effetto serra cina e m.o. riaprono al ncleare



da repubblica.it
lunedi 21 giugno 2004

Effetto serra, Cina e Medio Oriente riaprono la discussione sul nucleare

GIANFRANCO MODOLO

A venticinque anni dall'incidente alla centrale di Three Mile Island
(ricordate il film 'La Sindrome Cinese'?), a 18 anni dalla catastrofe di
Cernobyl in Ucraina, nel mondo si torna a parlare, e neppure molto
sommessamente, di rinascita del nucleare, vale a dire della necessità di
produrre energia elettrica grazie alla scissione dell'atomo. E non solo
negli Stati Uniti, dove ancora sorge la centrale di Three Mile (che, per
inciso, con i reattori superstiti ha continuato a produrre energia senza
alcun problema, più o meno come avviene a Cernobyl), ma anche in Europa,
dove la 'verde' Germania che aveva progettato qualche anno fa di far uscire
progressivamente di scena i suoi impianti atomici sta ritornando sui suoi
passi. Se ne parla in Giappone, anche se lo scorso anno Tokyo ha dovuto
chiudere provvisoriamente tutti gli impianti nucleari della capitale perchè
la società di gestione aver fornito all'ente preposto dati falsificati sugli
standard di sicurezza delle centrali. E se ne parla, ma ancor più
sommessamente, in Italia dove ancora non si riesce a trovare un sito per
scaricare le scorie dei cinque impianti operanti nel nostro paese sino al
referendum del 1987.
Quali le cause di questo ripensamento sulla necessità di non smantellare il
patrimonio esistente nel mondo (441 impianti esistenti, 32 in costruzione) e
anzi di accrescerlo proprio nel momento in cui gli studi più accurati, uno
del Mit di Boston e l'altro dell'inglese Royal Academy of Engineer,
dimostrano cifre alla mano che, al di là dei rischi di catastrofi come
quella di Cernobyl e di incidenti come quelli di Three Mile, Tokyo e
Malville, l'energia prodotta con l'atomo costa assai più di quella generata
dal carbone, dal gas e dagli impianti idraulici?
La prima risposta, quella più immediata, trae origine da eventi recenti,
quale il rialzo del petrolio, del gas e del carbone dell'ultimo anno. Anche
se l'inglese British Petroleum si premura di informarci che l'anno scorso le
riserve mondiali di greggio sono aumentate del 10 per cento a 1.150 miliardi
di barili e che il petrolio non mancherà per i prossini 4050 anni, gli
esperti sono certi che i prezzi di questa importante materia prima
continueranno a salire, sia per ragioni geopolitiche (guerre e tensioni
terroristiche in Medio Oriente (dove si concentra il 50 per cento delle
riserve) sia perché nuovi protagonisti della scena economica mondiale sono
pronti a reclamare la loro quota di energia. E si tratta di colossi, dal
punto di vista della popolazione, come Cina e India che insieme vantano 2,3
miliardi di abitanti.
Ma vi è una seconda considerazione che si sta imponendo. Per quest'anno il
Fondo Monetario prevede una crescita mondiale del 4,24,5 per cento. E il
modello di sviluppo che viene perseguito in tutto il mondo si basa sul
consumo di energia, in ogni forma questa venga utilizzata: per produrre
beni, per il trasporto, per illuminare, riscaldare o raffreddare, per
divertirsi, per curarsi o per armarsi e combattere.
Qualche dato fornito dalla società di studi Enerdata può indicare quanto sta
succedendo: lo scorso anno, a fronte di una crescita globale del 2,4 per
cento, il consumo mondiale di energia è cresciuto del 2,2 per cento rispetto
al 2002, passando da 10,2 a 10,4 miliardi di tonnellate di Mtep (milioni di
tonnellate di petrolio o prodotti equivalenti). Ebbene, il carbone, il più
inquinante dei combustibili fossili, ha soddisfatto da solo questa crescita,
facendo salire al 24 per cento la sua quota del mercato mondiale
dell'energia, contro il 35 del petrolio e solo il 6 per cento del nucleare
(che vale però il 19 per cento per la produzione di energia
elettrica).Inutile aggiungere che la Cina ha coperto l'80 per cento
dell'incremento del carbone per alimentare le proprie centrali elettriche.
Ma la Cina, che cresce a ritmi vertiginosi, oggi non vale che il 13 per
cento del Pil mondiale, contro il 25 per cento degli Stati Uniti e il 43 di
Europa e Giappone. Se Pechino crescerà ancora, le emissioni di anidride
carbonica delle sue centrali a carbone contribuiranno in maniera decisiva ad
aumentare quell'effetto serra considerato il responsabile degli attuali
cambiamenti di clima. Se nel 1990, quando il fenomeno venne preso sotto
esame, il livello delle emissioni di anidride carbonica veniva calcolato a
quota 100, ora siamo a 120. Non a caso, gli ultimi risultati delle ricerche
effettuate nei ghiacci dell'Antartide dimostrano che l'effetto serra non è
mai stato così alto negli ultimi 450.000 anni. Alla faccia del Trattato di
Kyoto, del mercato dei fumi dove si scambiano i diritti di inquinare alla
stregua delle merci o dei titoli cartacei e delle giuste preoccupazioni
degli ambientalisti.
Ecco perché lo studio del Mit sostiene che il mondo non potrà reggere nello
stesso tempo gli attuali ritmi di crescita economica e garantire il
controllo delle emissioni di anidride carbonica. Certo, si possono ridurre i
consumi, aumentare l'efficienza degli impianti esistenti, evitare gli
sprechi, trovare fonti energetiche alternative non inquinanti, (vento,
maree, solare, fusione dell'atomo) ma ci vuole tempo, mentre la minaccia
dell'effetto serra appare sempre più immanente. Occorre dunque utilizzare la
tecnologia già sperimentata che non produce anidride carbonica, quella
nucleare. Rafforzando il nucleare, triplicarne il livello passando
dall'attuale 19 per cento della capacità mondiale di generare energia
elettrica al 50 per cento in 45 anni significherebbe, sostiene lo studio del
Mit, abbattere del 25 per cento il previsto tasso di aumento delle emissioni
di anidride carbonica da parte delle centrali a carbone, gas e olio
combustibile, ridurne l'apporto di circa 1,8 miliardi di tonnellate.
Sono proprio queste le considerazioni che spingono i governi a rivedere i
loro progetti in materia di energia, gli ecologisti a ritornare sulle loro
convinzioni, e i pochi sostenitori del nucleare a rialzare la testa. Va
detto subito che la lobby nucleare, formata all'epoca da industrie
costruttrici di impianti, fornitori di combustibile, tecnici e scienziati
del settore, ha ormai scarsissima influenza politica dopo la disfatta di
Cernobyl. In Europa qualcosa si muove intorno a Framatome, che concentra le
tecnologie francese e tedesca, negli Stati Uniti domina General Electric, in
Giappone Hitachi, in Italia, un tempo all'avanguardia nel settore, è rimasto
un piccolo presidio di 180 esperti all'Ansaldo Nucleare, un decimo della
forza di vent'anni fa. Ma è possibile che anche in Italia si assista ad una
ripresa della cultura nucleare dopo la pausa di 17 anni e il referendum che
ci ha tagliato fuori da ogni interesse in materia?
"Noi abbiamo mantenuto un presidio che ha operato all'estero per conservare
e aumentare le capacità di progettazione e di realizzazione di impianti in
Romania risponde Roberto Adinolfi, direttore generale della divisione
nucleare di Ansaldo Energia abbiamo portato avanti studi di fattibilità con
Westinghouse per nuovi reattori di tipo avanzato ad acqua pressurizzata da
600 e 1.000 megawatt. Se mai ci dovessero chiamare, siamo pronti".
Più freddamente due esperti del settore, Sergio Vaccà e Giovan Battista
Zorzoli, in uno studio pubblicato dallo Iefe ritengono che il rientro con
successo dell'Italia nella cultura nucleare potrebbe avvenire a due
condizioni ben precise: lo sviluppo positivo di nuovi impianti 'sicuri' da
parte dei paesi che ancora dispongono del know how e l'associazione
dell'Italia nella progettazione e nella gestione di questi impianti. Un
obiettivo facile a dirsi, ma difficile a realizzarsi, sempre che l'effetto
serra non affretti gli avvenimenti, proprio come sta accadendo altrove.