morire di ricovero



da lavoceinfo.it
06-05-2004
Morire di ricovero
Giuseppe A. Micheli

La Regione Lombardia ha di recente reso pubblico il tasso grezzo di
mortalità della popolazione sopra i sessantacinque anni nelle residenze
sanitarie assistite (Rsa) lombarde: è pari al 25,64 per cento dei residenti.
Tassi simili risultano in ricerche svolte in alcune Asl venete.
Ma dietro a questo valore ufficiale si annida un'anomalia che conosciamo
bene, ma che tardiamo a riconoscere come problema socialmente rilevante.

La mortalità nelle strutture

Proviamo ad applicare le tavole italiane di sopravvivenza alla popolazione
anziana istituzionalizzata nelle Rsa lombarde, con una struttura per età
assimilata a quella della domanda potenziale stimata (peraltro in linea con
i dati aggregati 2001 forniti in Regione Lombardia). Per prudenza non
prendiamo nemmeno le più recenti, soggette a un ulteriore abbattimento delle
barriere di mortalità in età avanzata, ma quelle del 1992. Il numero
complessivo dei decessi così stimato corrisponderebbe a un tasso grezzo di
mortalità del 13,8 per cento: la metà di quello realmente osservato.
Tenuto conto che il dato lombardo trova riscontro in altre realtà del
Nord-Est, la sovramortalità delle strutture di ricovero sembra una costante,
su cui fino a oggi nulla si è trovato da eccepire.

A grandi linee si può ritenere ragionevole che la funzione di sopravvivenza
per popolazioni istituzionalizzate sia peggiore rispetto a quella dell'
intera popolazione lombarda. Ciò per due motivi. a) Un effetto selezione: la
popolazione ricoverata è tale proprio perché ha mostrato livelli di perdita
di autonomia funzionale superiori allo standard per età. b) Un effetto, non
sappiamo quanto grande, prodotto dal processo di istituzionalizzazione.
Per pareggiare i quozienti grezzi di mortalità occorre alzare
approssimativamente dell'85 per cento i quozienti di mortalità specifici per
età e di conseguenza le curve dei decessi (tratto continuo nella figura).
Così facendo, il numero complessivo dei decessi stimato è assimilabile a
quello osservato. Effetto selezione ed effetto istituzionalizzazione,
insieme producono un incremento "fisiologico" dell'85 per cento nella
mortalità sopra i sessantacinque anni.

Il perché di un equilibrio

L'equilibrio, sia pur precario, che abbiamo rilevato tra domanda potenziale
e offerta di ricovero in una regione-laboratorio come la Lombardia, è
consentito dall'agire di alcune condizioni "fisiologiche" destinate a
svanire presto: la temporanea compressione della curva degli anziani, dovuta
alla prima guerra mondiale e alla pandemia influenzale del 1918, che ha fin
qui contenuto la domanda di assistenza, e una crescita finora relativamente
lenta della popolazione anziana, destinata a esaurirsi già nel corso di
questo decennio.
Ma soprattutto agisce una condizione, questa sì modificabile e da modificare
in quanto eticamente inaccettabile: il mantenimento di un equilibrio tra
domanda e offerta di residenze assistite è permesso dalla sovramortalità
istituzionale.
Non esistono, a mia conoscenza, studi empirici che scompongano il surplus di
mortalità delle istituzioni tra effetto selezione ed effetto istituzione,
tanto scarsa è stata sempre l'attenzione a problemi di "care" in un intorno
della morte ormai data per inevitabile.
Supponiamo allora che di quella sovramortalità una buona metà si possa fare
risalire all'accentuazione del decadimento fisico e psichico in conseguenza
del ricovero: basterebbe tenere sotto controllo questa metà e le "uscite"
dal circuito delle residenze crollerebbero a valori già oggi inferiori al
livello attuale della domanda, valori quindi inadeguati a fronteggiare la
domanda demograficamente montante.
Al centro delle politiche per gli anziani non può stare solo l'attivazione
di un sufficiente ammontare di unità funzionali attrezzate di assistenza, ma
anche un (radicale) ripensamento dei luoghi dell'ultima e definitiva
autoesclusione.

Per saperne di più

Regione Lombardia (2001), Le residenze sanitario assistenziali in Lombardia,
Unità organizzativa accreditamento e qualità, Direzione famiglia e
solidarietà sociale.

Anziani, un problema delle figlie
Giuseppe A. Micheli

Viviamo la questione anziana in dolorosa dissonanza tra il desiderio
incomprimibile di livelli elementari di cura e la percezione che tali
bisogni siano resi inaccessibili dall'inerzia demografica.
Cerchiamo allora di ridurre la dissonanza affidandoci a confortanti evidenze
empiriche (l'ottantenne oggi è arzillo come il settantenne d'antan) e
ragionevoli argomentazioni (è alla famiglia che spetta e va delegata la
funzione di cura). Ma qualcosa non quadra.
L'età della disabilità
È evidenza empirica accettata che l'età in cui la disabilità diventa
invalidità cronica si sta spostando in avanti. Alcune indagini svolte alla
fine degli anni Novanta hanno permesso di stimare che la quota di
popolazione nel Nord-Ovest di Italia con autonomia funzionale compromessa è
inferiore al 2 per cento a ottanta anni e non arriva al 10 per cento a
novanta anni.
Ma attenzione: dopo gli ottanta anni la curva di disabilità continua a
crescere esponenzialmente, e per l'accresciuta longevità si affollano di più
proprio le età estreme con più alti tassi di disabilità. Così gli
ultra-ottantenni del 2030 avranno, sì, la stessa buona salute degli attuali
ultra-settantacinquenni, ma saranno di più.
Se anche lo spostamento dell'età di buona salute di massa fosse più veloce
dello spostamento della longevità, la dimensione delle coorti dei nuovi
grandi anziani renderebbe di per sé più problematica la gestione collettiva
del fenomeno.
La disabilità invalidante non colpisce uniformemente gli anziani. Tra quelli
a reddito medio-basso la percentuale di non autonomia è cinque-sei volte
superiore tra ottanta e ottantacinque anni (quattro volte dopo i novanta).
La questione anziana mantiene il suo statuto di questione sociale e impone
di tornare a investire in un sistema di supporto domiciliare pubblico. L'
elettorato è oggi più sensibile al tema, e si può forse trovare un consenso
ampio su un contributo obbligatorio per finanziare la costituzione di un
fondo unico per la non autosufficienza.
Legami forti e deboli
È nel nucleo familiare che l'accudimento trova la sua collocazione naturale.
Ma la disabilità invalidante innesca una deriva verso l'assistenza
strutturata proprio là dove manca un nucleo familiare che fornisca il lavoro
di cura. Né è caricando interamente il compito sui familiari (anche con
adeguati trasferimenti monetari) che si consente loro di far fronte alla
situazione.
A parità di età e perdita di autonomia, solo il 20 per cento di chi è
accudito da un convivente manifesta segni di perdita di reattività,
anticamera della dipendenza totale. Tale quota sale al 47 per cento tra chi
è solo, al 75 per cento tra chi è solo e non ha altri legami forti. Senza un
gioco concertato di reciproco supporto tra famiglia, legami forti (parenti,
amici) e legami "deboli" ma altrettanto strategici (vicinato, volontariato,
servizio civile o pubblico di supporto) che radichino l'anziano nel suo
spazio di vita, il rischio di naufragio è alto.
È tra gli uomini che quella perdita di reattività, che cresce
ragionevolmente con l'età, si riscontra in misura non trascurabile (3-4 per
cento) anche sotto i settanta anni, al momento dell'uscita dalla vita attiva
(donde una marcata sovrapresenza di "giovani anziani" maschi nelle
convivenze per anziani). Ma sono generalmente le figlie cinquantenni a
essere gravate della cura degli anziani strappati al circuito di ricovero.
La domanda di care triplicherà nei prossimi quattro decenni, ma il declino
delle nascite ridurrà le potenziali caregivers già dal 2020, così che il
carico gravante su ogni donna si quadruplicherà, trasformando in un cappio
il rapporto madre-figlia, cuore del modello mediterraneo di famiglia.
Né recinti pubblici, né privati o comunitari potranno chiudere questa falla,
senza ridefinire la divisione di genere dei ruoli. E cambiamenti di tal
fatta non si realizzano al semplice tocco di una bacchetta, ma per lenta
sedimentazione di piccoli slittamenti nelle pratiche sociali.
Occorre rimboccarsi le maniche: la sostenibilità economica futura delle
politiche sociali passa per un rilancio delle politiche di equità.

Per saperne di più
Fries J. (1980), Aging, Natural Death and the Compression of Morbidity, New
England Journal of Medicine, 303, 130-135.
Guaita A. (2000), "La salute", in Irer, Anziani: stato di salute e reti
sociali, Guerini, Milano.
Micheli G.A. (a cura di) (2004), I continuanti. Interventi a mosaico in una
società che invecchia, Franco Angeli, Milano.