promesse e rischi dei farmaci



da l'unità

 02.01.2004
Promesse (e rischi) dei farmaci su misura
di Cristiana Pulcinelli

 Le grandi industrie farmaceutiche lo stanno già facendo: raccolgono
campioni di Dna per creare banche dati genetiche. Di solito avviene durante
la sperimentazione clinica di farmaci: si chiede ai pazienti coinvolti di
donare un po' del loro sangue per una futura ricerca genetica per ora non
meglio identificata. E i pazienti, normalmente accettano.
A cosa servono queste banche dati? Ad alimentare studi genetici, in
particolare quelli di farmacogenetica e farmacogenomica, due paroline
magiche che potrebbero cambiare radicalmente la medicina che conosciamo.
Alcuni ci credono a tal punto da investire fior di quattrini nello sviluppo
di queste nuove branche. Altri invece sono ancora scettici, soprattutto per
quanto concerne gli aspetti bioetici che queste ricerche sollevano.

Farmaci inefficaci

Per cercare di convincere i dubbiosi, Allen Roses, direttore della divisione
ricerche genetiche del colosso farmaceutico Glaxo Smith Kline, ha dichiarato
che questo filone di ricerca è indispensabile soprattutto per migliorare le
capacità terapeutiche della medicina. E, per dare forza a questo concetto,
non ha esitato ad affermare che oggi i farmaci sono inefficaci per la metà
dei pazienti che li assumono. Un'affermazione che gli addetti ai lavori
ritengono ovvia, ma che ai pazienti può lasciare l'amaro in bocca.
In effetti ognuno di noi ha sperimentato che medicine che vanno bene per
certe persone, per altre sono l'equivalente di acqua fresca oppure provocano
effetti collaterali indesiderati e, a volte, fatali. «Che la risposta a un
farmaco non è sempre la stessa è cosa nota da tempo - spiega Giuseppe
Recchia, direttore del settore medico della Glaxo Smith Kline Italia - tanto
che qualcuno ha detto che senza la variabilità la medicina sarebbe una
scienza. In sostanza, nessuno sa se quel determinato paziente risponderà a
quel determinato farmaco. Una sostanza, ad esempio, è efficace nel 30% dei
casi, un'altra nel 50%. Questa variabilità dipende anche dalla classe di
farmaci che stiamo analizzando: ad esempio un antibiotico in genere ha una
risposta in un'alta percentuale di casi, un anticancro in una bassa
percentuale. È per questo che l'Emea, l'autorità che regola il settore dei
farmaci a livello europeo, considera un successo un anticancro che aumenta
la risposta dal 30 al 35%, mentre non considera sufficiente lo stesso
risultato per un'altra categoria di farmaci. Il valore terapeutico, in
sostanza, va confrontato con le alternative disponibili».
In ogni caso bisogna tener presente che la terapia non è quasi mai
costituita da un solo farmaco, ma da un insieme di farmaci e da altri
fattori come i cambiamenti dello stile di vita. «Combinando questi
elementi - prosegue Recchia - si ottengono spesso terapie efficaci».

Variabilità genetica

La prima fonte di variabilità sono le caratteristiche genetiche
dell'individuo. Perché un farmaco funzioni il primo requisito è che venga
metabolizzato in maniera efficiente dall'organismo: il farmaco deve essere
assorbito, trasportato dal sangue ed eliminato. Basta però che una sola
delle proteine coinvolte un questo processo sia diversa perché cambi la
risposta al farmaco o aumenti il rischio di effetti tossici. Se si riuscisse
a capire quali differenze genetiche sono alla base di risposte diverse a una
stessa sostanza, potremmo dare terapie mirate non solo in base al tipo di
malattia ma anche in base alle caratteristiche genetiche di ogni paziente.
«La farmacogenetica - aggiunge Recchia - è proprio il tentativo di mettere
in relazione la risposta ai farmaci di un individuo con le sue
caratteristiche genetiche».
Ma questo non è ancora sufficiente. Una sostanza può infatti venire
metabolizzata nel migliore dei modi, ma se non interagisce in modo
efficiente con il suo bersaglio biologico, ovvero con una proteina,
risulterà inefficace. Però è possibile che in due pazienti a cui è stata
diagnosticata la stessa malattia, in realtà operino meccanismi molecolari
diversi. In questo caso i pazienti avrebbero bisogno di farmaci che vadano a
colpire bersagli diversi. Purtroppo noi conosciamo solo circa 500 bersagli,
mentre sappiamo che le proteine sono circa 300mila, anche se non tutte sono
coinvolte nell'insorgenza di malattie. La scoperta di nuovi bersagli dunque
è il primo importante obiettivo per chi deve mettere a punto nuovi farmaci.
«La farmacogenomica consiste proprio nell'identificazione di nuove proteine
coinvolte nel processo che porta alla malattia in modo da farne un bersaglio
terapeutico», spiega Recchia.
Per poter identificare le varianti genetiche che sono alla base di un
determinato metabolismo dei farmaci o per identificare le proteine la cui
azione è correlata all'insoregere di malattie, c'è bisogno di analizzare il
più alto numero possibile di campioni di materiale genetico provenienti da
persone diverse. Il problema è però che tutto questo campo di ricerche
solleva questioni bioetiche fondamentali. «La prima questione è quella
relativa alla riservatezza», dice il bioeticista Maurizio Mori. Dal Dna si
può sempre risalire all'identità del donatore anche se il campione viene
reso anonimo, come tutelare quindi la privacy?
«La seconda questione è quella relativa ai diritti di proprietà - prosegue
Mori - se io oggi do il mio sangue a un'industria farmaceutica che domani,
proprio grazie al mio sangue, fa una scoperta che gli garantisce benefici
economici rilevanti, non ho diritto ad avere la mia parte?»
In realtà in alcuni casi le aziende sono anche disposte a pagare per avere
il diritto ad utilizzare il patrimonio genetico. È avvenuto ad esempio in
Islanda, dove più di tre anni fa il governo ha stretto un accordo con la
Decode Genetics, una società americana. In cambio di un cospicuo contributo
finanziario, le strutture sanitarie del paese dovevano fornire tutte le
informazioni sul patrimonio genetico dei loro pazienti alla società
americana che avrebbe avuto il controllo su questa banca dati per 12 anni.
Ma questo non ha risolto i problemi: una parte della popolazione si è
ribellata all'accordo e oltre 11.000 persone hanno chiesto di ritirare i
propri dati.

Dividere i benefici

Oggi che è invalsa la pratica di prendere materiale genetico non solo da
piccole popolazioni come quella dell'Islanda, ma dai pazienti coinvolti
nelle sperimentazioni cliniche che si svolgono in giro per il mondo, le cose
sono ancora più complicate. Secondo quanto riporta un articolo pubblicato
dalla rivista medica The Lancet a luglio scorso, la formula che di solito
appare nel foglio del consenso informato che il paziente deve firmare suona
più o meno così: «Il suo Dna è una risorsa di valore, per questo vorremmo
tenerne un po' per future ricerche». Di solito, a queste parole segue
l'affermazione esplicita che i partecipanti rinunciano a qualsiasi
rivendicazione di benefici economici che possano risultare da future
ricerche sul loro Dna.
Si presume dunque che chi offre il proprio Dna per la ricerca lo faccia per
puro altruismo. E, in effetti, spesso è così. Tuttavia, scrivono gli autori
dell'articolo, ci si deve porre la questione di una condivisione di benefici
anche in questi casi.
Un esempio di come le aziende possano riversare parte dei propri ricavi
sulla comunità sarebbe, sostengono gli autori dell'articolo del Lancet, un
impegno della società a indirizzare parte delle sue ricerche alle cosiddette
malattie orfane, quelle che interessando un numero limitato di persone non
attraggono investimenti. E in effetti, come sottolineano Spagnolo e Minacori
dell'Università cattolica del Sacro Cuore, «Interessi commerciali potrebbero
indurre a scegliere determinati obiettivi per la ricerca e focalizzare l'
attenzione e le risorse soprattutto su patologie comuni e su farmaci di
ampio utilizzo», penalizzando ulteriormente le persone affette da malattie
rare.