conflitti di interesse nelle attività finanziarie



da lavoceinfo.it
martedi 17 dicembre 2004
17-02-2004
Cirio, Parmalat e i conflitti di interesse
Luigi Guiso


Il conflitto di interesse - si verifica quando un soggetto a cui sono
istituzionalmente assegnate alcune finalità da perseguire con il suo
operato, può da questo trarre vantaggi personali, minando il raggiungimento
delle finalità assegnate - può costituire, se non riconosciuto e
controllato, una seria minaccia per gli investitori, fino a ostacolare lo
sviluppo finanziario.
Mercati finanziari poco sviluppati sono, a loro volta, un impedimento alla
nascita delle imprese, alla loro crescita dimensionale, alla produzione e
adozione di nuove tecnologie. In altre parole, un limite allo sviluppo
economico.
Il rapporto del Cepr, "Conflicts of interests in the financial services
industry: what should we do about them?", che verrà discusso in un incontro
ad hoc e di cui www.lavoce.info pubblica oggi un riassunto, mette a fuoco le
origini del conflitto di interesse nei mercati finanziari, ne esamina le
conseguenze e analizza i pro e i contro delle misure per fronteggiarlo.
Perché ci interessa?
Cirio e Parmalat sono vividi esempi in cui il conflitto di interesse di
alcuni degli operatori coinvolti ha avuto un ruolo cruciale. Vediamo perché.
Parmalat. Vi è il fondato sospetto che la società di revisione abbia mancato
di rivelare tutta l'informazione in suo possesso certificando bilanci
alterati e falsificati, consentendo alla truffa imbastita dal management
della Parmalat di perpetuarsi, a danno degli investitori. Perché avrebbe
operato in questo modo esponendosi al rischio di una perdita di reputazione
in un mercato, come quello degli auditor, relativamente competitivo? Perché
chiudere un occhio sulle azioni scorrette del management garantiva il
ripetuto rinnovo del contratto come revisore e possibilmente l'
aggiudicazione di qualche contratto di consulenza. L'auditor era in
conflitto di interesse.
Ma non era il solo. Il collegio sindacale, il principale organo interno di
controllo, ma nominato dal management e retribuito dalla stessa società, era
in una simile situazione. Perché esercitare un controllo contabile severo
(come da compito istituzionale del collegio sindacale) se questo poteva
urtare il management e compromettere la riconferma dei sindaci alla
scadenza? Anche questi ultimi si trovavano in conflitto di interesse.
In conflitto di interesse era pure il consiglio di amministrazione formato
esclusivamente da persone nominate dal manager e scelte spesso tra gli
dirigenti del gruppo. Che incentivo potevano avere, qualora a conoscenza
delle malversazioni contabili che si compivano, ad andare contro il manager
se da questo dipendeva la loro riconferma come consiglieri e, per alcuni, la
carriera futura?
Cirio. In questo caso pure è stato avanzato il sospetto che alcune banche
esposte verso la Cirio abbiano trasferito il rischio ai loro depositanti,
"collocando" nei loro portafogli obbligazioni Cirio, della cui rischiosità
erano, a differenza dei clienti, consapevoli. Il conflitto di interesse
origina in questo caso dal fatto che la banca è allo stesso tempo
prestatrice di fondi alle imprese e consulente finanziario e gestore dei
portafogli dei propri clienti.
Emerge con la banca universale, modello che l'Italia ha adottato con il
nuovo ordinamento bancario del 1993. Il rischio di conflitto di interesse
nella banca universale era noto già dall'intenso dibattito svoltosi negli
Stati Uniti nel 1933 in preparazione del Glass-Steagall Act. Ferdinand
Pecora, consulente del Banking and Currency Commitee, evidenziava: "Si
presume che una banca intrattenga un rapporto fiduciario e protettivo con i
propri clienti e non di un venditore (.). L'introduzione e la diffusione dei
nuovi compiti ha corrotto le fondamenta di questa tradizionale etica della
banca".
Evidentemente l'etica non era sufficientemente robusta da resistere agli
incentivi derivanti dallo sfruttamento del conflitto di interesse. In
Italia, le avverse conseguenze del potenziale conflitto di interesse nel
nuovo modello di banca universale dopo il 1993 sono state largamente
sottovalutate. Il caso Cirio le ha fatte emergere, ma la loro portata è
verosimilmente molto più vasta.
Che fare?
I casi Cirio e Parmalat hanno portato il Governo, su iniziativa del ministro
del Tesoro, a varare un disegno di legge che nelle intenzioni dovrebbe
contenere norme sufficienti a proteggere i risparmiatori da simili casi nel
futuro.
Manca qui lo spazio per entrare in dettaglio nel merito del provvedimento.
Ma un fatto emerge con chiarezza: nel disegno di legge non vi è traccia di
norme mirate a regolare il conflitto di interesse di amministratori e
sindaci. Quelle indirizzate a regolare il conflitto di interesse delle
società di auditing sono, come è stato rilevato, insufficienti.
Non vi sono norme che richiamino i conflitti di interesse delle banche e
individuino misure per fronteggiarli. Eppure, sono i conflitti di interesse
alla base della scarsa protezione dei risparmiatori.
Più in generale, delle varie misure che il rapporto del Cepr suggerisce per
limitare lo sfruttamento dei conflitti di interesse e che sono elencate nel
riassunto pubblicato, nessuna trova spazio nel decreto governativo.
Al Parlamento, il compito di rivedere il testo, contribuendo a riassorbire
il pericoloso sentimento antifinanziario che si è sviluppato tra i
risparmiatori del nostro paese.

17-02-2004
Un'occasione persa
Francesco Vella


Se non verrà adeguatamente modificato e irrobustito dal dibattito
parlamentare, il progetto di legge governativo sul dopo-Parmalat corre il
rischio di divenire la classica occasione persa per un efficace e coerente
rafforzamento del sistema di tutele dei risparmiatori.

Un provvedimento distratto

È, in primo luogo, un progetto palesemente "distratto". Un ipotetico lettore
completamente all'oscuro delle vicende nostrane, scorrendo il testo, non
avrebbe nessuna percezione di tutto ciò che è successo.
È ormai fin troppo noto che la vicenda Parmalat trova soprattutto origine
nelle clamorose e vistose carenze di funzionamento della governance
societaria. Ma su questo terreno il progetto di legge mantiene un assordante
silenzio. Eppure, bastava leggersi il testo della audizione del presidente
della Consob (1) nel corso della recente indagine conoscitiva del Parlamento
(punto 5.1), per raccogliere alcuni suggerimenti su come rafforzare gli
organi di gestione e controllo interno: introduzione degli amministratori
indipendenti, obbligo effettivo di sindaci di minoranza nel collegio
sindacale. Sicuramente queste non sono misure miracolistiche che
garantiscono contro il ripetersi di fenomeni patologici. Possono, però, e
non è poco, contribuire a ridurre le schiere di amministratori disattenti o
conniventi e di sindaci che chiudono un occhio (spesso tutti e due).
Anche per quanto riguarda la disciplina dei soggetti che operano sui mercati
è giusto rafforzare la terzietà dei revisori e la trasparenza delle società
estere, ma non è sufficiente. Occorrono regole più severe, ad esempio
impedendo la quotazione a quelle società che ne controllano altre collocate
nei paradisi fiscali (sempre Parmalat docet) se si accerta che queste non
siano in grado di offrire idonee garanzie di trasparenza e adeguatezza
organizzativa.
In questo quadro si poteva soddisfare un'altra richiesta da tempo avanzata
in più sedi: quella di rendere più stringenti i controlli all'accesso alla
quotazione trasferendo i relativi poteri alla Consob.

Inoltre, tutelare gli investitori significa non soltanto incrementare la
trasparenza, ma anche attribuire a questi strumenti diretti per far valere
le proprie ragioni nei confronti di intermediari scorretti (ad esempio,
introducendo le class action). Quando poi opportunamente si amplia e si
appesantisce l'apparato sanzionatorio, bisogna mostrare grande equilibrio e
non seguire comportamenti schizofrenici: perché raddoppiano le pene per i
revisori, così come per gli amministratori che ostacolano l'esercizio dei
controlli, mentre tutto rimane tranquillamente come prima per chi falsifica
i bilanci?

Molta confusione e una pillola avvelenata

È innegabile, però, che la parte più deludente della proposta governativa è
quella relativa al riassetto dell'organizzazione della vigilanza.
Dopo bellicosi annunci e animate discussioni sui modelli più funzionali a un
riordino delle competenze in grado di aumentare l'efficacia dei controlli,
il Governo ha abbandonato l'idea dell'Autorità unica, senza però avere il
coraggio di optare fino in fondo per il sistema alternativo della
ripartizione per finalità.
Il risultato corre il rischio di essere una grande melassa dove tutto si
confonde (e soprattutto si confondono i confini tra le competenze delle
Autorità).
Giustamente l'articolo 2 attribuisce alla nuova Superconsob i compiti di
trasparenza e alla Banca d'Italia quelli di stabilità. Quando, però, si
ripartiscono i poteri, alla prima vengono in realtà trasferite competenze
che sono anche di stabilità (ad esempio in tema di raccolta del risparmio e
di controlli sulle emissioni di valori mobiliari). Né si capisce il motivo
per il quale, dopo tanti proclami sulle giuste esigenze di semplificazione,
debbano rimanere in vita altre autorità, come l'Isvap, che esercitano
contemporaneamente controlli di trasparenza e di stabilità. In sostanza, la
confusione regna sovrana.

Assoluta chiarezza c'è invece nell'autentica pillola avvelenata per l'
autonomia delle Autorità contenuta nell'articolo 30 sul Comitato
interministeriale per il credito e il risparmio.
Appare chiaro infatti il desiderio di recuperare gli spazi del controllo
governativo sulla vigilanza, un territorio che dovrebbe invece rimanere di
esclusiva pertinenza delle Autorità.
Il Cicr conquista il potere di dettare atti generali sui "criteri dell'
attività di vigilanza" di tutte le Autorità, quindi della nuova Consob e
della Banca d'Italia. Prima esercitava le sue competenze soltanto nell'
ambito del Testo unico bancario e solo in materie specificamente attribuite.
Inoltre, il Comitato potrà chiedere dati notizie e informazioni generali a
tutte le Autorità.
Si cerca di rivalutare un organismo che nel passato non ha funzionato e la
cui recente notorietà è dovuta soprattutto ai "duelli" tra ministro del
Tesoro e governatore della Banca d'Italia. E lo si fa attribuendogli
competenze generali che, un po' sinistramente, riecheggiano quei poteri di
direttiva che aveva il vecchio Comitato dei ministri previsto dalla legge
bancaria del 1936.

Il pericolo, proprio le ultime vicende lo testimoniano, è quello di una
ingerenza della politica nella attività di vigilanza e di un contemporaneo
appannamento di quei principi di indipendenza delle Autorità che lo stesso
progetto governativo richiama all'articolo 2.

Questo non significa che le Autorità per essere autonome debbano agire con
logiche autoreferenziali, senza rispondere a nessuno del proprio operato. Ma
la via maestra per una loro efficace responsabilizzazione è un'altra.
Bisogna definire con precisione competenze e poteri riducendo quanto più
possibile gli spazi di discrezionalità. Occorrono coraggiosi interventi, e
non soltanto sulla Consob, ma anche sulla Banca d'Italia, per rendere più
trasparenti le strutture di governance e i processi decisionali.
È infine è necessario imporre un rapporto di costante interlocuzione e
verifica con le competenti commissioni parlamentari.