre 2004

giornale di scienza, innovazione e ambiente

Andrà a grafite il reattore sicuro?

di SPENCER REISS

E' IL MOMENTO, per la Cina, di affrontare il rovescio negativo dello
sviluppo. I blackout si susseguono e le luci delle fabbriche brillano sempre
più debolmente. L'infrastruttura energetica del paese si ritrova
semi-prosciugata dopo un decennio di industrializzazione sfrenata. Le
riserve di petrolio e gas naturali stanno diminuendo, e gli impianti
bruciano carbone più velocemente di quanto le vecchie e cigolanti linee
ferroviarie riescano a trasportarlo. Riscaldamento globale? La nazione più
popolosa della Terra è al secondo posto nella classifica mondiale dei
responsabili, sebbene il protocollo di Kyoto non sia vincolante per i paesi
in via di sviluppo. Inquinamento dell'aria? Secondo la Banca mondiale,
appartengono alla Repubblica popolare 16 delle 20 città più inquinate del
pianeta. Eolico, solare, biomassa: il paese sta cercando di aggrapparsi a
qualsiasi fonte di energia alternativa disponibile, anche a costo di privare
un milione di persone della propria casa per far posto al maggiore progetto
idroelettrico di tutti i tempi.

Ma qual è la soluzione ideale per un'autocrazia affamata di energia?
Ovviamente il nucleare. Così mentre l'Occidente si preoccupa di come fare a
non avvelenare il pianeta, i burocrati cinesi lanciano un megaprogetto
nucleare. Alla fine dell'anno scorso, infatti, la Cina ha annunciato di
voler costruire 30 nuovi reattori - abbastanza da garantire il doppio della
capacità della già mastodontica Diga delle Tre Gole - entro il 2020. E non
basta. Secondo The Future of Nuclear Power, rapporto del 2003 redatto da una
commissione di esperti capeggiata dall'ex capo della Cia John Deutch, entro
il 2050 la Repubblica popolare cinese avrà bisogno dell'equivalente di 200
centrali nucleari. Un team di consulenti scientifici cinesi del governo di
Pechino ha alzato ancora di più il tiro: 300 gigawatt di emissioni nucleari,
poco meno dei 350 prodotti oggi in tutto il mondo.

Nuove strade

 Per far fronte alla domanda crescente, i leader cinesi stanno seguendo una
duplice strategia. Da un lato si stanno rivolgendo a costruttori di fama
come Aecl, Framatome, Mitsubishi e Westinghouse, che hanno già fornito le
tecnologie chiave per le nove centrali atomiche finora esistenti in Cina. Ma
dall'altro stanno anche adottando un approccio più audace. Fisici ed
ingegneri della Tsinghua University di Pechino stanno infatti costruendo una
nuova tipologia di impianto nucleare: il reattore a letto di ciottoli. Un
reattore abbastanza piccolo da poter essere assemblato con parti prodotte in
serie e abbastanza economico per gente che non ha un conto in banca
miliardario. Un reattore la cui sicurezza dipende da una legge fisica, e non
dall'abilità del personale e dalla resistenza dei rivestimenti. Una favola a
lieto fine, il cui happy end ha nome idrogeno.

Lo scienziato Qian Jihui non ha dubbi sul significato di questa iniziativa
per il futuro del nucleare, in Cina e nel mondo. Qian è l'ex vicedirettore
generale dell'International Atomic Energy Agency, nonché presidente onorario
dell'Istituto di Energia nucleare cinese. A 67 anni, ha vissuto sulla
propria pelle più di una rivoluzione, il che vuol dire che non è uno che
prende alla leggera il concetto di "stravolgimento". «Nessun esponente del
mainstream gradisce le novità», spiega. «Ma nella comunità internazionale
del nucleare, molti pensano che il domani sia questo. I nuovi reattori sono
strategicamente competitivi, e alla fine avranno il sopravvento. Quando ciò
accadrà, il vecchio nucleare ne uscirà a pezzi". Ecco cosa si intende per
"rivoluzione».

Al Mit cinese

La Tsinghua University, soprannominata il Mit cinese, è incorniciata da un
giardino imperiale che risale alla dinastia Qing. Sullo sfondo, le famose
torri a specchio del cuore high tech di Pechino. Wang Dazhong è arrivato qui
a metà degli anni Cinquanta. All'epoca era uno dei primi casi in Cina di
ingegnere nucleare indigeno. Ora è direttore emerito dell'Inet, Institute of
Nuclear and New Energy Technology della Tsinghua, e membro chiave del team
di consulenza in materia di energia del governo di Pechino. In una bella
mattinata, oscurata solo dall'onnipresente foschia fotochimica che
contraddistingue la città, Wang parla in una spartana sala per conferenze
illuminata da lampadine fluorescenti. «Se volete avere in Cina 300 gigawatt
di nucleare - 50 volte il quantitativo di cui disponete oggi - non potete
permettervi una Three Mile Island o una Chernobyl», spiega. «Avrete bisogno
di un nuovo genere di reattore». Facile parlare così, in un'aula magna. Ma a
poca distanza da lì, circondato da montagne, c'è un enorme edificio cubico
bianco su cinque piani. Al suo interno, nella sola stanza principale, 100
tonnellate di acciaio, grafite e ingranaggi idraulici. La capacità
dell'impianto - denominato Htr-10 (reattore ad alta temperatura da 10
megawatt) - è al momento limitata: a pieno regime da gennaio, riesce a
malapena a soddisfare il fabbisogno energetico di una cittadina di 4 mila
abitanti. Eppure, ciò che è racchiuso in questa centrale, mai visitata prima
d'ora da un giornalista occidentale, ne fa uno dei reattori più interessanti
al mondo.

Invece che dalle sbarre a combustibile incandescenti che azionano un
reattore tradizionale, l'Htr-10 è alimentato da 27 mila sfere di grafite
delle dimensioni di palle da biliardo rivestite da lamine di uranio. Invece
che da acqua bollente - estremamente radioattiva e altamente corrosiva - il
nucleo è bagnato da elio inerte. Il gas può raggiungere temperature molto
più elevate senza che le tubature esplodano, il che vuol dire che per far
andare la turbina può essere utilizzato un terzo dell'energia in più. Niente
acqua significa niente vapore e niente cupole a pressione che costano
miliardi per contenerlo in caso di perdite. E con il combustibile sigillato
fra strati di grafite e impermeabile carburo di silicio - progettati per
durare un milione di anni - le sfere usurate vanno a finire direttamente in
appositi contenitori d'acciaio piombato collocati nelle fondamenta.

Impianti a prova d'incidente

 La sala di controllo, priva di finestre, ospita tre workstation Pc e le
immancabili strumentazioni elettroniche, tutte pulsanti e indicatori
colorati. In un reattore convenzionale ci sarebbe molto di più da vedere:
pannelli di controllo per il raffreddamento d'emergenza, aree-cuscinetto
antincendio, serbatoi di acqua pressurizzata. Ma non qui, dove le abituali
misure ingegneristiche di sicurezza sono superflue. Mettete il caso che
scoppi un condotto, che una valvola a pressione si blocchi, che ci sia un
attacco terroristico, che qualcuno manometta le leve di controllo della
catena nucleare: nessun incubo radioattivo. È un reattore a prova di
fusione.

Zhang Zuoyi, direttore quarantaduenne del progetto, ci spiega che il trucco
consiste nella cosiddetta dilatazione Doppler: più gli atomi si
surriscaldano, più si distanziano tra loro. Diventa quindi più difficile per
il neutrone colpirne il nucleo. Nel nucleo ad alta densità di un reattore
convenzionale, gli effetti del fenomeno sono assolutamente marginali. Ma il
design dell'Htr-10, e le sue ridotte dimensioni, cambiano tutto. In caso di
avaria del sistema di raffreddamento, niente catastrofi: la temperatura del
nucleo può raggiunge al massimo i 1600 gradi Celsius, ben al di sotto del
punto di fusione delle sfere (oltre duemila gradi), e poi si riabbassa
automaticamente. «Quando si verifica un'emergenza in un reattore
tradizionale, si ha solo una manciata di secondi per prendere la decisione
giusta», spiega Zhang. «Con l'Htr-10, si ha un margine di giorni, se non
addirittura di settimane, per risolvere il problema». Una sicurezza che non
è puramente teorica. Gli ingegneri dell'Inet hanno già fatto qualcosa di
inconcepibile per un reattore normale: hanno disattivato l'impianto di
raffreddamento ad elio e aspettato che il reattore si stabilizzasse da solo.
Prossimamente, Zhang ha intenzione di ripetere la dimostrazione in occasione
di una conferenza internazionale che si terrà a Pechino. «Forse un giorno
questo tipo di test sarà utile anche a livello commerciale», aggiunge.


Ciottoli per produrre energia
di SPENCER REISS

LE NUOVE centrali nucleari sono il frutto di intuizioni che risalgono agli
albori dell'era atomica. Nel 1943, un team del progetto Manhattan, guidato
da Enrico Fermi, ottenne, presso il Metallurgical Lab dell'Università di
Chicago, la prima reazione a catena nucleare innescata dall'uomo. Al
progetto, successivamente aderì anche un chimico, Farrington Daniels. A
Daniels non interessavano le bombe. La sua attenzione era piuttosto
concentrata su un'idea che fin dalla fine degli anni Trenta aveva iniziato a
circolare tra i fisici: quella di sfruttare il potere dell'atomo per
ricavarne elettricità economica e pulita. Proponeva pertanto un reattore
contenente "ciottoli" (un termine preso in prestito dalla chimica)
arricchiti di uranio, in cui dell'elio gassoso avrebbe trasferito energia a
un generatore.

La pila Daniels - questo il nome della sua invenzione - fu presa in seria
considerazione, tanto che nel 1945 l'Oak Ridge National Laboratory incaricò
Monsanto di progettarne una versione operativa. Prima che il prototipo
venisse costruito, però, un altro scienziato, Hyman Rickover, ottenne dalla
Marina americana i fondi per la realizzazione di un altro tipo di reattore,
raffreddato ad acqua e azionato da barre a combustibile, per l'alimentazione
dei sottomarini.

A metà anni Cinquanta, con la presentazione alle Nazioni Unite da parte del
presidente Eisenhower del programma "Atomi per la pace", il tema dell'uso
pacifico del nucleare divenne di grande attualità. Nel 1956, una divisione
ad hoc della General Dynamics riunì 40 dei massimi esperti mondiali di
nucleare per un brainstorming sul design del reattore ideale. Tra di loro
c'era anche Edward Teller, il padre della bomba a idrogeno. Che espresse in
quell'occasione un parere profetico: perché la gente potesse accettare il
nucleare, i reattori avrebbero dovuto essere "intrinsecamente sicuri". E
proponeva anche un test pratico per verificarlo: qualora non si fosse potuto
disattivare tutte le barre di controllo senza evitare una fusione, il design
non sarebbe stato idoneo.

I suoi avvertimenti furono però ignorati, nell'ansia di battere i russi.
Invece di puntare alla sicurezza intrinseca, il nascente nucleare civile
seguì Rickover nelle sue barre di controllo, nei suoi impianti di
raffreddamento ad acqua, e in tutti le varie misure di protezione contro il
pericolo di fughe radioattive. Per cercare di ammortizzare i costi di tutti
questi accorgimenti, in meno di un decennio gli impianti triplicarono di
dimensioni, con inevitabili ricadute finanziarie verso la metà degli anni
Settanta. E dopo i disastri di Three Mile Island (1979) e Chernobyl (1986)
il nucleare, in gran parte del mondo, non fu più visto di buon occhio. Anche
quando si riaffacciò l'idea del reattore a letto di ciottoli, l'opinione
pubblica non la accolse bene. In Germania un fisico di talento, Rudolf
Schulten, aveva deciso di portare avanti quell'intuizione e nel 1985 aveva
realizzato un primo prototipo, anche se troppo grande per soddisfare i
requisiti di sicurezza intrinseca previsti da Teller. Un anno dopo, come
conseguenza di Chernobyl, una piccola avaria nell'impianto tedesco fece
gridare alla catastrofe. E il reattore venne smantellato.

Altri due incidenti analoghi, in Pennsylvania e Ucraina, dimostrarono la
validità della tesi di Teller, al punto che la sua definizione venne alla
fine capovolta, e l'Union of Concerned Scientists proclamò il nucleare
"intrinsecamente pericoloso". Il settore si fermò. Tanto per farsi un'idea,
gli ultimi dei 104 reattori ad oggi attivi in America sono stati avviati nel
1979. E a questo punto la nostra storia avrebbe potuto dirsi conclusa. Ma
non fu così: mentre l'establishment mondiale faceva di tutto per affossare
definitivamente il nucleare, in due paesi lontanissimi tra loro la scienza
continuava a perseguire il traguardo del reattore perfetto. Quei due paesi
erano il Sudafrica, dove a metà degli anni Novanta il gestore nazionale
affidò ai tedeschi il compito di progettare un impianto a letto di ciottoli,
cominciando nel frattempo a raccogliere i fondi necessari; e la Cina,
appunto, con il team della Tsinghua.

Dallo studio di Frank Wu, al nono piano dell'Innovation Plaza, si vede tutto
il campus della Tsinghua. Non è un caso: l'università è comproprietaria di
questo complesso, autentico polo d'attrazione per le startup high tech.
Anche l'azienda di Wu, la Chinergy, è frutto di una joint venture tra
l'Institute for Nuclear and New Energy Technology della Tsinghua e un ente
statale, il China Nuclear Engineering Group. «Mi è appena arrivata una
telefonata dal sindaco di una città qui vicino», racconta Wu, oggi
amministratore delegato della società ma con un passato da manager
finanziario in America (dove ha preso il nome inglese). «Voleva sapere
quanto costa procurarsi uno di questi reattori di nuova generazione».

 Le centrali a letto di ciottoli di Wu sono le più famose, perché i prodotti
della Chinergy sono l'ideale per mercati energetici in rapida evoluzione: si
tratta infatti di progetti modulari, da comporre come dei Lego. Malgrado
alcuni tentativi di elaborazione di uno standard, gli impianti nucleari
vengono ancora costruiti in loco a seconda delle esigenze del committente. I
reattori Inet, invece, pur essendo cinque volte inferiori per dimensioni e
potenza, possono essere assemblati da componenti standard prodotte in serie,
trasportabili sia via arteria stradale che tramite ferrovia, e che si
combinano molto rapidamente. Non solo: vari reattori possono essere riuniti
intorno a una o più turbine, e monitorati da un'unica sala di controllo. In
altre parole, le centrali della Tsinghua godono di due caratteristiche
essenziali per un paese, come la Cina, dalla crescita esponenziale: possono
essere attivate dove c'è ne bisogno e possono crescere in breve tempo. Wu e
colleghi sperano di arrivare entro il 2010 a una versione di Htr-10 da 200
megawatt. Hanno già convinto la Huaneng Power International - uno dei cinque
principali gestori privati cinesi, incluso nell'elenco Nyse e presieduto dal
figlio dell'ex premier Li Peng - ad assumersi metà della spesa (in totale di
circa 300 milioni di dollari). I lavori dovrebbero iniziare nella primavera
del 2007. Secondo gli standard convenzionali, è una scadenza assurda per un
reattore ancora in fase di progettazione. Il programma sudafricano sta
lavorando dal 1993 a un'unità dimostrativa vicino Città del Capo, ma con un
budget previsto di un miliardo di dollari e gli ambientalisti sul piede di
guerra, il progetto è fermo in fase di stallo: alla realizzazione
dell'impianto mancano ancora dai cinque ai dieci anni.

Solo cinque anni fa, gran parte della Cina come la vediamo oggi non
esisteva. Wu, che ama raccontare agli americani in visita come una delle
aziende in cui in passato ha lavorato abbia soffiato alla Sun Microsystems
l'appalto per il cablaggio di West Point, è una vera e propria avanguardia.
Il team Inet progetta prototipi di reattori a letto di ciottoli dalla metà
degli anni Ottanta. Alcuni dei suoi membri hanno studiato in Germania, con
Schulten. E ancora grazie ai tedeschi - e alla loro collaborazione - questi
ricercatori dispongono del migliore equipaggiamento al mondo per risolvere
il problema tecnico forse più spinoso: riuscire a fabbricare sfere di
combustibile in quantità che possano velocemente raggiungere i milioni di
unità.

Per quando la centrale pilota della Chinergy sarà finalmente in piena
attività, è probabile che i 30 reattori pianificati dal governo cinese per
il 2020 siano già in avanzata fase di realizzazione. Fino ad allora, però,
l'infrastruttura energetica cinese sarà presumibilmente un'area di business
governata da logiche di mercato, il che garantirà a compagnie come la
Huaneng ampi margini di manovra. La strategia della Chinergy sembra
formulata ad hoc per un contesto del genere. Le aziende operanti in regioni
che stanno passando da un'economia agricola/rurale a una industriale/urbana
dovranno partire in sordina, ma è probabile che si ritrovino improvvisamente
a dover far fronte a una domanda al di sopra delle aspettative. Ed è qui che
entra in gioco il concetto di impianto modulare: Wu ha intenzione di vendere
i vari moduli - reattori da 200 megawatt con tutta l'attrezzatura di
contorno - anche singolarmente, se necessario. A seconda delle esigenze se
ne potranno aggiungere via via altri, fino a raggiungere la potenza di
gigawatt toccata dai reattori convenzionali. Più integrazioni del genere si
diffonderanno, più caleranno i costi dell'operazione, in virtù dell'economia
di scala.

Troppo bello per essere vero? Non secondo Andrew Kadak, docente di ingeneria
nucleare del Mit (il suo corso comprende anche una sezione dal significativo
titolo "Colossali fallimenti"). Kadak è un genio del nucleare, con un
curriculum sconfinato. Dal 1989 al 1997 è stato amministratore delegato
della Yankee Atomic Electric, società che gestiva - ma di recente ha
chiuso - l'impianto di Rowe, in Massachusetts, costruito negli anni
Sessanta. Attualmente sta aiutando l'Inet a perfezionare la tecnologia delle
sfere e collabora con il Dipartimento dell'Energia statunitense e l'Idaho
National Engineering and Environmental Research Lab alla realizzazione di un
reattore a gas ad alta temperatura. «L'industria si è sempre concentrata su
reattori raffreddati ad acqua che impongono complessi sistemi di sicurezza»,
spiega Kadak. «I cinesi invece non sono vincolati dalla tradizione, e hanno
la possibilità di dimostrare che c'è un altro modo di costruire reattori,
più semplice e più sicuro. Il vero problema sarà vedere se l'idea funziona
anche dal punto di vista economico».