welfare alla scandinava, si può



Quale modello sociale per l'Europa?

Welfare scandinavo, pregi, difetti e sua esportabilità. Una due giorni di
dibattito a Roma

TIZIANA BARRUCCI

Esiste un modello sociale europeo? Quale è il rapporto tra il sistema - o i
sistemi - scandinavi e quelli del resto del continente? Volendo riassumere
in maniera sintetica sono questi gli interrogativi a cui ha cercato di
rispondere la due giorni di approfondimento organizzata dalla Fondazione
istituto Gramsci e la Fondazione Giacomo Brodolini in collaborazione con le
ambasciate di Danimarca, Finlandia e Svezia tenutasi nella capitale nei
locali dell'accademia di Danimarca giovedì e venerdì scorso. Tesi di fondo
dei lavori: l'assoluta non contraddizione tra welfare state - quindi
coesione sociale - e competitività economica del sistema nazione.
Un'analisi, per usare le parole di Paolo Borioni, esperto di processi di
modernizzazione politica e tra gli organizzatori del convegno «per
comprendere l'arcano che vede il `calabrone scandinavo' volare anche se
secondo alcuni non dovrebbe, volteggiando più o meno al livello degli Stati
uniti in pressoché tutti gli indicatori economici, ma rimanendo ben più
avanti sul piano della qualità sociale diffusa». Se da un lato, quindi, è
necessario «confrontare le riforme del welfare scandinavo con quelle
necessarie al welfare italiano ed europeo - prosegue Borioni - individuando
gli elementi di validità e di esportabilità europea dei successi della
flexicurity nordica»; dall'altro sarà necessario uscire dal paludato
dibattito che vuole il welfare causa di perdita di competitività, «partendo
dall'ipotesi che proprio con la loro trasformazione da welfare nazionali
keynesiani a sistemi postnazionali schumpeteriani in economie estremamente
aperte i paesi nordici hanno compiuto il tratto di strada decisivo verso una
loro maggiore imitabilità». E a portare l'esempio di un sistema che funziona
è lo svedese Urban Ahlin, astro nascente del partito socialdemocratico del
suo paese, che non solo spiega come la Svezia abbia oggi un'economia
competitiva grazie alle tasse alte che i suoi cittadini devono pagare, ma
giustifica pure l'euroscetticismo dei suoi connazionali con la paura di
venire inglobati ed essere costretti a rinunciare proprio a quelle strategie
ritenute vincenti. Un approccio troppo legato alla singola nazione che non
aiuterà l'Europa - commenta Tiziano Treu - che ha invece bisogno di essere
unita per essere forte.

Uno stato sociale europeo per ora inesistente quindi, la cui costituzione
«non è praticabile», secondo Cesare Pinelli, docente di Diritto
costituzionale italiano e comparato all'università degli studi di Macerata;
ma che invece dovrebbe convergere attorno a un nuovo concetto di «piena
occupazione a due settori» per l'ex presidente dell'Inps Massimo Paci.
Perché, secondo Pinelli, non solo l'«Unione non ha propri apparati
amministrativi», ma le stesse «istituzioni del welafare e una protezione
sociale dalla culla alla tomba richiedono risorse finanziarie molto più
ingenti di quelle a disposizione dell'Unione». Quell'Unione che dovrebbe
invece puntare - conclude Paci - a una flessibilità oraria del lavoro
volontaria, che metta l'individuo in condizione di dedicarsi ad attività
fuori mercato, riconosciute valide sul piano sociale. In pratica, un nuovo
modello mutuato dai paesi nordici e che permetta a tutte le forme di
occupazione, anche a quelle «non standard», di godere delle principali
tutele sociali, in particolare quelle legate ai rischi di disoccupazione o
di vecchiaia.