europa e modernizzazione ecologica



La modernizzazione ecologica dell'economia nell'era della globalizzazione

di Edo Ronchi


Londra, capitale della rivoluzione industriale e che, ai primi del 900, era
la più grande città del mondo, è stata a lungo anche la capitale mondiale
dell'inquinamento.
Il termine smog nasce proprio a Londra ed indica la somma di smoke e fog, di
fumo e nebbia.
La situazione dell'inquinamento era veramente pesante. E' passata alla
storia la morte di oltre 4.000 londinesi durante un nebbione che colpì la
città, dal 4 al 10 dicembre del 1952: basse temperature, assenza di vento,
emissioni inquinanti del riscaldamento domestico e degli impianti
industriali a carbone provocarono una vera strage. Ci vorranno circa 30 anni
per arrivare, negli anni '80, a ripulire l'aria, con una legislazione
anti-inquinamento sempre più rigorosa che eliminò il "fumo di Londra",
sostituendo il carbone con gas o elettricità negli usi domestici,
migliorando e decentrando molte produzioni industriali.
La stessa strada fu seguita anche dalle altre importanti città ed aree
industriali del Pianeta.
Il distretto industriale della Ruhr, il più importante della Germania, è
stato fortemente inquinato fino agli anni '60 e solo nel trentennio
successivo fu oggetto di normative ambientali che hanno prodotto tagli
drastici delle emissioni inquinanti.
Negli Stati Uniti, le principali città industriali, da New York a Pittsburg,
da Chicago a St. Luis, per citarne alcune, sono state grandi divoratrici di
energia, in particolare di carbone, ed anche fortemente inquinate, almeno
fino agli anni '60, quando cominciarono a prendere provvedimenti che
produrranno miglioramenti sostanziali.
L'area più inquinata del Giappone era il distretto industriale di Hanshin
che comprende un'impressionante continuità e commistione di abitazioni ed
industrie, attorno alle città di Osaka e Kobe (Osaka era chiamata dai
giapponesi "città del fumo").
Dopo le distruzioni causate dai bombardamenti statunitensi, Hanshin fu
ricostruito rapidamente e divenne un luogo dove le industrie, per il
"superiore interesse nazionale", ebbero licenza di inquinare selvaggiamente.
Il problema fu affrontato tardi, anche in Giappone, ma con decisione: nel
1955 il carbone costituiva la metà delle fonti energetiche primarie, nel
1975 era ridotto ad un sesto; nel 1983 il consumo energetico per unità di
prodotto dell'industria mineraria e manifatturiera era sceso ad un terzo di
quello del 1973.
Aiutati da un recente lavoro storico di Mc Neil (John R. Mc Neil, "Qualcosa
di nuovo sotto il sole, Storia dell'ambiente nel XX secolo", ed. Einaudi
2002), dagli esempi sommariamente citati traiamo le seguenti conclusioni: la
questione ambientale fu affrontata con risultati positivi dai Paesi
industrializzati come questione locale a partire da talune città e località
di particolare rilievo e nella parte finale, più matura, del processo di
industrializzazione.
Ritengo che si possa parlare di modernizzazione ecologica dei sistemi di
produzione, negli ultimi decenni del Secolo scorso, perché i consistenti
miglioramenti ambientali furono realizzati, nei Paesi industriali più
avanzati, con innovazioni organizzative, di gestione, tecnologiche, di
processo e di prodotto, come fattori costitutivi di un più avanzato livello
di sviluppo.
Non che le politiche ambientali di quegli anni non avessero oppositori: in
tutti gli esempi considerati, gli oppositori c'erano ed erano anche
consistenti; ma non prevalsero. Le loro previsioni sulla perdita di
competitività e sui costi eccessivi causati dalla nuova legislazione
ambientale si rivelarono infondate. In molti casi, al contrario, la
modernizzazione ecologica fu anche un buon affare: promosse efficienza
energetica e risparmio di combustibile, ricerca ed innovazione, una più
forte identificazione sul mercato del prodotto più pulito come migliore e
quindi più competitivo.
Vediamo un esempio: quello della benzina additivata col piombo. Questo
additivo migliora il potere antidetonante e lubrifica le valvole e fu
impiegato per oltre cinquant'anni nelle benzine, anche se si conoscevano i
suoi effetti nocivi per la salute.
Nonostante le proteste delle compagnie petrolifere ed anche di alcune case
automobilistiche, la benzina con piombo fu vietata nei Paesi industriali,
dagli Stati Uniti al Giappone, all'Europa, alla fine degli anni '80.
L'abolizione della benzina con piombo, incompatibile con l'adozione di
marmitte catalitiche poiché il piombo le mette fuori uso, non mise in crisi
né i petrolieri, né il mercato dell'auto.
I petrolieri modificarono il processo di raffinazione ed i costruttori di
auto introdussero alcune modifiche ai motori e dotarono le auto di marmitte
catalitiche, continuando a vendere come prima; anzi, chi arrivò prima a
produrre benzine e auto meno inquinanti, si aggiudicò anche vantaggi di
mercato.

2. L'ambiente alla fine del XX secolo Nonostante i miglioramenti introdotti
in alcuni Paesi industrializzati ed in talune produzioni e prodotti, il
bilancio sulle condizioni ambientali del Pianeta, ufficializzato ed
ampiamente condiviso al World Summit delle Nazioni Unite sullo Sviluppo
Sostenibile tenutosi, dieci anni dopo Rio, a Johannesburg, tra la fine di
agosto ed i primi di settembre del 2002, è pesantemente negativo ed in
peggioramento.
Dal 1980 al 2000 le emissioni di carbonio in atmosfera, infatti, sono
aumentate da 4,6 a 6,1 miliardi di tonnellate, contribuendo ad aggravare l'
effetto serra ed i cambiamenti climatici.
Dal 1990 al 2000 la Terra ha perso un totale netto di 94 milioni di ettari
di foreste. Più di 11.000 specie sono state incluse negli elenchi di quelle
minacciate di estinzione; circa un quarto delle barriere coralline mondiali
sono state distrutte; più di un quarto dei banchi di pesca mondiali sono
sfruttati ad un livello superiore alla loro possibilità di riproduzione. L'
elenco potrebbe continuare, ma la conclusione è chiara: l'inquinamento
produce ormai danni globali e le risorse naturali sono sempre più intaccate;
alcuni miglioramenti ambientali locali e/o settoriali, pure rilevanti, non
sono sufficienti a rendere sostenibile l'attuale tipo di sviluppo.
Nel XX secolo la popolazione mondiale è quasi quadruplicata (da 1,6 a 6,1
miliardi); l'economia mondiale è cresciuta molto più della popolazione, il
PIL mondiale è cresciuto, infatti, di 14 volte; i consumi di energia di ben
16 volte e la produzione industriale di 40 volte.
Senza dimenticare il fatto che una parte consistente della popolazione
mondiale nei PVS continua ad essere esclusa da ogni forma di benessere e
vive in condizioni di estrema povertà: 800 milioni di persone soffrono la
fame, 1 miliardo e 200 milioni vivono con meno di un dollaro al giorno.
Siamo, quindi, in presenza di un doppio problema globale dell'attuale tipo
di sviluppo: una insostenibilità ecologica ed una sua non estendibilità a
molta parte delle popolazioni del Pianeta.
Per capire meglio questa affermazione vediamo l'esempio del petrolio, la
risorsa naturale economicamente più importanti del XX secolo, che
maggiormente contribuisce al più grave problema ambientale globale, il
cambiamento climatico.
Gli americani hanno consumato, nel 2000, 3,5 tonnellate di petrolio a testa;
gli europei 1,5 tonnellate a testa; le popolazioni dei Paesi in via di
sviluppo (PVS), solo 0,25 tonnellate a testa. Per estendere alle popolazioni
dei PVS i consumi degli europei, già più moderati di quelli americani,
supponendo che nel frattempo i consumi americani ed europei non crescano,
occorrerebbero altre 6,2 miliardi di tonnellate di petrolio, quasi
triplicando i consumi attuali. Ciò comporterebbe un insostenibile aumento
delle emissioni di CO2, un tale incremento del prezzo del barile da produrre
un vero shock all'economia internazionale; ammettendo che fosse disponibile
una capacità produttiva per far fronte ad una simile crescita della domanda,
sarebbe comunque accelerato l'esaurimento delle riserve e verrebbero
fortemente alimentati i conflitti, politici e militari, per il controllo dei
giacimenti di petrolio (che sono per il 78% nei Paesi OPEC).
La conclusione di queste, difficilmente confutabili, valutazioni, a me pare
chiara: il modello di produzione e di consumo ad alto contenuto di petrolio
non è né sostenibile a lungo, né estendibile alla gran parte delle
popolazioni della Terra.

3. La via di Johannesburg
"Lo sradicamento della povertà, il cambiamento dei modelli insostenibili di
produzione e consumo e la protezione e la gestione delle risorse naturali,
fondamentali per lo sviluppo economico e sociale, sono contemporaneamente
obiettivi principali e presupposti essenziali per lo sviluppo sostenibile"
(da Plan of Implementation del World Summit di Johannesburg, 4 Settembre
2002).
La più importante novità di Johannesburg ritengo sia proprio la rilevanza
attribuita al cambiamento dei modelli di produzione e di consumo
insostenibili, cambiamento collocato tra i tre obiettivi e presupposti
fondamentali dello sviluppo sostenibile.
Nel terzo Capitolo del Piano di Johannesburg sono riassunti i contenuti di
una modernizzazione in chiave ecologica dei modelli di produzione e di
consumo.
In linea generale viene proposto di "sviluppare politiche di produzione e di
consumo che migliorino i prodotti ed i servizi forniti riducendo gli impatti
sull'ambiente e sulla salute", aumentando notevolmente l'ecoefficienza, in
modo da poter fare di più e meglio, per far fronte ai bisogni di tutte le
popolazioni della Terra, con minor consumo di risorse naturali e minore
inquinamento.
Si afferma, inoltre, che occorre "aumentare notevolmente e con urgenza la
quota globale delle fonti di energia rinnovabile", insieme ad "un uso più
efficiente dell'energia" e ad "un'accelerazione delle tecnologie ad alta
efficienza energetica".
Per i trasporti, altro settore strategico, il Piano indica la necessità di
avere trasporti "accessibili, efficienti e comodi", con tecnologie
veicolari, modalità e destinazioni d'uso del territorio che consentano di
migliorare la qualità dell'aria delle città e di ridurre l'emissione di
gas-serra, nonché la congestione del traffico.
Per questo sarà necessario: "promuovere gli investimenti ed i partenariati
per lo sviluppo di sistemi di trasporto multi-modali sostenibili ed a
risparmio energetico, compresi sistemi di trasporto pubblico collettivi".
Il terzo settore nel quale viene posta l'attenzione del Piano di
Johannesburg riguarda i consumi di materiali per i quali si richiede di
"minimizzare e prevenire gli sprechi e massimizzare il riutilizzo, il
riciclaggio e l'uso di materiali ecocompatibili...per minimizzare gli
effetti nocivi sull'ambiente e migliorare l'efficienza delle risorse".
Il che comporta, tra l'altro, di "promuovere la prevenzione e la
minimizzazione dei rifiuti incoraggiando la produzione di beni di consumo
riutilizzabili e di prodotti biodegradabili", nonché "costruire sistemi di
gestione dei rifiuti dando la massima priorità alla prevenzione ed alla
minimizzazione dei rifiuti, al riuso ed al riciclaggio..".
Infine, l'attenzione viene posta sui prodotti chimici ed i rifiuti
pericolosi, che vengono generati in grandi quantità e diffusi praticamente
in tutto il Pianeta, per i quali si richiama la necessità di applicare il
principio di precauzione.
Per la realizzazione di questi obiettivi viene, infine, proposta una vasta
gamma di strumenti che vanno dal rafforzamento della ricerca scientifica e
tecnologica, agli incentivi economici e fiscali, dall'orientamento dei
consumatori, alla responsabilizzazione delle imprese con sistemi di
contabilità e di certificazione ecologica.

4. La modernizzazione ecologica all'inizio del XXI secolo
Il World Summit di Johannesburg fornisce una chiave di lettura delle
politiche ambientali globali, all'inizio di questo nuovo Secolo, consentendo
alcuni confronti con quelle attuate nei Pesi più industrializzati negli
ultimi decenni di quello passato.
Le politiche ambientali degli ultimi decenni del secolo scorso erano, come
abbiamo avuto modo di osservare, essenzialmente locali, attuate per
affrontare problematiche anche gravi, ma con impatti sostanzialmente
circoscritti.
Nelle politiche ambientali del nuovo Secolo ha grande peso la tutela dei
"global commons", dei beni globali di interesse comune, come l'atmosfera, il
clima, la biodiversità. La globalizzazione dei mercati, dei nostri modelli
di produzione e di consumo, ha compiuto enormi passi avanti in pochi
decenni. L'insostenibilità dei nostri modelli di produzione e di consumo, ad
elevato spreco di risorse, basati su energia fossile e con elevato
inquinamento, è diventata ormai globale.
Il Summit di Johannesburg, alla ricerca di una via per assicurare a tutte le
popolazioni della Terra uno sviluppo durevole e possibile, propone una
modernizzazione ecologica dei modelli di produzione e di consumo, non più
riferita solo agli impatti locali, non più come politica successiva allo
sviluppo industriale, ma come costitutiva della stessa qualità dello
sviluppo.
Questa impostazione è stata anticipata dall'Unione Europea che, non a caso,
a Johannesburg ha svolto un ruolo di punta.
In particolare, con il "processo di Cardiff" (dalla città gallese dove, nel
giugno 1998, si riunì il Consiglio europeo), l'Unione ha avviato l'
integrazione delle politiche ambientali e di sviluppo sostenibile in tutti i
principali settori economici (trasporti, energia, agricoltura, mercato
interno, industria, cooperazione, pesca, economia ed affari generali) con l'
adozione, per misurare i progressi, di indicatori settoriali di sviluppo
sostenibile.
Successivamente, con la "strategia di Lisbona" (dalla città portoghese dove,
nel marzo del 2000, si è tenuto il Consiglio europeo), è stato definito il
"pilastro sociale" del progetto di sviluppo sostenibile, per sradicare la
povertà, combattere la disoccupazione e l'esclusione sociale, con l'
obiettivo di dare vita, in Europa, all'economia più dinamica e competitiva
del mondo.
Il "processo di Cardiff" e la "strategia di Lisbona" sono due facce della
stessa medaglia: la sostenibilità viene, infatti, promossa in un contesto di
innovazione, di efficienza e la competitività viene perseguita con politiche
che assicurino migliore qualità, migliore utilizzo di risorse scarse,
maggiore efficienza energetica e minori impatti ambientali.
In questo modo, la modernizzazione ecologica, mettendo in sinergia
sostenibilità e competitività, può diventare un fattore decisivo per lo
sviluppo di economie più avanzate: le economia della conoscenza e dei
servizi, ad alto contenuto di quella risorsa preziosa e rinnovabile che è l'
intelligenza con le sue protesi tecnologiche ed informatiche, capaci di
ridurre i consumi di risorse naturali e gli impatti, non solo locali, ma
anche globali, capaci, inoltre, di promuovere cambiamenti di consumi e di
stili di vita, con più qualità e sobrietà, maggiore consapevolezza e
capacità culturale di relazione.
Il problema di questa prospettiva economica, sociale ed ecologica, non è
tanto nei suoi obiettivi finali, sui quali non è difficile costruire ampi,
anche se ovviamente non unanimi, consensi. Il problema è l'atterraggio
morbido verso quella prospettiva: atterraggio morbido necessario per avere
quel consenso che, nei sistemi democratici, è indispensabile per attuare
politiche rilevanti ed anche per costruire intese, tra Paesi
industrializzati e Paesi in via di sviluppo per affrontare i temi di
rilevanza globale.
Alla fine del Secolo scorso, per un insieme di fattori, la modernizzazione
ecologica ha trovato nei Paesi più industrializzati la via per un
atterraggio morbido. All'inizio di questo nuovo Secolo, nel contesto di una
più estesa globalizzazione, tale via, che richiede maggiori e più radicali
innovazioni e più complessi approcci multilaterali, risulta più difficile da
tracciare e da percorrere.