europa il welfare del nostro tempo



da aprile
novembre 2003

Modello Europa: Il welfare del nostro tempo

Intervista a Giorgio Ruffolo

L' Europa non ha tassi significativi di sviluppo. Anzi, i dati parlano di
"pericolo stagnazione". Alcuni teorici neoliberisti attribuiscono proprio
alle conquiste del welfare un ruolo di freno dell'economia, alcuni settori
della sinistra finiscono per introiettare l'impostazione liberista. E'
possibile, invece, che proprio il ridisegno dello Stato sociale divenga il
volano di un nuovo modello europeo? Ne discutiamo con Giorgio Ruffolo,
deputato Ds a Bruxelles e direttore del Centro europa ricerche.

Per alcuni, welfare state significa lavoro, pensioni; per altri, comprende
sanità e ambiente. Per altri ancora, deve includere mercato del lavoro e
scuola. Cosa dobbiamo intendere, quando parliamo di welfare state?
Non ostiniamoci a usare parole straniere. Welfare, in italiano, vuol dire
"benessere". Non è una distinzione solo semantica. Più di un secolo fa c'era
l'esigenza di proteggere i più deboli, gli esclusi dal contesto sociale
dalla rivoluzione industriale. Poi questo principio caritatevole si è
evoluto - grazie alla spinta dei grandi sindacati, dei grandi partiti
operai - verso il riconoscimento dei diritti sociali legati alla
cittadinanza. Il campo del welfare attuale dovrebbe essere il riconoscimento
di tutto ciò che è legato ai diritti sociali, che si riconosce come dovuto
al cittadino perché è un cittadino attivo, non suscettibile di essere
scambiato sul mercato secondo una logica disegualitaria. Il che non
significa invadere la sfera del mercato, ma delimitarla. Diritti sociali
sono certamente quelli della pensione e della previdenza, della sanità e,
soprattutto, quello del lavoro.

E qui c'è un punto caldo teorico, perché il lavoro è considerato sia
"diritto" sia "fenomeno di mercato".
E' una contraddizione sociale ed è il cuore del problema del capitalismo
industriale. Un mercato che è un paramercato e nel quale configgono le
esigenze di efficienza, produttività, flessibilità e le esigenze della
cittadinanza. E' una frontiera mobile attorno alla quale si svolge il
conflitto sociale ed è la frontiera sulla quale si coglie la vera
distinzione tra destra e sinistra oggi.
La destra è quella che rivendica la priorità del mercato nella società come
meccanismo di grande efficienza e di accumulazione di ricchezza. L'etica
della destra è l'etica della nonna: bisogna produrre prima di distribuire.
Ma è un etica che si avvita, inevitabilmente, nella produzione per la
produzione. Il momento della distribuzione non viene mai e quello della
competitività rimane al centro della predicazione liberista e oggi
neoliberista. Altra, invece, è l'esigenza di rispondere ai bisogni che
sempre più si presentano come bisogni sociali. In una società ricca,
soprattutto, il benessere, il collegamento tra crescita e benessere passano
dalla soddisfazione di grandi bisogni sociali: l'educazione, la qualità
della vita, l'ambiente, la sicurezza, la protezione dalle malattie ma anche
dalla disoccupazione. Questo dei diritti è un campo distinto da quello del
mercato. Occorre stabilire un equilibrio tra di essi.

In definitiva, sono i temi del riformismo classico.
La possibilità di stabilire un equilibrio è il tema del riformismo vero. La
democrazia può fare un compromesso con il capitalismo. Possono e devono
convivere, non si vedono altri orizzonti e chi li ha visti ha dovuto
sopportare le dure repliche della storia.
Si può eliminare il capitalismo? Nell'orizzonte storico prevedibile e
praticabile, no. Ma si deve per forza accettare tutto quanto viene dalla
libera espressione delle forze in campo nel mercato? Per niente affatto. Una
prova di ciò è nell'esperienza storica delle grandi socialdemocrazie. C'è
stato, in passato, un riformismo forte che, in nome della democrazia,
pretese di cambiare il capitalismo. Non un riformismo debole, come quello
che è praticato oggi nella "terza via", cioè in un capitalismo che pretende
di cambiare la democrazia e gli istituti della democrazia.

E' riproponibile il grande compromesso sociale raggiunto negli anni del
dopoguerra?
No, perché sono stati intaccati in misura irreversibile due fondamentali
istituzioni che si chiamano Stato nazionale e forza operaia (il sindacato).
Il riformismo socialdemocratico non era una predicazione, era una politica
concreta che si appoggiava a quelle due istituzioni. Oggi quelle istituzioni
non reggono più un progetto di compromesso con il capitalismo nel quale
salvare, allo stesso tempo, le finalità della democrazia e le esigenze di
efficacia dell'economia.
Il capitalismo ha cambiato i termini del conflitto con due grandi
iniziative: la globalizzazione - soprattutto la liberazione dei movimenti di
capitale che ha innescato un processo straordinario, incontrollabile di
forza economica - e la riorganizzazione delle tecniche produttive. Due
offensive che hanno spostato i termini della frontiera tra democrazia e
capitalismo a favore del capitalismo. La prima conseguenza è la
disuguaglianza. Una scelta drammatica dal punto di vista delle conseguenze
sociali e politiche.

Una scelta che non si giustifica, visto il dimezzamento dell'attuale
crescita economica, neppure ragionando nei termini canonici "crescita
economica uguale benessere". E allora?
La ricetta neoliberista alla lunga non è sostenibile, ma questo non
significa che non sarà applicata. Perché qualche cosa sia sostituita,
bisogna che ci sia qualche cosa che la sostituisce. E a sinistra non c'è.
C'è una risposta alle nuove condizioni che accettino l'agire delle nuove
forze tecniche, produttive, economiche senza voltare la testa e dire "giù le
mani"? Giù le mani non è una risposta. C'è una risposta rigida, una linea
Maginot con la quale si difendono lo Stato sociale e i diritti. Le linee
Maginot ci hanno però insegnato che sono sempre aggirabili. Così il
capitalismo l'aggira e si rimane a fare i giapponesi, a combattere battaglie
che non ci sono più.

Il cancelliere tedesco Schroeder sembra convinto che solo tagliando il
welfare si salvi il welfare. E' questa la strada?
Sono proposte accomodanti, da "terza via" fumosa. Non è una soluzione vera.
Oggi è in gioco uno spostamento della frontiera tra democrazia e
capitalismo, e questo provoca una lacerazione e una sempre maggiore tensione
sociale non solo dal punto economico e sociale ma anche morale. E'
abbastanza significativo che la bibbia del capitalismo, l'Economist, non
faccia altro che riproporre il problema per cui se il capitalismo disinibito
provoca scandali come quelli degli Stati Uniti (ma che sono diffusi in tutto
il capitalismo mondiale), prima o poi si scava la fossa e determina una
crisi della democrazia. Se n'è accorto l'Economist, è strano che non se n'è
accorta la sinistra.
Non si può tornare agli Stati nazionali, non c'è più la politica
macroeconomica degli Stati e non si può riprodurre la pressione della classe
operaia. I conflitti una volta erano polarizzati, ora abbiamo una società
estremamente frammentata, si è rovesciato il rapporto: non è più "prima il
blocco sociale e poi il partito". Oggi è il partito che deve saper formare
un blocco sociale attraverso un suo progetto.

A crescere, inoltre, nelle società avanzate sono soprattutto i bisogni
sociali.
Aumentano in misura più che proporzionale rispetto ai bisogni mercantili,
prima di tutto per la pressione delle imprese e poi per la pressione sui
costi: siccome i costi dei beni sociali non diminuiscono con l'aumento della
produttività, essi aumentano. Per avere lo stesso mix di beni sociali e beni
privati, occorre variare la proporzione: avere più beni sociali e diminuire
i beni privati. Come si fa? O si aumenta la pressione fiscale oppure,
semplicemente, si tagliano i bisogni sociali.
La risposta della destra è tagliare i bisogni sociali e diminuire la
pressione fiscale e quindi accentuare lo squilibrio tra capitalismo e
democrazia. Si accumulano risorse nel settore privato per aumentare la
competitività. Ma quest'ultima non si può affrontare solo comprimendo i
costi (soprattutto i costi del lavoro). Si deve affrontare aumentando la
formazione, la qualità. Insomma, con tutte quelle strategie che hanno
bisogno di una politica economica attiva e quindi di iniziativa pubblica.
Se si deve affrontare il problema dei bisogni sociali, occorre prima di
tutto vedere se questi beni sociali sono offerti a un grado di efficienza
soddisfacente. Il problema fondamentale che la sinistra aveva cominciato a
porre è quello della programmazione. Non "più spesa o meno spesa". Bisogna
vedere qual è il prodotto che noi diamo, quale è il servizio che rendiamo. E
questo non ce lo dicono le statistiche del Pil, ma degli indicatori sociali.
La sinistra non ha capito che la società deve essere misurata attraverso
degli indici politici, di gradimento, di soddisfazione, di qualità piuttosto
che di quantità. Perché i socialdemocratici svedesi continuano a governare
pur aumentando la pressione fiscale? Semplice: c'è un'adesione collettiva al
bisogno sociale a fronte di un alta qualità dei servizi. La sinistra ha
buttato via questa programmazione come fosse carta straccia.
Un'altra via regia è l'organizzazione del terzo settore. C'è una economia
associativa che permette di organizzare servizi che sono autogovernati da
coloro che li utilizzano. E' un settore di enorme importanza e in
espansione, che realizza una organica partecipazione democratica.
Terza e ultima condizione è che bisogna reagire all'offensiva capitalistica
che ha distrutto le potenzialità autonome degli Stati nazionali europei
creando delle aggregazioni politiche più ampie.

La scommessa dell'Europa è tutta in quest'ultima condizione?
In Europa è possibile riconquistare uno strumento fondamentale: la politica
della domanda, la politica macroeconomia. Cioè inseguire attraverso una
politica della domanda l'obiettivo della piena occupazione, parte integrante
dell'esigenza di benessere, di stabilità e di coesione sociale. L'Europa è
questo, può essere questo: né soltanto un mercato unico, né soltanto una
moneta unica. La sinistra dovrebbe capire che l'Europa è la sola possibilità
per riconquistare un primato della politica rispetto al mercato. Perché è un
grande aggregato di quasi 500 milioni di uomini, più grande di quello
americano e più potente dal punto di vista di quote sul commercio mondiale
della produzione. E dà una potenza alla politica che la politica ha perduto.
Quindi è una contro-controffensiva che dovrebbe essere giocata. Ora il
mercato nazionale non c'è più. C'è un mercato internazionale e quindi ci
deve essere qualcosa, in quel mercato, che possa dare le stesse possibilità
che aprivano gli Stati nazionali.

Nella neonata Costituzione europea si intravede una posizione di questo tipo
o c'è una impostazione di sudditanza ai parametri del mercato?
La Carta costituzionale è un compromesso a un livello piuttosto basso. Certo
non integra l'Europa come la vedeva Spinelli e, soprattutto, non dà la
possibilità di operare immediatamente sul piano macroeconomico. Una delle
più gravi debolezze di questa Carta è la scarsissima attenzione verso la
possibilità di una economia autonoma. Questo è gravissimo, perché l'economia
europea dipende dalla domanda americana. Il problema è il riacquistare
l'autonomia economica e quella politica macroeconomia che hanno gli Stati
Uniti. Il mercato statunitense ha una domanda di politica economica
monetaria e fiscale espansiva. In Europa non ce l'abbiamo. Abbiamo fatto una
moneta senza avere un bilancio federale. Il loro bilancio federale assorbe
circa il 20% delle risorse del Pil, il nostro ne assorbe l'1,4%. Ecco quindi
il determinarsi di uno squilibrio formidabile e l'impossibilità di agire con
una domanda interna, autonoma, sulla nostra economia.

Quindi l'Europa dovrebbe essere, per tutta la sinistra, un'occasione
formidabile. Eppure si discute sul ministro degli esteri ma non si tocca il
nodo economico.
A me della politica estera comune non importa fino a quando non so che
l'Europa può contare con il suo euro. La moneta comune è stato un passo
fondamentale, ma la moneta richiede di essere usata. Se gli sceicchi del
petrolio pretendessero di farsi pagare in euro anziché in dollari, gli Stati
Uniti avrebbero perduto una parte fondamentale della sua egemonia. Molti non
se ne accorgono, ma la cosa grave è che non se ne accorgono a sinistra.
L'importanza della costruzione dell'Europa per la sinistra è tale che forse
dovrebbe porsi il problema di fare un vero partito europeo, un vero partito
transnazionale perché a quel punto i problemi del benessere, di un nuovo
compromesso storico con il capitalismo potrebbero essere affrontati ad un
livello di potenziale economico e politico molto superiore.
Nel chiederci se è possibile di nuovo ristabilire un equilibrio tra
capitalismo e democrazia, tra mercato e politica io rispondo: certo che è
possibile, ci sono tutte le possibilità di farlo, ma passa attraverso delle
innovazioni non da "terza via" ma da "grande politica". La sinistra è in
grado di produrre queste innovazioni? Io ne dubito.

L'innovazione proposta agli elettori è quella del "partito unico
riformista". Qual è il suo giudizio?
Se vogliamo fare delle costruzioni, possiamo sempre mettere i cubetti uno
sopra l'altro sperando che non caschino. Ma dobbiamo chiederci a cosa serve
il "partito unico", quali sono i suoi obiettivi. Di fronte a questi
problemi, quali sono le risposte dei vari Rutelli, Bertoldo, Bertoldino e
Cacasenno? Siamo d'accordo sulla via da intraprendere?
Nel racconto Alice nel paese delle meraviglie, Alice chiede al gatto: "Da
dove si esce?". E il gatto risponde "Dipende da dove vuoi andare". Il
progetto è tutto. Non è la struttura che genera la sovrastruttura, è il
contrario. Il "progettiamo" dovrebbe essere il nucleo di una politica
veramente moderna. Invece, si fa politica come al tempo delle dirigenze e
questo è un problema.

Abbiamo parlato dell'Europa dei 15, ma l'allargamento non scompaginerà i
giochi in tavola?
Sì, li cambierà e in modo notevole. Ci sono dei rischi e delle insidie. Sono
chiare due cose: che era inevitabile che paesi scampati al crollo
dell'impero sovietico cerchino un altro riparo e l'Europa non può dire "voi
no". Ma questi paesi, per molto tempo ancora, agiranno da freno
all'integrazione. C'è un antidoto? Sì, ed è lo stesso antidoto usato con
l'euro. La moneta europea non è stata fatta da tutti. I boemi, i polacchi e
gli ungheresi non adotteranno subito l'euro come moneta unica. La
distinzione tra quello che si può chiamare il nucleo forte della comunità
europea e l'europa mercato aumenterà il suo divario. Con una maggiore
lungimiranza, nulla impedirebbe a Francia, Germania, Italia, Olanda, Belgio
e Lussemburgo di istituire un fondo europeo di investimenti e utilizzare
l'euro come moneta per costruire un debito federale e finanziare un grande
programma comune di investimenti. Il piano Delors era questo, ma il piano
Delors non lo possono fare trenta paesi. Occorre un'iniziativa politica che,
nel cuore di questo grande aggregato, crei un nucleo di potenza.
Per dirla parafrasando il vecchio Pietro Nenni: "O il socialismo sarà
europeo o non sarà".