inserimento professionale neolaureati



da lavoceinfo
10-02-2004

Il conflitto che non c'è

Mauro Sylos Labini

Se volessimo analizzare il mercato del lavoro dei laureati applicando un po'
ingenuamente la teoria della domanda e dell'offerta e l'analisi costo
opportunità, il caso italiano ci metterebbe di fronte a diverse
contraddizioni.
I pochissimi laureati (l'offerta potenziale) dovrebbero trovare lavoro molto
rapidamente o guadagnare salari relativamente alti rispetto ai più numerosi
colleghi di altri paesi industrializzati (supponendo che la domanda di
laureati sia approssimativamente la stessa).
Inoltre, dato il livello relativamente basso delle tasse universitarie,
sarebbe ragionevole aspettarsi molti laureati e una elevata mobilità
intergenerazionale. Anche con un mercato dei capitali imperfetto, infatti,
le condizioni di partenza (per esempio il reddito dei genitori) non
dovrebbero influenzare troppo la probabilità che ciascuno riesca a
laurearsi.
I dati a disposizione dipingono, invece, un quadro completamente capovolto.
Chi si laurea aspetta molto tempo prima di trovare un impiego, non guadagna
un salario particolarmente elevato, fa parte di quel misero 10 per cento
della popolazione (di età compresa fra i 25-64 anni di età) che ha ottenuto
il titolo, e ha molto probabilmente genitori con un elevato livello di
istruzione. (1)

Un mercato particolare

Il mercato del lavoro (lo riconoscono persino gli economisti) è però un
mercato piuttosto particolare.
La storia, le caratteristiche del sistema scolastico e le idiosincrasie di
un paese di recente industrializzazione non possono essere trascurate.
Inoltre, una struttura industriale sbilanciata sui settori tradizionali,
rendendo la domanda di lavoro qualificato più bassa rispetto ad altri paesi,
spiega parte delle contraddizioni.
Al tempo stesso, però, le modalità con cui gli individui e le imprese si
incontrano nel mercato possono aiutare a comprendere e riformare alcune
patologie del sistema: attraverso quali canali circola l'informazione sulle
opportunità di lavoro? Quali sono gli incentivi a studiare e laurearsi per
chi non ha l'aggancio giusto (se questo è l'unico modo per non rimanere
disoccupati)? Le imprese che assumono possono fare affidamento sui risultati
universitari per valutare un potenziale candidato? E ancora, perché, in
Italia non esistono istituzioni che migliorino l'incontro fra domanda e
offerta?

L'indagine sull'inserimento professionale dei laureati

I dati che riguardano i processi di transizione dall'università al lavoro
sono essenziali per rispondere a tali interrogativi. L'Istat svolge ogni tre
anni un'"Indagine sull'inserimento professionale dei laureati", che, oltre a
raccogliere dati su curricula scolastici e universitari e condizioni
lavorative di un campione di individui a tre anni dell'ottenimento della
laurea, offre utili informazioni sui metodi da loro utilizzati per trovare
lavoro.
Il metodo basato su segnalazioni fornite da parenti, amici o conoscenti al
proprio datore di lavoro solleva interessanti interrogativi. In particolare,
è importante distinguere fra la classica raccomandazione familiare e la
segnalazione disinteressata di un collega e il questionario dell'Indagine,
con qualche accorgimento, lo consente.
Quali sono le caratteristiche degli individui che utilizzano i diversi
legami informali? Qual è il loro impatto su occupazione e salari?

I dati mancanti

Per fornire risposte accurate è importante avere informazioni precise su
salari e residenza geografica degli intervistati.
Purtroppo, nei dati diffusi, i primi sono aggregati in macro-classi
(compaiono quattro numeri che indicano ampi intervalli salariali), mentre le
informazioni sulla residenza segnalano soltanto macro-regioni (se un
laureato risiede a Bari è possibile sapere che vive in Puglia, Basilicata o
Calabria).
Tralasciando inutili tecnicismi, risulta evidente come le aggregazioni
costituiscano un ostacolo alla misurazione accurata dei fenomeni rilevanti.
Quando, rivolgendomi all'ufficio Istat responsabile, ho provato a chiedere i
dati mancanti, disponibili ma non divulgati, la risposta è stata: non
possiamo per motivi di privacy.
Considerando le caratteristiche del campione (17.326 anonimi rispondenti su
una popolazione di 105.097 individui), credo che né il salario puntuale né
la provenienza geografica provinciale avrebbero consentito di collegare i
dati alle persone fisiche che hanno partecipato all'indagine.
La riservatezza, in questo caso, non sembra in pericolo e a mio avviso non
giustifica la mancata diffusione.
Qualunque sia la ragione di tale scelta, credo si possa fare uno sforzo
ulteriore per permettere l'utilizzo a fini di ricerca delle informazioni
disponibili.
I recenti segnali di apertura, anche grazie al classico sasso nello stagno
lanciato da Andrea Ichino e da lavoce.info, costituiscono un utile passo
avanti per un rapporto più aperto e trasparente fra l'Istituto nazionale di
statistica e i ricercatori delle università. Ci guadagnerebbero sia la
ricerca che la qualità delle indagini statistiche.

(1) Per un quadro dettagliato si veda Checchi, D. 2003 "The Italian
Educational System: family background and social stratification."
(http://www.economia.unimi.it/checchi/Pdf/un15.pdf) o per una sintesi in
italiano (http://www.economia.unimi.it/checchi/pdf/un15ita.pdf
(2) In questo caso il "colpevole" indicato dall'Istat non è la legge
675/1996 citata da Andrea Ichino, ma il decreto legislativo n. 322 del 6
settembre 1989.