il paese dove le api non volano più



il manifesto - 12 Marzo 2004


Viaggio a Karabash, il «buco nero del mondo» nella regione degli Urali
Il paese dove le api non volano più
ASTRIT DAKLI
INVIATO A EKATERINBURG

Viaggio a Karabash, il «buco nero del mondo» nella regione degli Urali
Il paese dove le api non volano più
Milleduecento abitanti di Karabash, la città «cratere» dove le stagioni
hanno un unico colore metallico, hanno scritto una lettera a Putin per
sollecitare il presidente sui problemi della loro città, avvelenata dai gas
tossici di una fonderia che viola ogni giorno le leggi federali. In cambio,
hanno ricevuto soltanto intimidazioni e denunce penali. Eppure laggiù le
ciminiere sparano in aria dodicimila tonnellate di anidride solforosa che
uccidono animali, uomini e bambini

ASTRIT DAKLI
INVIATO A EKATERINBURG

La lettera al presidente Putin, firmata da milleduecento dei quindicimila
abitanti di Karabash e spedita il 5 febbraio scorso, parlava chiaro:
«Stimato Vladimir Vladimirovic - recitava più o meno - sappiate che questa
città sta morendo, perché le leggi dello stato qui non sono applicate. Se
non ci aiutate a fermare chi ci avvelena giorno dopo giorno violando tutte
le leggi federali, il 14 marzo boicotteremo in massa le elezioni
presidenziali. Salvate le nostre vite!». L'esito non è stato quello sperato:
al contrario, sono arrivate minacce, denunce penali e persino aggressioni di
sconosciuti nei confronti dei firmatari più noti; e giunti ormai alla
vigilia del voto, gli sfortunati cittadini di Karabash cominciano a pensare
che forse nemmeno il tanto popolare «zar buono» si interessa della loro
sorte - come del resto i media nazionali, preoccupati che la protesta di
quei disperati possa contagiare tanti altri centri della Russia dove orrori
ecologici, avidità imprenditoriali e corruzione degli apparati di stato
stanno riducendo ai minimi termini le capacità di sopravvivenza fisica della
gente. È una storia esemplare di cosa voglia dire «democrazia» e di che
significato possa avere un appuntamento elettorale come questo per gli
abitanti della Russia profonda - che poi è, forse con qualche estremo di
meno, la realtà della più gran parte della popolazione.

A Karabash si arriva con un volo di due ore da Mosca su Ekaterinburg, il
capoluogo della regione industriale e mineraria degli Urali, e poi con altre
due ore di auto attraverso bei boschi, fra laghetti e dolci colline. Ma il
paesaggio cambia di colpo, in modo drammatico, negli ultimi cinque
chilometri.

Si racconta che gli astronauti, orbitando intorno alla terra, vedano
benissimo Karabash, la cui area si presenta dall'alto «simile al cratere
lasciato da un'esplosione nucleare». E anche dal basso ci si accorge
benissimo quando si entra in questo cratere, definito dall'Unesco (ma forse
fa parte della mitologia negativa locale) «il buco nero del mondo». La
vegetazione si rarefa fino a sparire. I laghetti sono pieni di un liquido
(difficile chiamarlo acqua) multicolore cangiante, tendente al rosso. Le
colline sono dei grandi coni neri con riflessi metallici. E in mezzo a tutto
questo, nel centro del cratere, i camini fumanti della fabbrica, con
tutt'intorno le case di Karabash. Non si può sbagliare, ci siamo.

D'inverno, certo, la neve che cade continuamente serve a incipriare un po'
il volto spaventoso del luogo: la dominante nera - che ci aveva davvero
spaventato durante la prima visita, nel luglio di dieci anni fa - adesso non
si nota tanto. In compenso basta dare un calcio a un mucchio di neve ai
margini della strada per notare gli strati sovrapposti bianchi-grigi-neri
che testimoniano mesi di lotta tra neve fresca e polveri. Le ciminiere ne
sparano in aria dodicimila tonnellate all'anno, oltre a ottantamila
tonnellate di anidride solforosa e a una lunga teoria di altri agenti
tossici, in particolare composti con metalli pesanti. In cambio, dalle porte
della fabbrica sono uscite l'anno scorso cinquantamila tonnellate di rame
raffinato, più (pare) varie tonnellate di argento e anche oro, presenti in
piccole quantità nel minerale trattato. Sarà per questo che il maggior
negozio - una porticina e due vetrinette - del tristissimo paese reca
un'insegna più grande dell'edificio: «Eldorado».

Nonostante il silenzio e l'aria agreste che regna tra le dacie di legno
della periferia, si nota presto che non volano né uccelli né insetti. «Anche
tutti i pesci del fiume Sjerebro, che passa qui vicino, sono scomparsi»,
racconta Sasha O. davanti alla sua casetta. Ufficiale dell'esercito,
ritiratosi qui in pensione nel `95 perché la moglie voleva stare con la sua
famiglia, è diventato un ecologista «il primo maggio del `99, quando dalle
ciminiere è uscito qualcosa di sbagliato e d'un colpo tutte le mie api, che
tenevo da quattro anni, sono morte. L'anno scorso, in giugno, un'altra
fumata sbagliata e tutte le foglie sono ingiallite e cadute; negli orti non
cresce quasi più niente. Ogni tanto, a seconda di come gira il vento, la
radio dice di restare tutti chiusi a casa...».

Non muoiono soltanto le api, da queste parti. «Solo che i medici, quando
firmano la diagnosi di un decesso, scrivono sempre `insufficienza
cardiaca' - racconta Vladimir G., un insegnante - per evitare fastidi con le
autorità, a cui non piace si metta nero su bianco la parola `cancro'. Ma noi
sappiamo benissimo di cosa si tratta. Così come so benissimo che ogni anno
aumenta il numero dei bambini che nascono `down', ormai comincio a vederne
anche a scuola, anche se nelle statistiche non compaiono. Quasi tutti i
bambini hanno malattie croniche, soprattutto respiratorie, del sangue, del
sistema endocrino. E ho ricevuto minacce quando ho cominciato a parlarne in
giro».

L'esasperazione cui sono giunti gli abitanti di Karabash, o almeno la più
gran parte di essi, è assoluta: ma tutte le vie d'uscita sembrano chiuse.
«Ci siamo rivolti a ogni autorità possibile, e da molti alti organi centrali
dello stato sono venute conferme della gravità della situazione, senza che
niente cambiasse» - racconta Renat Yumadylov, ex minatore oggi invalido, in
pensione e titolare di un minuscolo negozietto, ma soprattutto uno dei
consiglieri comunali che guidano la protesta. «Alla fine abbiamo scritto una
lettera aperta al presidente Putin. Le leggi che ci dovrebbero proteggere
esistono: com'è possibile che non vengano rispettate? Noi non vogliamo la
rivoluzione, non vogliamo imporre niente con metodi illegali, vogliamo
soltanto chiedere, nel modo più pacifico e legale, che si rispettino le
leggi e che ci si lasci vivere senza avvelenarci. Vogliamo tenere un
referendum cittadino sulla sospensione dell'attività della fabbrica fino a
quando non saranno installati i depuratori promessi».

Solo che, come si accennava all'inizio, questa sembra una pretesa eccessiva.
«Due giorni dopo aver reso pubblica la lettera a Putin, firmata da
milleduecento cittadini, la procura di Celjabinsk mi ha denunciato per aver
tenuto una `assemblea popolare illegale' - io, che sono consigliere
comunale! - e il giorno dopo due sconosciuti mi hanno aggredito nell'androne
di casa mia, colpendomi alla testa e alla schiena con un bastone. La polizia
di qui mi ha detto `non sappiamo che farci'; poi mi ha telefonato Tretjakov,
ispettore federale per la regione di Celjabinsk, dicendomi che questo
referendum non è opportuno».

Dal Cremlino, comunque, è arrivata una risposta alla lettera dei cittadini:
due righe due per dire che la questione è stata segnalata al ministero
competente, punto. Con tutto ciò, la fiducia di Renat non è venuta meno. «Io
penso che Putin sia un buon presidente, e che se sapesse davvero quel che
succede qui, risolverebbe le cose in un momento. Ma il fatto è che intorno a
lui ci sono persone non diverse dai nostri amministratori, persone a cui non
interessa affatto il parere o la salute della gente qualsiasi. Però io credo
che il referendum lo faremo. Non sarà abbinato alle elezioni come volevamo,
sarà più tardi, ma si farà. Non occorre il benestare del governatore, basta
il parere del tribunale». E pensa che il tribunale di Celjabinsk, contro la
volontà del governatore, darà questo parere? «Perché no? La legge dice che
si può fare, dunque...».

Anche Sasha, l'ex ufficiale, condivide questo inspiegabile ottimismo. «Sono
sicuro che il presidente risolverà questa situazione, riporterà la legge
anche qui, come nel resto della Russia; anche se il governatore o il sindaco
fanno finta che la legge non ci sia, dovranno adeguarsi, Putin conta più di
loro». Vladimir, l'insegnante, è uno dei pochi che di fiducia invece non ne
ha più. «No, non mi aspetto più niente. Ero contento ai tempi della
perestrojka, ma poi ho capito che da noi il sistema democratico non
funziona: si è fermato subito, lasciando tutto in mano ai peggiori. Di
quella fabbrica avevamo le azioni, ce le hanno portate via per un pezzo di
pane e ora comandano. Noi come cittadini non abbiamo più diritti». Né lui né
gli altri, comunque, andranno alle urne domenica. Almeno questo, sarà
difficile impedirglielo.




La morte della città-fabbrica
Sistemi di filtraggio inesistenti, operai schiavizzati e a rischio salute
È la modernizzazione Licenziamenti a tappeto, inquinamento letale e
investimenti solo nella produzione: è la strategia dell'azienda, in odore di
mafia. Il governatore risponde agli ambientalisti alzando il limite delle
emissioni

A.D.
EKATERINBURG

La storia di Karabash (in lingua tatara «testa nera») è tipica di molte
analoghe città-fabbrica della Russia. L'impianto di raffinazione del rame -
una fonderia, in buona sostanza - risale al 1910 e lavora a pieno regime
fino agli anni `80: è l'unica industria di una città costruitale intorno, e
occupa fino a 6.000 operai, cui si sommano i minatori occupati nelle
numerose miniere adiacenti. In totale, la popolazione arriva a un massimo,
negli anni `50 e `60, di oltre quarantamila abitanti. Poi le miniere
incominciano a chiudere, vuoi per esaurimento del minerale (rame, ma anche
molto altro - qui c'è più o meno tutto quel che si trova sulla tavola di
Mendeleev) vuoi per scarsa redditività. L'ultima miniera del distretto di
Karabash chiude nel `95. Ma intanto, nell'89, per la bassa produttività e le
preoccupazioni circa gli effetti disastrosi sulla salute della popolazione e
sull'ambiente naturale che derivano dalle emissioni di gas e polveri e
dall'accumulo di scorie tossiche, una risoluzione del Soviet supremo
dell'Urss decide di fermare la produzione della fabbrica, la cui «messa in
sicurezza» ha un costo eccessivo. La chiusura avviene molto gradualmente,
tanto che l'ultimo dei quattro forni di fusione viene spento solo nel '96;
una parte dei ventimila abitanti registrati nel `91 si trasferisce altrove
(nel `98 ne rimangono 15mila) o cerca di arrangiarsi con lavoretti e con gli
orti. Karabash diventa una delle tante «città in estinzione» dell'immensa
periferia russa. Nel gennaio `98, tuttavia, alcuni imprenditori - in odore
di mafia, come spesso accade da queste parti - ottengono da Pjotr Sumin,
governatore dell'oblast' di Celjabinsk (la regione cui appartiene Karabash),
il permesso di riprendere la produzione, promettendo l'installazione entro
due anni dei più moderni sistemi di filtraggio per azzerare o comunque
ridurre drasticamente l'inquinamento. Resta oscuro il nodo della proprietà
dell'azienda: nessuno sa dire in effetti a chi appartenga, visto che in
parte è stata privatizzata col sistema dei voucher popolari (titoli di
proprietà distribuiti ai lavoratori nel `92-93) e in parte è rimasta
«statale», ma in effetti divisa tra governo federale, oblast' e municipio.

La ripresa di attività, comunque, serve ad attirare nuovi operai: la
popolazione torna a crescere un po', ma subito è chiaro che la situazione è
disastrosa. Gli impianti lavorano con le vecchie metodologie e senza l'ombra
di un sistema di filtraggio, salari (circa 150 euro/mese) e condizioni di
lavoro sono da schiavi, della salute della popolazione non si preoccupa
nessuno: tanto che in quattro anni morbilità e mortalità a Karabash
aumentano a ritmo incredibile, fino a diventare le peggiori dell'intera
regione degli Urali - già di per sé in condizioni pessime per la presenza di
moltissimi impianti inquinanti: basti pensare che a poca distanza da
Karabash troneggia il famigerato impianto di arricchimento nucleare di
Mayak, responsabile di una serie di catastrofi impressionanti nei decenni
scorsi, nonché dell'incredibile, continuo inquinamento radioattivo di
un'intera vallata, piena di villaggi. Tra il `98 e oggi le nascite si
dimezzano e la mortalità raddoppia, mentre molte malattie - in primo luogo
quelle polmonari, ematiche, ghiandolari - si moltiplicano per quattro.

La direzione della fabbrica nel frattempo ingaggia un conflitto durissimo
con un altro gruppo di imprenditori (altrettanto sospetti) di Ekaterinburg,
che rivendicano di aver acquisito la maggioranza delle azioni. Passano gli
anni: la scadenza del 2000, entro cui dovevano essere installati i
depuratori, svapora nel nulla, e così quella della promessa successiva, il
2002. Non ci sono i soldi, sostiene l'azienda, che però intanto investe
milioni di dollari nella produzione, sospinta evidentemente da profitti che
nessuno controlla - e licenzia personale, in nome della modernizzazione. Gli
occupati, inizialmente 1800, diventano prima 1600, poi 1450. Vengono
promesse nuove assunzioni, mentre la data per i depuratori viene spostata al
2005; ma si viene a sapere che le previsioni interne aziendali parlano
invece di un nuovo forno di fusione, nuovi tagli al personale (fino a 1000
occupati per il 2005) e nessun depuratore.

Una parte della popolazione, guidata da alcuni consiglieri comunali, chiede
a più riprese di rivedere gli accordi con la direzione, ottenendo solo
secchi dinieghi o silenzi; anche le autorità regionali rifiutano ogni
negoziato, mentre il sindaco - l'ex capo delle guardie della fabbrica -
evita che venga presa qualsiasi decisione a livello cittadino. Interviene
una delegazione del Comitato ecologico della Duma federale, che constata il
disastro (nonostante le venga rifiutato l'ingresso in fabbrica) e chiede la
fermata degli impianti: niente. Interviene una speciale commissione del
ministero per le risorse naturali, che a sua volta constata come la fabbrica
stia violando tutti i limiti di legge nelle sue emissioni: in risposta, il
governatore Sumin (che secondo voci correnti è il vero proprietario) alza di
33 volte il limite delle emissioni consentite. C'è anche un problema fiscale
e sociale: la fabbrica dovrebbe per legge pagare 4 milioni di dollari
all'anno al municipio in tasse da destinare a fini sociali, ma non ha mai
pagato nulla, né qualcuno si premura di esigere quei soldi.