il welfare che non c'è



da lavoceinfo.it

06-05-2004

Il welfare che non c'è

Cristiano Gori

Non è difficile indicare quali siano i principali rischi - per ampiezza
della popolazione colpita - che il welfare state italiano tutela in modo
inadeguato: sono povertà e non autosufficienza. Milioni di persone le
vivono, ma gli interventi pubblici in proposito sono tradizionalmente
deboli. L'inadeguatezza è evidente tanto nel confronto con i bisogni
presenti nella società, quanto con ciò che viene fatto nel resto d'Europa.

Il tortuoso cammino delle riforme

Le azioni per poveri e non autosufficienti costituiscono il cuore delle
politiche sociali sempre sottovalutate in Italia, di quel welfare pubblico
diverso da pensioni e ospedali così poco sviluppato e così necessario.
Gli atti compiuti in materia rappresentano un valido metro per misurare la
capacità di chi governa di avvicinarsi alle concrete esigenze della nostra
società.
Sono comuni e Regioni, tra forti eterogeneità territoriali, a erogare
servizi e interventi in questo campo, mentre il Governo nazionale fornisce
alcune prestazioni monetarie. Da anni, si discute la possibilità di una più
incisiva azione, attraverso due principali innovazioni: il reddito minimo di
inserimento (1) e il fondo per la non autosufficienza. (2)
Sono stati i Governi di centro-sinistra a portare l'attenzione su reddito
minimo e fondo per la non autosufficienza. La precedente legislatura ha
prodotto un ricco insieme di proposte (si pensi all'opera della Commissione
povertà e della Commissione Onofri) nel tentativo di elaborare una riforma
complessiva del welfare italiano. Tuttavia, non si è riusciti a tradurre il
patrimonio di idee in politiche. Sul fondo per la non autosufficienza non
sono stati compiuti atti concreti. Non si è introdotto il reddito minimo, di
cui pure è stata attivata nel 2000 una sperimentazione in trentanove comuni
(poi diventati trecentosei).
L'attuale esecutivo ha mantenuto una linea univoca: nessun passo in avanti,
bocciatura delle proposte esistenti e assenza di reali alternative. Ha
criticato il reddito minimo nei suoi tratti fondamentali, insistendo sulle
debolezze dei comuni nell'attuare i programmi di inserimento sociale e
sostenendo l'impossibilità di definire una simile misura su scala nazionale.
L'alternativa ipotizzata è il "reddito di ultima istanza", il cui profilo è
rimasto vago e senza alcuna traduzione operativa.
Sulla non autosufficienza, il ministro Girolamo Sirchia ha prospettato nel
tempo diverse ipotesi, senza mai giungere a una proposta definita. Il
centro-sinistra ha proposto l'istituzione di un fondo finanziato attraverso
un'imposta addizionale dello 0,75 per cento su Irpef e Irpeg a livello
nazionale, cui le regioni potrebbero prevedere addizionali aggiuntive sino
ad un massimo di un ulteriore 0,5%. . La commissione Affari sociali della
Camera ne ha approvato il testo, lo scorso autunno, con il voto favorevole
dei parlamentari di maggioranza e opposizione. Il provvedimento è stato poi
bloccato dall'esecutivo, che è contrario all'innalzamento della pressione
fiscale.
In assenza di riforme nazionali, le Regioni seguono strade diverse: alcune
non investono su questi temi, mentre altre compiono notevoli sforzi. La
Campania ha recentemente avviato una propria sperimentazione di reddito
minimo. Trento, Bolzano ed Emilia Romagna hanno costruito articolati
progetti di fondi per la non autosufficienza. L'impressione è che con questo
scenario la responsabilità dell'azione sarà sempre più nelle mani dei
governi regionali.

Tra rischio di oblio e confronto con la realtà

Il rischio è oggi che le riforme scivolino in un angolo sempre più remoto
dell'agenda politica. Spinge in questa direzione la riduzione delle
aspettative dovuta a un decennio di tentativi falliti. Anche le complessive
tensioni della finanza pubblica restringono gli spazi per progettare riforme
legate all'incremento della spesa.
Ma se guardiamo alla concreta realtà del nostro paese, è difficile avere
dubbi sulla necessità delle riforme in tema di povertà e non
autosufficienza. Ne sono convinti studiosi e osservatori. Lo dimostrano le
analisi empiriche sui bisogni sociali e stato delle politiche. La
discussione semmai riguarda il disegno delle riforme, quali caratteristiche
potrebbero assumere: chi dovrebbe beneficiarne (quali criteri per avere
accesso al reddito minimo? A chi indirizzare le risorse raccolte con il
fondo?) e quali interventi fornire (quale combinazione tra prestazioni
monetarie e servizi alla persona?).
Particolarmente controverso è il dibattito sul finanziamento delle riforme,
principale scoglio su cui si sono sinora infranti gli sforzi per introdurle.
Tre le domande essenziali: come suddividere le responsabilità tra Stato,
Regioni e comuni? S'intende incrementare la pressione fiscale? Si possono
recuperare risorse all'interno della spesa pubblica esistente?
Punto fermo è la necessità di un forte impegno del Governo centrale.
Lo sostengono molte ragioni, a partire dalle grandi differenze territoriali
e dalla necessità di investire maggiormente su questi temi. Come hanno fatto
recentemente i governi di vari paesi europei.
Con questo non si vuole deresponsabilizzare Regioni e comuni. Il punto è
delicato: basti pensare che diverse Regioni, vivaci nel lamentare le
insufficienti risorse per i servizi sociali assegnate dallo Stato, quando
questo ultimo le ha effettivamente incrementate (attraverso i fondi della
legge 328/2000), non vi hanno accompagnato l'aumento di risorse proprie. (3)
Sembra utile discutere la costruzione di meccanismi incentivanti, capaci di
collegare l'incremento dei finanziamenti centrali a quello dei finanziamenti
degli altri livelli di governo.

Alla ricerca di prospettive

Viviamo oggi la contraddizione di riforme che la società italiana necessita
fortemente, ma sempre più appaiono di improbabile attuazione.
Per fronteggiare il pericolo di un progressivo affievolirsi dell'interesse,
occorre dedicare attenzione alle esperienze regionali innovative, che
costituiscono un proficuo laboratorio di idee per le riforme nazionali e
possono aiutare a mantenere i riflettori accesi su questi temi. È pure
importante diffondere queste conoscenze tra le Regioni.
Al Governo centrale dobbiamo continuare a chieder conto dell'assenza di
politiche e a sottolineare la debolezza delle iniziative messe in campo per
coprirla.
Sul reddito di ultima istanza, l'unico passo è stata la previsione nella
Finanziaria di un co-finanziamento dello Stato alimentato attraverso il
prelievo del 3 per cento sulle pensioni superiori a circa 13mila euro
mensili. All'annuncio non sono seguiti atti concreti e, comunque, le stime
mostrano che si tratterebbe di non più di qualche milione di euro.
In tema di non autosufficienza, anni di belligeranti affermazioni del
ministro Sirchia sono sfociati nella recente attivazione di una
sperimentazione di novanta "custodi sociali" (4) in quattro città, con uno
stanziamento di quattro milioni di euro.
È veramente difficile sostenere che queste iniziative potranno avere un
impatto di qualche significato. Tanto più che si affiancano a atti più
rilevanti che spingono verso la diminuzione degli interventi per poveri e
non autosufficienti, come la riduzione dei trasferimenti agli enti locali.
L'opposizione va spronata a dare maggior risalto a questi temi, con proposte
sempre più articolate.
I nodi da sciogliere non mancano, basta pensare al finanziamento. L'
opposizione sostiene si debba introdurre il reddito minimo e incrementare la
spesa per la non autosufficienza. Le due riforme richiedono un grande
ammontare di risorse pubbliche: ci si chiede in che modo potrà raccoglierle
quando, eventualmente, sarà tornata al potere.

(1) Il reddito minimo di inserimento costituisce una garanzia
universalistica contro la povertà rivolta alle persone con reddito inferiore
ad una certa soglia. È la combinazione di un contributo monetario e di un
programma d'inserimento sociale. (Vedi Chiara Saraceno)
(2) Il fondo può assumere diverse configurazioni, che condividono l'
obiettivo di incrementare le risorse pubbliche dedicate alle persone non
autosufficienti. L'ipotesi oggi più discussa consiste in una tassa ad hoc
(tassa di scopo), un'altra è l'introduzione di uno specifico contributo sul
costo del lavoro. La Commissione Onofri propose - nel 1997 - di alimentare
il fondo attraverso risorse recuperate da altre voci della spesa pubblica
esistente (previdenza). Alcuni sostengono l'introduzione di fondi ad
adesione facoltativa ma questa non potrebbe costituire la soluzione
principale (vedi La voce Beltrametti 16//72002).
(3) Formez (2003), L'attuazione della riforma del welfare locale, Formez,
Roma, (www.formez.it).
(4) Il "custode sociale" ha il compito di individuare gli anziani in
difficoltà - in particolare nei grandi centri urbani - ed aiutarli nel
soddisfacimento dei bisogni primari, a partire dall'acquisto di cibo e
farmaci. Se necessario, li mette in contatto con i servizi sociali e
sanitari.