utopia e sviluppo sostenibile



da avvenire.it

12 SETTEMBRE 2002

LUIGI DELL'AGLIO

L'utopia al naturale

La salute del pianeta Terra: molti gli interrogativi ancora aperti dopo la
conclusione del vertice delle Nazioni Unite. "Serve uno spirito di
solidarietà nei confronti degli altri Deve crescere in tutti la
consapevolezza del limite". Parla Giorgio Nebbia "Uno sviluppo sostenibile,
che pensi realmente alle generazioni future, è davvero difficile da attuare.
Più che dei consumi la nostra è una società dei rifiuti"
"Non date retta a chi vi dice che le cose importanti sono i soldi", scrive
Giorgio Nebbia aprendo il suo saggio dal titolo Le merci e i valori. Per una
critica ecologica al capitalismo, edito da Jaca Book, con il sostegno di
Alce nero e della fondazione Luigi Micheletti. Nel libro, l'autore smonta
alcune idee radicate nella cultura di transizione tra i due secoli, e che
lui - invece - ritiene pie illusioni, anzi: sfacciate finzioni. Ma
soprattutto combatte una distorta definizione di sviluppo, che non è stata
corretta neanche dalla recente conferenza dell'Onu a Johannesburg.
Per quante ragioni è deluso dal vertice?
"Per tante. Sono decenni che l'Onu ripete: occorre cambiare i modelli di
produzione e di sviluppo. E aggiunge: ci vogliono acqua, alimenti, salute,
invece di alluvioni e siccità. La conferenza di Johannesburg doveva
tracciare le strade giuste per arrivare. Non è avvenuto. Ma, se si continua
così non solo non avremo sviluppo economico o umano. Non potremo evitare
violenza e conflitti. Altro che "sviluppo sostenibile"!".
Lei contesta anche questo concetto di sviluppo.
"Nel gran chiacchiericcio, non si è tenuto conto della definizione data
dalla Populorum progressio: "Il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo
non consiste nel solo aumento dei beni prodotti; economia e tecnica non
hanno senso che in rapporto all'uomo che esse devono servire". Un'altra
ragione di scontentezza? Abbiamo detto sempre che è la pace il vero nome
dello sviluppo. A Johannesburg non si è fatto nessun passo, neanche piccolo,
neanche a parole, sulla via della pace e del disarmo (specialmente
nucleare)".
Ma perché lei stronca lo sviluppo sostenibile?
"Non prendiamoci in giro. Uno sviluppo sostenibile non esiste. Come non
esiste l'altro traguardo c he viene sempre sbandierato: l'automobile, il bus
o l'impianto industriale a emissioni zero".
Pura utopia?
"No, grandissima ipocrisia. Sostenibile è uno sviluppo che pensi realmente
alle generazioni future: ma lo sviluppo sostenibile, così come viene inteso
oggi, non può portarci da nessuna parte. Semmai bisognerebbe parlare di
sviluppo "non insostenibile"".
Le case automobilistiche giurano che una vettura di oggi è cento volte meno
inquinante di una vettura degli anni '60.
"Ci sono due considerazioni da fare. Prima: il numero delle auto cresce a
dismisura, e perciò è pura chimera pensare a un parco mondiale delle auto
che sia pulito. Seconda: l'industria non fa che alimentare il desiderio di
auto sempre più dotate e costose, trasformandolo in un bisogno primario".
E allora?
"Bisogna eliminare la confusione tra sviluppo e crescita. Sono due cose
diverse. Sviluppo umano significa certamente liberazione dai bisogni,
salute, maggiore realizzazione, libertà. I beni materiali servono: non c'è
dignità se si vive in promiscuità, non si è liberi se si muore di fame".
Lei abbatte anche il concetto della "società dei consumi"...
"Non siamo una società dei consumi. Noi prendiamo dalla natura materie
prime, oggetti, merci, ma non le consumiamo affatto, le usiamo e poco dopo
le rispediamo alla natura. Ma alla natura i beni non tornano così com'erano
in partenza. Questo è il problema. Ogni bene torna modificato chimicamente e
finisce per modificare la natura che lo riceve. Esempio: gli esseri viventi
prendono ossigeno dall'atmosfera e glielo restituiscono trasformato in
anidride carbonica. Se aggiungiamo tutta l'anidride carbonica prodotta dai
motori e dalle industrie, alla fine la natura che la riceve risulta
profondamente modificata, talvolta in maniera molto grave. Al punto che
avvengono mutamenti climatici come quelli cui assistiamo. Siamo dunque una
società di rifiuti, non di consumi".
In una società dei rifiuti regna la violenza delle merci, come lei la
chiama.
"Violenza nei confronti della natura ma anche degli altri esseri umani. La
natura è la fonte della vita per il prossimo. Se, con l'anidride carbonica
modifico la composizione chimica dell'atmosfera, uso violenza anche a chi
verrà su questo pianeta fra 50 o 100 anni, cioè al mio prossimo del futuro.
L'economia non violenta è un'altra cosa. Io sostengo che ci si possa nutrire
tutti attingendo al paniere della natura. Ma in quale misura possiamo usare
quei beni (che sono limitati), per soddisfare i bisogni dei Paesi
industrializzati, di quelli emergenti e di quelli che non hanno nulla? Tutti
prendiamo dallo stesso canestro di pane; se io porto via dieci pezzi e agli
altri ne lascio uno, compio una violenza. Allora non posso dire che amo lo
sviluppo sostenibile".
Asia e Africa, per stare un po' meglio, dovranno necessariamente sacrificare
beni naturali allo sviluppo di quella che lei chiama la tecnosfera. Come
conciliare il diritto allo sviluppo con la salvezza del pianeta?
"Non è detto che la somma felicità sia possedere due frigoriferi".
Ma i cinesi, per esempio, vorranno averne almeno uno, giustamente. E per
darglielo, sottolinea qualcuno, bisognerà produrre e inquinare.
"Ma dobbiamo rivedere tutti i modelli di consumo, di smaltimento dei
rifiuti, le tecnologie. Tenendo conto che le risorse della natura non sono
infinite".
Circola una domanda odiosa: è giusto dare le costosissime super-auto del XXI
secolo a ognuno degli abitanti della Cina che sono già oggi un miliardo 300
mila?
"Dobbiamo rispondere a un'altra domanda che riguarda non solo il mercato
cinese ma quello di tutto il mondo. E la risposta è il technology
assessment. La tecnologia può tirarci fuori da tante strettoie. Qui si
tratta di esaminare la realtà caso per caso. Faccio un esempio. È proprio
necessario produrre più acciaio per produrre più autovetture? Ed è
necessario produrlo nella stessa maniera in cui noi l'abbiamo prodotto
finora? Si possono riciclare materiali. Da 60 anni si riutilizzano i rottami
di ferro. Ora si dovrebbe riciclare benissimo la plastica. E non è tutto.
Oggi, se va in frantumi il cristallo anteriore della mia vettura, debbo
avere la fortuna di trovare un'altra vettura uguale alla mia: nessun
parabrezza si adatta a una macchina di tipo diverso. Ecco, si potrebbe
introdurre una standardizzazione: produrrebbe enormi economie di scala e
avrebbe una motivazione etica".
Che cosa suggerisce alfine?
"Il coraggio, la visione, e (anche se l'espressione può oggi apparire
obsoleta) uno spirito di solidarietà con gli altri. Quando mi assicuro certi
consumi, anche essenziali, debbo ricordarmi che sono legato a un numero
infinito di persone. Deve crescere la consapevolezza del limite".