lavoro tra salari conflitti e progetti



da lavoceinfo.it
venerdi 23 gennaio 2004

Tra salari, conflitti e progetti

Tito Boeri
Pietro Garibaldi

Le buone notizie per l'economia italiana sembrano esser venute negli ultimi
anni solo dal mercato del lavoro. La disoccupazione è diminuita dal 1998 e l
'occupazione è aumentata in modo stabile negli ultimi anni. Sul sito
www.lavoce.info non abbiamo mancato di analizzare in dettaglio i potenziali
motivi di questa crescita dei posti di lavoro, straordinaria perché avvenuta
in condizioni di bassa (o addirittura negativa) crescita economica.
A ben guardare, non è tutto oro ciò che luccica e sarebbe sbagliato ignorare
i crescenti segnali di malessere e incertezza che emergono nel nostro
mercato del lavoro. Tre di questi, in particolare, sono degni di nota.
Primo, l'andamento dei salari reali non è stato tale da fugare la percezione
da parte di molti lavoratori di un declino nel potere d'acquisto delle loro
retribuzioni. Questo ha contribuito ad aumentare la conflittualità, ecco il
secondo segnale preoccupante, con un'impennata delle ore di sciopero (anche
al di là della vicenda articolo 18) negli ultimi due anni. Terzo segnale,
molti dei nuovi posti creati sono a bassa produttività e vivono grazie a
forti sconti sul prelievo contributivo. I passi indietro compiuti dal
Governo nelle ultime settimane nella riforma delle collaborazioni coordinate
e continuative (vedi Tursi e Del Punta) sembrano proprio riflettere la
preoccupazione che un irrigidimento della normativa e del prelievo
contributivo su di una fascia consistente del lavoro subordinato possa
portare alla distruzione di molti posti di lavoro.
Ma procediamo per gradi, ponendoci due domande importanti per capire come è
meglio anticipare i problemi e fronteggiare questi crescenti segnali di
malessere: regge ancora il modello di contrattazione introdotto nel nostro
paese con l'accordo del luglio del 1993? E cosa accadrebbe ai salari e all'
occupazione decentrando maggiormente la contrattazione salariale?

La questione salariale

I salari nel settore privato dal 1993 al 2003 (fino al terzo trimestre) sono
praticamente rimasti invariati in termini reali (+0,3 per cento all'anno,
come ci spiega PC)
Da quando l'euro circola nelle nostre tasche, tuttavia, i lavoratori
percepiscono un'inflazione superiore a quella misurata dall'Istat (vedi
Guiso). Questo spiega perché siano in molti a ritenere di avere subito una
perdita del potere d'acquisto della propria retribuzione. In ogni caso, i
dati di cui sopra si riferiscono ai salari medi. Sono perfettamente
compatibili col fatto che una quota consistente dei salariati abbia subito
perdite del potere d'acquisto effettivo (non solo percepito) delle loro
retribuzioni, mentre una quota parimente consistente ha visto un aumento del
potere d'acquisto effettivo del proprio salario. In effetti i differenziali
salariali sono aumentati, a svantaggio soprattutto dei lavoratori meno
qualificati, quelli maggiormente rappresentati dal sindacato.
I salari sono, in ogni caso, cresciuti meno del prodotto per lavoratore, il
che significa che la quota del reddito lordo destinata ai lavoratori
dipendenti sotto forma di salario si è ridotta. Per l'esattezza di circa il
10 per cento.

La conflittualità e il modello contrattuale

Sono dunque tempi difficili per chi deve guidare un sindacato.
Soprattutto se bisogna anche fare accettare alla base tagli alle prestazioni
sociali, imposte dall'invecchiamento della popolazione, oppure quella
maggiore mobilità fra imprese dei lavoratori che viene richiesta dalla
crescente concorrenza e turbolenza oggi presente sul mercato dei beni.
Quando un'organizzazione sindacale manifesta qualche apertura su questi
terreni, è molto facile per un'altra strappare consensi tra la base del
rivale mantenendo una posizione di fermezza. Lo dimostrano l'isolamento di
Cisl e Uil nella battaglia sull'articolo 18 e quello della Cfdt in Francia
nello scontro sulla riforma delle pensioni.
Tuttavia un sindacato che si opponesse alla riforma della previdenza,
condannando i lavoratori più giovani a pagare due volte la bolletta
pensionistica (prima con le riforme degli anni Novanta , poi con l'aumento
di tasse e contributi che sarà inevitabile se non si fa nulla), si
condannerebbe all'estinzione, vivrebbe la sindrome del "gorilla di montagna"
(vedi Gennari), specie in via di estinzione. Insomma un bel dilemma.
Il sindacato ha un ruolo positivo in quanto voce collettiva dei lavoratori,
agente capace di gestire il conflitto redistributivo senza costi eccessivi
per la collettività. Per questo fa bene oggi a porre la questione salariale
e a interrogarsi sull'opportunità di modificare gli assetti contrattuali
definiti nel 1993, all'inizio della politica dei redditi. Dobbiamo molto
alla politica dei redditi. Ci ha portato nell'euro e ha contribuito, con la
moderazione salariale di questi anni, alla crescita dei posti di lavoro.
Ma se oggi il sindacato vuole recuperare una quota del valore aggiunto
concesso in questi anni ai datori di lavoro, e lo vuole fare soprattutto nei
settori esposti alla concorrenza (non condannandosi a vivere solo nei
settori protetti), deve per forza di cose prevedere un maggiore
decentramento della contrattazione salariale. Altrimenti, rischierà di
scontentare tutti: i lavoratori delle imprese a più bassa produttività, il
cui posto di lavoro viene messo in forse da salari contrattuali troppo alti
e i lavoratori delle imprese ad alto valore aggiunto, che si sentiranno
pagati al di sotto del loro potenziale produttivo. Un decentramento della
contrattazione è importante anche per introdurre gradualmente, e su base
volontaria, quegli schemi incentivanti che possono portare ad aumentare al
contempo salari e produttività, il modo migliore per sostenere in modo
duraturo una crescita dei salari reali. Nel lungo periodo infatti i salari
possono crescere solo se c'è crescita dell'economia.

Ma cos'è il progetto?

Il terzo fattore di incertezza è legato alla natura del cosiddetto contratto
a progetto, destinato a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa. La legge Biagi sostiene che dal settembre 2004 ogni contratto
di collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co) non trasformato in
relativo contratto a progetto sarà automaticamente trasformato in rapporto
di lavoro subordinato.
Questa minaccia ha generato ansie diffuse, sia tra i lavoratori coinvolti e
spaventati dalla prospettiva di perdere il lavoro, sia tra i gestori di
risorse umane, incerti sulle strade da intraprendere.
L'ultima circolare ministeriale (vedi Del Punta e Tursi), in verità, sembra
aver praticamente lasciato tutto come prima, offrendo un'accezione molto
generica di lavoro a progetto, che lascia spazio all'arbitrio dei giudici.
Per esempio, potrà essere considerato a progetto chi segue i rapporti con un
dato cliente in uno studio professionale o chi è assistente di ricerca sui
temi più disparati, solo per prendere esempi di lavori "nobili" nel
parasubordinato.
Perché questa marcia indietro? Forse perché si temeva di distruggere molti
posti di lavoro e così anche perdere una quota consistente di entrate per le
casse dell'Inps.
Ma a parte l'incertezza causata prima dall'attesa della nuova normativa, poi
dall'ulteriore potere d'arbitrio assegnato ai giudici nel nostro mercato del
lavoro, c'è il forte rischio che questa normativa cristallizzi l'anomalia
del parasubordinato, un mondo di minori tutele e, in prospettiva, pensioni
da fame.
Questa non-riforma sembra solo certificare che non si può risolvere il
problema del dualismo del nostro mercato del lavoro solo con l'ingegneria
contrattuale e la creatività semantica.
Mentre l'Italia si interroga su cosa è un progetto, è bene che i nostri
politici riflettano sulle ragioni per cui i co.co.co. hanno avuto così
fortuna, invece di esorcizzarli con un colpo di penna.