acciaio - partita finita per l'italia?



dal corriere.it
martedi 10 febbraio 2004

I segreti della battaglia Europa-Asia per conquistare clienti e mercati

Degli italiani solo Riva è tra i primi dieci al mondo


I lavoratori delle Acciaierie di Terni non avranno la solidarietà della
compagna Xie Qihua. L'austero membro del comitato centrale del Partito
comunista cinese, 60 anni, ingegnere civile, nubile, senza un filo di
trucco, ha scelto da tempo l'altra parte della barricata e quando si parla
di ThyssenKrupp preferisce stringere le mani dei dirigenti piuttosto che
quelle degli operai. Xie, però, potrebbe spiegare come pochi altri che cosa
succede al giorno d'oggi nell'industria mondiale dell'acciaio. È infatti la
presidente della Baosteel di Shangai, che nel campo è il primo e più
efficiente produttore della Cina, cioè del Paese che sta sconvolgendo il
settore. E con i proprietari tedeschi della Ast di Terni ha formato una
joint-venture da oltre un miliardo di euro per la produzione di acciaio
inossidabile. La compagna Xie racconterebbe di una guerra che si combatte in
una trincea planetaria nella quale i Paesi si battono ogni giorno per
conquistare un pezzo d'industria, uno spicchio di mercato, qualche migliaio
di posti di lavoro e che travolge ogni solidarietà politica. Una guerra che
nella vicenda di Terni mette in questione l'acciaio ma che l'Italia sta
perdendo o ha perso in molti altri settori. È la «deindustrializzazione dell
'Europa», denunciata da Romano Prodi qualche mese fa, che sta facendo passi
avanti? Non proprio: non per tutti è così. Nell'acciaio o nella
farmaceutica, nell'automobile piuttosto che nell'alimentare, alcuni Paesi,
anche europei, riescono a tenere il passo della concorrenza, altri sembrano
colabrodi che perdono intere industrie e posti di lavoro in quantità. «Credo
che l'Italia non abbia mai deciso che cosa vuole - dice Brian Beeden, un
consulente d'impresa indipendente di Londra -. Non ha puntato a creare i
"campioni nazionali" come ha fatto la Francia, cioè non ha avuto una
politica industriale centrale, diretta dallo Stato, che favorisse
aggregazioni competitive. Ma non ha nemmeno avuto una politica di completa
liberalizzazione, di tipo anglosassone, che puntasse a rafforzare le imprese
nella gara della concorrenza». Un'analisi simile a quella elaborata negli
ultimi tempi al ministero dell'Economia che ha portato Tremonti a parlare
della necessità di un «neo-colbertismo», cioè di un ruolo forte dello Stato
nella guida dell'economia. Il caso acciaio, in effetti, mostra come l'
accelerazione delle dinamiche nell'economia globale richieda scelte
radicali.
Negli ultimi anni, la Cina è divenuta la più grande divoratrice di acciaio
che si sia mai vista, grazie al boom della sua economia. Si calcola che nel
2003 abbia consumato 260 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, un quarto
del mercato mondiale. Ne ha però prodotte «solo» 220 milioni (è di gran
lunga la prima produttrice: il doppio del Giappone, una volta e un quarto
gli Usa). I 40 milioni di tonnellate mancanti li ha quindi dovuti importare
e, così facendo, ha fatto esplodere il prezzo mondiale dell'acciaio, mai
stato così alto (per alcuni tipi è raddoppiato in un anno). Una società di
ricerca americana, World Steel Dynamics (Wsd), calcola che ci sarà una
penuria di acciaio per almeno tutto il primo trimestre del 2004. E Fabio
Riva, consigliere delegato del gruppo Riva, numero uno in Italia, quinto in
Europa e nono al mondo, ha denunciato una situazione sempre più difficile
nel mercato dovuta a penuria di materie prime causata dalla voracità cinese.
Lo spostamento della manifattura mondiale verso l'Asia ha insomma spostato
lì anche il baricentro dell'acciaio: mentre vuole chiudere a Terni, per
esempio, la ThyssenKrupp ha ieri annunciato di avere l'intenzione di
investire in Corea del Sud. Conseguenza: la Cina sta ristrutturando le sue
imprese statali nel settore, di cui la Baosteel è la più brillante, con
controllate quotate in Borsa, numero tre nella classifica delle migliori
aziende del settore compilata dalla Wsd e in joint-venture con l'europea
Arcelor e la giapponese Nippon Steel, oltre che con la ThyssenKrupp. E le
imprese indiane sono letteralmente all'assalto del mercato: la Lnm,
controllata da Lakshmi Mittal (amico di Tony Blair ma indiano), ha
effettuato il mese scorso un'acquisizione che dovrebbe farla diventare il
primo gruppo mondiale del settore, con una presenza ormai in cinque
continenti.
Questa tendenza allo spostamento a Est e alla nascita di nuovi e portentosi
protagonisti si inserisce su una spinta, forte per tutti gli anni Novanta,
alla fusione tra gruppi per affrontare il mercato globale con muscoli più
robusti. Così, nel 2001 era nato (dalla fusione della spagnola Aceralia,
della lussemburghese Arbed e della francese Usinor) il gruppo Arcelor,
finora numero uno al mondo. Un chiaro esempio di costruzione di un «campione
nazionale» voluto dai governi (soprattutto Parigi). Fusioni si erano
registrate in Giappone, anche là sostenute dal governo di Tokio. E negli
Stati Uniti l'industria, frammentata e spesso in bancarotta, si è
concentrata attorno all'International Steel Group e alla Us Steel, che poi
hanno ottenuto dall'Amministrazione Bush la manna di più di un anno di dazi
all'importazione.
Mittal e Guy Dollè, il capo della Arcelor (che produce 44 milioni di
tonnellate di acciaio l'anno), prevedono che nei prossimi anni si creeranno
alcuni Golia da 80-120 milioni di tonnellate. Nel gruppo ci saranno
certamente i franco-spagnoli, gli indiani, i cinesi, i giapponesi. Forse i
coreani e gli americani. Gli italiani, che pure hanno una tradizione
gloriosa nel settore e ancora oggi possono contare su un gruppo tra i primi
dieci al mondo (il milanese Riva), saranno della partita? La compagna Xie
probabilmente sarebbe scettica.

Danilo Taino