welfare italia caso anomalo ?



da fdv dicembre 2003

SISTEMI DI WELFARE : L'Italia è un caso anomalo ? *
di
Felice Roberto Pizzuti
1. Le tendenze nei sistemi di welfare
Nei paesi avanzati dell'Occidente la riforma dei sistemi di
welfare costituisce, ormai da molti anni, uno dei temi principali del
dibattito politico, sociale, economico e culturale.
Quasi tutte le ipotesi di cambiamento, proposte o realizzate,
incidono sul rapporto tra pubblico e privato. Su tale rapporto si
sono accumulate conoscenze teoriche ed esperienze reali.
Sotto il profilo teorico è generalmente acquisito che la natura
specifica dei beni e servizi sociali rende estremamente difficile per il
mercato, da solo, assicurare risultati che siano insieme efficienti ed
equi, o anche solo efficienti.
D'altra parte, la dimostrazione delle inadeguatezze del mercato
- cui ha molto contribuito lo stesso pensiero economico liberale -
non giustifica, automaticamente, la scelta di soluzioni basate su un
generico maggiore coinvolgimento delle istituzioni pubbliche.
E' noto, infatti, che anche sui cosiddetti "fallimenti del non
mercato" si dispone ormai di letteratura ed esperienze consistenti.
* Il testo riprende la presentazione dell'autore al Rapporto annuale Inpdap
sullo stato sociale 2002.
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Un risultato del dibattito largamente condiviso è che le scelte
tra le diverse possibili combinazioni di stato e mercato, da un lato,
debbano giovarsi dei risultati più consolidati offerti dalla teoria,
d'altro lato, non possano astrarre dalle peculiarità empiriche dei
sistemi politici, sociali e culturali nei quali quelle scelte
concretamente si collocano.
* * *
Nell'evoluzione della spesa sociale nei paesi occidentali a partire
dal secondo dopoguerra, si individuano fasi diverse.
Alla crescita piuttosto sostenuta ed estesa nel periodo
compreso tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, fa seguito negli
anni ottanta un'inversione di tendenza che progressivamente
interessa la quasi totalità dei paesi avanzati.
In particolare, nel corso degli anni novanta, sono ben pochi i
paesi dell'area Ocse nei quali la spesa sociale pubblica non registri
un chiaro rallentamento.
Molto circoscritti sono, invece, i casi di arretramento.
La componente privata della spesa sociale tende ad espandersi
quasi ovunque.
Ciò risulta ben visibile, ad esempio, nel settore sanitario.
Dal riequilibrio a favore del privato ci si attende non soltanto un
miglioramento - apparentemente ovvio - dei conti pubblici, ma
anche - soprattutto per gli effetti sperati della concorrenza - servizi
migliori a costi inferiori, e perfino miglioramenti sul terreno
dell'equità, grazie all'eliminazione di alcune distorsioni attribuite al
welfare state.
La spinta ad un maggior peso della logica di mercato non ha
comunque comportato l'affermazione del modello liberale di stato
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sociale minimale o residuale. Peraltro, proprio in alcuni dei paesi
dove domina un welfare di tipo liberale, sono stati compiuti o
ipotizzati anche passi nella direzione opposta.
Le principali linee di riforma
La varietà di riforme, adottate o tentate, dei sistemi di welfare
non consente di individuare un percorso unitario ben definito.
Sono però evidenti alcune linee di tendenza.
Per quanto riguarda il finanziamento, sono state tentate e
realizzate modifiche dirette ad alleviare l'impatto che lo stato
sociale avrebbe sul costo del lavoro, specialmente quando le risorse
vengono acquisite mediante contributi a carico di imprese e
lavoratori.
La Germania, anche se con successo parziale, è stata
interessata da queste proposte.
Come vedremo, nel nostro paese sono in discussione progetti
animati dallo stesso tipo di preoccupazioni.
I cambiamenti più incisivi ed estesi sono stati operati sul
versante dell'erogazione dei servizi.
Anzitutto, si è cercato di introdurre elementi di mercato tesi a
favorire la competizione, nell'ipotesi che in tal modo sarebbe
aumentata l'efficienza produttiva e la libertà di scelta dei fruitori di
tali servizi.
Il sistema sanitario e quello dell'istruzione sono stati
maggiormente interessati da questi tentativi.
Tra gli strumenti utilizzati si segnalano la realizzazione dei
cosiddetti mercati interni o i quasi-mercati e l'emissione di voucher.
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Sempre sul versante delle erogazioni, si è cercato di controllare
e selezionare meglio l'accesso ai servizi sociali o ai trasferimenti,
anche nell'ottica di attenuare uno dei pericoli più seri ravvisati nel
welfare universalistico e cioè il comportamento opportunistico dei
beneficiari che porta, in generale, ad abusare della generosità
pubblica.
La preoccupazione è che prestazioni eccessive o inappropriate
introducano distorsioni nel funzionamento dei mercati di entità tale
da creare ostacoli al processo di crescita; sarebbe questo, in
particolare, il caso di sistemi di protezione dalla disoccupazione
troppo generosi e poco sorvegliati.
Proprio in questi sistemi è stata introdotta, in diversi paesi,
maggiore severità e si sono adottate politiche di welfare-to-work,
cioè di prestazioni non rivolte ai disoccupati, ma finalizzate
all'aumento dell'occupazione.
Sempre nell'ottica di prevenire comportamenti opportunistici
dannosi per la crescita economica e per le casse pubbliche, vanno
interpretati i tentativi di predeterminare le prestazioni (come nella
sanità) o di legarle più strettamente ai contributi (come nella
previdenza), previlegiando una logica assicurativa più individuale
che sociale.
* * *
Le riforme miranti ad estendere il ruolo e la logica del mercato
sono state, però, spesso formulate dimenticando proprio le
insufficienze del mercato stesso, già evidenziate dalla teoria.
Non è dunque sorprendente se i cambiamenti introdotti nel
finanziamento e nell'erogazione dei servizi sociali, oltre ad alcuni
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effetti positivi, abbiano anche riproposto nel concreto quelle
insufficienze.
L'esperienza più avanzata dei voucher, quella praticata negli
Stati Uniti per favorire la concorrenza nell'istruzione, segnala alcuni
miglioramenti in termini di percezione dei benefici, ma non ci sono
prove di miglioramenti più oggettivi.
Si conferma invece che la peculiarità del bene istruzione limita
le possibilità che forme di competizione tipiche dei mercati
concorrenziali consentano di perseguire risultati efficienti; in ogni
caso sono da mettere in conto peggioramenti sul piano equitativo.
Il tentativo più compiuto di introdurre forme di welfare-to-work
è quello attuato dall'amministrazione Clinton nel 1996.
A questi cambiamenti è stato attribuito il merito della più rapida
collocazione dei disoccupati nel mercato del lavoro americano.
E' dubbio, però, che tale risultato dipenda interamente o
principalmente da quella riforma.
Un contributo positivo determinante è certamente venuto dal
lungo ciclo economico favorevole degli Stati Uniti che ha preceduto
la recente inversione di tendenza e dalle politiche espansive
adottate in quel paese.
Peraltro, nell'analisi dell'esperienza americana andrebbero
esaminate anche altre connessioni, come quella tra l'introduzione
delle forme di welfare-to-work e il contestuale incremento della
povertà.
Nell'ambito della sanità, il tentativo di riforma, poi fallito,
effettuato dal presidente Clinton conferma i limiti di un sistema
largamente basato su logiche privatistiche e le difficoltà che si
frappongono al loro superamento. In particolare, le assicurazioni
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volontarie - che la riforma intendeva ridimensionare drasticamente
- escludono dalla copertura sanitaria i soggetti a più alto rischio e
meno dotati finanziariamente. Tale risultato determina problemi
sociali e un aumento dei costi per la collettività.
E' proprio per rimuovere questi effetti strutturali dannosi che
venne tentato il processo di riforma rimasto però senza esito.
Nella seconda parte degli anni novanta, il numero di cittadini
americani troppo poveri per permettersi un'assicurazione privata
ma non tanto da essere coperti dal sistema sanitario pubblico è
ulteriormente cresciuto fino a circa 45 milioni.
* * *
La diffusione della previdenza a capitalizzazione conferma sia le
linee di tendenza già individuate negli altri settori del welfare, sia il
tipo di problematiche che esse suscitano.
Come dimostrano i casi di Cile, Stati Uniti, Regno Unito e
Svezia, le differenti modalità applicative incidono significativamente
sui risultati.
Il grado di libertà concesso nella scelta dei fondi pensione, le
modalità d'integrazione tra i vari pilastri e il differente ruolo
assegnato al sistema pubblico costituiscono elementi che si
riverberano sulla performance dei diversi sistemi.
I rendimenti assicurati dai fondi, a causa della loro variabilità,
dipendono dal periodo di tempo preso a riferimento. Ad esempio,
negli Stati Uniti, tra il 1981 e il 2000, il rendimento reale annuale
medio è stato superiore alla crescita del Pil.
Se invece si considerano soltanto gli anni successivi al 1995, i
risultati sono sensibilmente inferiori, fino a diventare anche
fortemente negativi.
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Nell'ultimo triennio 2000-2002, la perdita di valore delle attività
patrimoniali dei fondi pensione a livello mondiale è stata di circa il
20%. Solo nell'ultimo anno, la distruzione di risparmio depositato
presso i fondi pensione è stato di circa 1400 miliardi di dollari,
l'equivalente dell'intero reddito nazionale prodotto nel nostro paese.
In ogni caso, come mostrano in particolare i casi cileno e
britannico, proprio a causa della concorrenza tra i fondi, i costi di
gestione da sottrarre ai rendimenti lordi possono essere anche
molto elevati.
In Svezia - ove si è cercato di conciliare la libertà di scelta con
la centralizzazione - questi costi sono più contenuti.
I processi di transizione dalla ripartizione alla capitalizzazione, a
causa della necessità di corrispondere le pensioni in essere e di
rispettare i diritti già acquisiti dai lavoratori, implicano la necessità
di nuove risorse finanziarie che, almeno in parte, vengono ricercate
nel bilancio pubblico.
L'esperienza cilena è, a questo riguardo, piuttosto significativa.
Sul versante della effettiva copertura pensionistica dei
lavoratori e della complessiva equità, emergono i problemi tipici che
la teoria evidenzia nell'analisi delle forme private di assicurazione.
La copertura è, in generale, limitata e i benefici affluiscono in
maggior grado ai percettori di redditi elevati; ciò accade anche a
causa delle modalità di incentivazione regolate dal criterio della
deduzione fiscale che avvantaggia i contribuenti con aliquote
marginali d'imposta maggiori.
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2. I sistemi di welfare europei e le (vere o presunte)
peculiarità italiane
L'analisi comparativa in ambito europeo mostra che il sistema
di welfare italiano presenta delle specificità; ma alcune
preoccupanti anomalie che comunemente gli vengono attribuite non
sono confermate da una valutazione omogenea dei dati.
Dopo aver raggiunto un massimo del 27,5% del Pil nel 1993, la
spesa sociale media in Europa si è attestata al 26,4%. Rispetto al
dato medio europeo, quello italiano, che nel 1990 era inferiore solo
di 0,4 punti, è diventato inferiore di 2 punti.
Le due principali voci di spesa nella media dei paesi europei
sono le prestazioni per le pensioni di vecchiaia e quelle per la
sanità; le prime costituiscono una quota di poco inferiore al 40%
del totale.
I valori medi derivano da situazioni estremamente differenziate
fra i vari paesi. Tuttavia ciò dipende non solo dalle diversità
nazionali effettivamente esistenti, ma anche dalla non omogeneità
dei dati e dei criteri di classificazione, che rende i confronti non
sempre significativi.
Un'analisi più approfondita volta a superare queste
disomogeneità mette in evidenza che la spesa previdenziale italiana
in rapporto al Pil non è anomala, come sembrerebbe a un primo
esame dei dati, ma risulta sostanzialmente in linea con il valore
medio europeo ed è inferiore a quella di Francia e Germania.
Le prestazioni ai pensionati e ai disoccupati nei diversi paesi
spesso si distinguono solo nominalmente, ma sono erogate con
finalità analoghe di sostegno al reddito. Il loro valore aggregato è al
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16,2% nella media europea, al 16,3% in Italia, al 16,5% in Francia
e al 16,8% in Germania.
Negli studi comparativi della Commissione europea, nonostante
le previsioni demografiche indichino per l'Italia uno scenario futuro
fra i più pessimisti in ambito comunitario, il nostro paese si
caratterizza per un sentiero di crescita della spesa pensionistica in
rapporto al Pil molto meno accentuato.
* * *
Le modalità di finanziamento dei sistemi di welfare state
possono avere implicazioni per la competitività del sistema
produttivo e per il costo del lavoro.
Anche nei sistemi contributivi, il peso degli oneri sociali
costituisce solo una parte del carico sopportato dai lavoratori e dalle
imprese; infatti tutti i paesi, in varia misura, fanno ricorso anche
alla fiscalità generale.
E' dunque utile valutare congiuntamente l'incidenza del prelievo
contributivo e fiscale sul costo del lavoro, il cosiddetto cuneo
fiscale.
In tutti i paesi, nel 2000, si è manifestata una tendenza alla
riduzione della sua dimensione.
Dall'esame comparato del cuneo fiscale emerge che in Italia il
suo valore è più basso che in Francia e in Germania, paesi che
presentano una struttura del welfare simile alla nostra.
Un valore nettamente inferiore di questo indicatore si registra
nel Regno Unito, dove però i lavoratori devono attingere alla busta
paga per finanziare privatamente tramite il mercato una parte di
beni e servizi sociali che i loro colleghi dell'Europa continentale
ricevono dallo stato sociale.
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Rispetto al costo del lavoro per unità di prodotto (il Clup), del
quale il cuneo fiscale rappresenta una componente, l'Italia è
posizionata al fondo della graduatoria europea, su livelli inferiori
anche a quelli del Regno Unito.
Dunque, anche per quanto riguarda il costo del lavoro e i suoi
collegamenti con il welfare, dalla comparazione europea non
emergono specificità negative del nostro paese tali da giustificare,
di per se stesse, necessità di correzioni drastiche orientate alla
competitività di prezzo.
L'attenzione andrebbe invece più opportunamente richiamata
sui limiti strategici che il nostro sistema produttivo manifesta
riguardo agli aspetti tecnologici e qualitativi della competitività resi
più rilevanti dalla globalizzazione dei mercati. Per superare questi
più reali e pericolosi limiti, è necessario innovare diffusamente il
nostro sistema produttivo; ma per seguire con efficacia questa
strada diventa strategica la presenza di ammortizzatori e reti di
sicurezza economico-sociali capaci di compensare i rischi individuali
e collettivi strettamente connessi agli investimenti innovativi.
* * *
L'esame, a livello europeo, delle modalità di uscita degli anziani
dal mercato del lavoro evidenzia, negli ultimi due decenni, una
tendenza generalizzata alla crescita della disoccupazione degli
ultra-cinquantenni. A fronte di questo preoccupante e diffuso
fenomeno, le forme istituzionali di sostegno al reddito adottate in
ciascun paese presentano diversità che normalmente vengono
sottovalutate.
Se in Italia un canale improprio ma molto utilizzato di uscita dal
mercato del lavoro è rappresentato dalle pensioni di anzianità,
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altrove è ampio il ricorso a forme specifiche di indennità di
disoccupazione e a pensioni anticipate o di invalidità concesse con
criteri socio-economici che spesso accompagnano il lavoratore
anziano fino all'età ufficiale di pensionamento.
Anche l'analisi dei dati sulla composizione del reddito dei singoli
e delle famiglie in funzione dell'età mostra che le differenze nei
trasferimenti pensionistici tendono a essere compensate da altri tipi
di prestazioni sociali.
Tutto ciò non implica che i diversi sistemi siano tra loro
equivalenti.
Rimane vero che il costo economico e sociale connesso alle
crescenti uscite precoci dal mercato del lavoro non può essere
affrontato se non con misure ben calibrate alle caratteristiche
specifiche di ciascun sistema socio-produttivo; gli interventi
dovrebbero contrastare i bassi tassi di occupazione nelle classi di
età prossime a quella di pensionamento e favorire un avanzamento
volontario dell'età di ritiro dal lavoro.
L'imposizione di un più elevato limite di età per il
pensionamento, non coordinata con altri provvedimenti, potrebbe
generare rischi controproducenti rispetto agli obiettivi finanziari. In
presenza di un mercato del lavoro incapace di assorbire tutti gli
anziani, il pericolo è che una correzione di questa natura si traduca,
più o meno direttamente, in una crescente pressione su altre forme
di protezione sociale delle quali, peraltro, il nostro paese non è
particolarmente dotato.
L'obiettivo dovrebbe essere quello di realizzare politiche per
l'invecchiamento attivo tra le quali rientra certamente ogni misura
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che riduca i rischi di esclusione degli anziani legati all'evoluzione
tecnologica e alle barriere poste dalla società della conoscenza.
* * *
Nella sanità, la conoscenza dei limiti sperimentati dal modello
americano dovrebbe orientare in altre direzioni la ricerca di una
soluzione ai problemi che gravano sui sistemi europei.
In Europa, sull'onda dell'esperienza britannica, il tipo di
intervento più diffuso e significativo ha riguardato l'introduzione di
maggiore competizione dal lato dell'erogazione dei servizi con la
creazione dei quasi-mercati che presuppone, peraltro, la
separazione tra erogatori e finanziatori.
Interventi sono stati effettuati anche in altri ambiti. In
particolare: si è cercato di predeterminare le tariffe per le diverse
prestazioni per limitare gli incentivi a gonfiare la spesa; si è favorito
il decentramento delle decisioni; sono stati posti vincoli di budget ai
medici di base; si è cercato di valorizzare la libertà di scelta degli
assistiti tra strutture sanitarie alternative.
Riguardo al cambiamento di maggior rilievo, quello di
accrescere la concorrenza e la libertà di scelta degli assistiti, si è
dovuto tuttavia constatare la conseguenza di un lievitamento dei
costi di transazione e di funzionamento.
Nella gran parte dei paesi europei, specialmente in quelli
maggiori, la tendenza in atto alla stabilizzazione, se non alla
riduzione della spesa sanitaria pubblica si è accompagnata
all'espansione della componente di mercato.
Negli anni '90, maggiormente nella prima parte, l'Italia si è
caratterizzata per una crescita particolarmente accentuata della
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spesa privata che, unico caso, ha più che compensato la riduzione
della spesa pubblica.
3. L'evoluzione del sistema di welfare italiano
In Italia, la spesa sociale complessiva, pubblica e privata, al
lordo dei costi amministrativi e delle imposte che gravano sulle
prestazioni, è pari a circa un quarto del Pil.
La prima voce di spesa è quella pensionistica che si è
stabilizzata al 13,5%. Tale quota scende all'11,3% se si escludono
le componenti assistenziali finanziate dalla apposita gestione nel
bilancio Inps, la Gias (sulle pensioni si tornerà successivamente).
* * *
La spesa sanitaria pubblica, che al momento della creazione del
Sistema sanitario nazionale nel 1978 era pari a poco meno del 5%
del Pil, ha toccato il 6,5% nel 1991 (al lordo dei costi
amministrativi), poi è scesa fino al 5,2% nel 1995; negli anni più
recenti si assiste a una ripresa.
Nel corso degli anni '90, la spesa sanitaria privata è aumentata
sensibilmente: la sua quota su quella complessiva è passata dal 22
al 33%.
La presenza nel nostro sistema sanitario di problemi di
appropriatezza, di equità e di copertura assicurativa non esclude
elementi di valutazione positivi da parte degli assistiti: l'86% dei
soggetti ricoverati sarebbe molto o abbastanza soddisfatto per
l'assistenza medica; il consenso però si riduce per il vitto e i servizi
igienici.
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Situazioni di inappropriatezza si riscontrano nella carenza di
prevenzione, nell'eccesso della spesa farmaceutica, nei numerosi
casi di ospedalizzazione ingiustificati, nella diffusione di lunghe liste
di attesa. La crescita delle degenze in day hospital segnala la
presenza di miglioramenti.
Aspetti d'iniquità sono rivelati da numerosi indicatori.
La mortalità per tutte le cause diminuisce sensibilmente tra i
soggetti con maggior grado di istruzione e con maggior reddito. Il
grado di accesso a cure specialistiche è minore per i pazienti con
minore istruzione. Nel Sud del paese l'attesa di vita è inferiore.
Anche per l'età media più bassa, nel Meridione ci si ammala di
meno, ma, rispetto al Centro-Nord, si muore di più per malattie
cardio-circolatorie e in una percentuale simile per i tumori.
Le cure dentarie e l'assistenza ai non autosufficienti
costituiscono due settori di significativa carenza di copertura del
nostro sistema pubblico. La capacità dei mercati assicurativi di
coprire questi rischi è particolarmente problematica. In ogni caso le
differenti possibilità di accesso al mercato connesse ai redditi
individuali creano problemi di iniquità e di riduzione del benessere
collettivo.
Come già è stato sperimentato in altri paesi, accentuare oltre
misura le forme di concorrenzialità tipiche dei mercati, la libera
scelta degli assistiti e il decentramento decisionale e finanziario
potrebbe dar luogo non tanto agli effetti positivi sperati, quanto
all'aumento dei costi e alla diminuzione di efficacia, di equità e di
copertura del complessivo sistema sanitario.
* * *
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La spesa per l'assistenza - comprendendo anche la componente
assistenziale insita nei trasferimenti previdenziali (operati dall'Inps
e contabilizzata nella Gias) - è pari a meno del 4% del Pil, un
valore nettamente inferiore alla media europea.
L'inadeguatezza della spesa è connessa anche alla sua struttura
caratterizzata da pochi strumenti di carattere universalistico per
alleviare la povertà. Solo negli ultimi anni sono state timidamente
introdotte misure quali l'assegno ai nuclei familiari e, in forma
sperimentale, il reddito minimo d'inserimento.
Le carenze del nostro sistema assistenziale sono certamente
corresponsabili del significativo fenomeno della povertà che,
peraltro, è prevalentemente concentrato nel Mezzogiorno.
Nel 2001, il 12% delle famiglie italiane, che rappresentavano il
13,6% della popolazione, non raggiungeva la soglia della povertà
relativa (fissata a 815 euro al mese per una famiglia di due
persone). Nelle regioni meridionali la quota saliva al 24%, contro il
5% del Nord e l'8,4 del Centro.
In condizioni di povertà "assoluta" (fissata per il 2001 a 560
euro mensili), viveva il 4,2% delle famiglie, corrispondenti al 5,3%
della popolazione, cioè oltre 3 milioni di persone. In questo caso la
concentrazione nel Mezzogiorno si presentava ancora più marcata.
La sua sperequata diffusione territoriale conferma che, in Italia,
la povertà è un fenomeno largamente correlato alla condizione di
disoccupazione per la quale il nostro sistema di welfare non prevede
adeguate forme di sussidio.
Nel 2001, la spesa per gli ammortizzatori sociali è rimasta
stabile; in rapporto al Pil siamo a meno di un terzo della media
europea.
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Il sistema pensionistico italiano
Nel dibattito economico, sociale e politico del nostro paese, il
sistema pensionistico continua ad avere una particolare importanza.
L'attesa verifica governativa sugli effetti delle riforme operate
negli anni novanta ha confermato la loro efficacia nello stabilizzare
la spesa pensionistica sul Pil; i risparmi di spesa ottenuti e quelli
prevedibili fino al 2005 sono superiori rispetto agli obiettivi fissati
dalla legge di riforma del 1995.
Nel più lungo periodo, l'insieme delle diverse proiezioni di spesa
a legislazione vigente che può essere ragionevolmente considerato
delinea un'evoluzione non allarmante.
La Ragioneria generale dello stato, quando utilizza lo scenario
macroeconomico e demografico di base che darebbe luogo ad una
crescita media annua del Pil nel prossimo mezzo secolo di circa
l'1,5%, prevede una leggera crescita progressiva del rapporto tra
spesa pensionistica e Pil che arriverebbe ad essere di circa due
punti nel 2035, per poi ridursi.
Utilizzando il modello Modsim-P dell'Istat (che a parità di
scenari ipotizzati fornisce previsioni analoghe a quelle della
Ragioneria), sono state fatte ulteriori proiezioni per tener conto di
alcune tendenze che dovrebbero verificarsi anche a legislazione
costante.
Il già previsto passaggio progressivo dal sistema retributivo a
quello contributivo, che collega l'entità della pensione all'età di ritiro
dal lavoro, dovrebbe indurre un avanzamento spontaneo dell'età di
pensionamento e, dunque, una variazione del profilo temporale
della spesa complessiva.
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L'espansione relativa delle nuove categorie di lavoratori
parasubordinati e di lavoratori autonomi che maturano pensioni più
basse si tradurrà in un corrispondente contenimento del valore
medio delle pensioni.
Se si tiene conto di queste due prevedibili tendenze, la crescita
massima prevista del rapporto tra spesa pensionistica e Pil si riduce
ad un solo punto.
Immaginando poi anche un più augurabile e possibile trend di
aumento della produttività, che sia coerente con una crescita media
annua del Pil pari al 2% anziché all'1,5%, l'andamento del rapporto
tra spesa pensionistica e Pil risulterebbe tendenzialmente
decrescente fino a valori inferiori al 13%.
L'aggiornamento del modello MOPI, sviluppato dall'Inpdap per
la previsione degli andamenti specifici del sistema pensionistico dei
dipendenti pubblici, conferma l'incidenza negativa esercitata dalla
riduzione dell'occupazione nel settore pubblico sugli equilibri
finanziari di questo comparto del sistema previdenziale.
* * *
Oltre ai vincoli finanziari, un sistema pensionistico deve tener
conto anche delle compatibilità economico-sociali che costituiscono
la sua ragion d'essere primaria.
La progressiva applicazione già in atto del sistema contributivo
abbasserà i tassi di sostituzione della prima pensione rispetto
all'ultima retribuzione; i tassi saranno tanto più ridotti quanto
minore sarà l'età di pensionamento, compresa tra un minimo di 57
e un massimo di 65 anni.
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Il già previsto adeguamento decennale dei coefficienti di
trasformazione all'aumento della vita attesa ridurrà ulteriormente le
prestazioni a parità di età di pensionamento.
Con il sistema contributivo a regime e con i futuri coefficienti di
trasformazione corrispondenti alle attese demografiche, il tasso di
sostituzione per un lavoratore dipendente con 35 annualità
contributive sarà compreso tra il 45% e il 56%, in base all'età di
ritiro dal lavoro.
Con il precedente sistema retributivo il tasso era del 67%,
indipendentemente dall'età di pensionamento.
Per un lavoratore con contratto di lavoro coordinato e
continuativo, sempre con 35 annualità contributive, il tasso di
sostituzione oscillerà tra il 27% e il 34%.
Dal 1992, l'indicizzazione delle pensioni non tiene conto della
crescita reale dei redditi da lavoro. Ipotizzando che quest'ultima sia
pari al 2% annuo, un pensionato che a 60 anni avesse una
pensione pari al 50% della retribuzione media vigente, a 80 anni la
vedrebbe diminuita al 31%.
Le statistiche indicano come la vecchiaia non sia attualmente,
nel nostro paese, la principale causa di povertà, se non in
particolari condizioni.
Tale situazione deriva anche dalla copertura pensionistica
assicurata finora dalla previdenza pubblica. Il futuro si prospetta più
incerto.
* * *
Le valutazioni dell'assetto attuale del sistema pensionistico
sono condizionate dal diverso peso che può essere accordato ad
esigenze tra loro contraddittorie: la tutela previdenziale e gli
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equilibri sociali, la sostenibilità finanziaria, i riflessi sul sistema
produttivo e su quello finanziario.
Il progetto di ridurre fino a cinque punti i contributi pensionistici
a carico delle imprese costituirebbe un taglio significativo del costo
del lavoro. Nel breve periodo si avrebbero effetti positivi sulla
competitività di prezzo del nostro sistema produttivo; ma queste
non sarebbero le uniche conseguenze.
Per il bilancio pubblico, a regime, il mancato gettito contributivo
sarebbe dell'ordine dello 0,7% del Pil.
Se la riduzione dei contributi non fosse seguita dalla
corrispondente riduzione delle prestazioni prevista dal meccanismo
attuale, ne verrebbe sostanzialmente intaccato l'equilibrio
attuariale.
Se invece le prestazioni fossero adeguate al taglio contributivo,
i tassi di sostituzione subirebbero un'ulteriore riduzione del 15%
rispetto a quelli già decisi: a regime, la pensione di un lavoratore
dipendente che si ritirasse a 60 anni con 35 anni di contributi,
anziché essere pari al 48% dell'ultima retribuzione, sarebbe pari al
41%.
La ridotta copertura pensionistica fornita dal sistema pubblico
potrebbe essere compensata dallo sviluppo della previdenza
integrativa a capitalizzazione adeguatamente incentivata dallo
stato. I nuovi fondi pensione sarebbero finanziati dirottando su di
essi i flussi di salario differito che attualmente sono gestiti dalle
imprese e alimentano il Trattamento di fine rapporto (TFR);
quest'ultimo non sarebbe più disponibile per i lavoratori.
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Corrispondentemente allo sviluppo dei fondi a capitalizzazione,
le prestazioni pensionistiche sarebbero maggiormente esposte
all'instabilità dei mercati finanziari.
Nei primi nove mesi del 2002, i fondi chiusi già operanti nel
nostro paese hanno offerto rendimenti negativi medi del 7,7%; i
fondi aperti hanno perso il 14,1%.
Naturalmente, i risultati di un periodo di crisi come quello in
atto da oltre un biennio non possono essere generalizzati; tuttavia,
anche le precedenti speranze e promesse di elevati rendimenti
diffuse mentre si gonfiava la cosiddetta bolla speculativa, sono
ingiustificate.
Negli ultimi decenni, caratterizzati dalla globalizzazione dei
mercati, un sicuro elemento di novità che si è consolidato è la più
accentuata variabilità dei rendimenti finanziari; si tratta di un
mutamento stabile che evidentemente accresce le già note difficoltà
dei sistemi a capitalizzazione di soddisfare i requisiti di sicurezza
delle prestazioni richiesti ai sistemi pensionistici.
Le peculiarità del sistema produttivo e finanziario italiano,
caratterizzato da piccole imprese che non si quotano in borsa e
hanno difficoltà di accesso al credito, rendono ancora più incerta la
convenienza dello sviluppo dei fondi pensione nel nostro Paese.
Già oggi, l'investimento azionario dei fondi pensione esistenti si
rivolge verso titoli di imprese nazionali solo in misura del 18%. Il
dirottamento completo per il futuro del TFR farebbe affluire ai fondi
pensione circa 100 miliardi di euro in sette anni. E' facile prevedere
che larghissima parte di questo ingentissimo flusso di risparmio
nazionale, oggi gestito dalle nostre imprese, verrebbe investito
all'estero.
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Entro certi limiti e con le dovute accortezze, da valutare anche
in rapporto alle condizioni di partenza e alle specificità nazionali, la
previdenza a capitalizzazione può positivamente integrare quella a
ripartizione; è più difficile che possa sostituirla in misura
significativa senza rischiare effetti negativi sulla funzionalità del
sistema pensionistico e sui delicati equilibri sociali ed economici ad
esso connessi.
Conclusioni
Le problematiche connesse al welfare sono in continua
evoluzione e si caratterizzano per la loro complessità.
L'attenta valutazione dei risultati teorici e delle esperienze
empiriche è indispensabile per adeguare opportunamente gli istituti
dello stato sociale alle mutate esigenze della collettività.
La sostenibilità finanziaria è un vincolo importante, ma qualsiasi
intervento sul welfare state non può astrarre dalla salvaguardia
della coesione sociale. Peraltro, la coesione sociale, oltre ad essere
un valore fondante dello sviluppo civile, sempre più costituisce un
prerequisito della competitività e della crescita economica.
Pur caratterizzato da specificità nazionali che non vanno
sottovalutate, il modello europeo di protezione sociale, che
assegna un ruolo determinante alle istituzioni della collettività, si
conferma quello maggiormente in grado di perseguire
congiuntamente efficienza, equità e coesione sociale.
E' auspicabile che la valorizzazione di questi aspetti salienti
della storia e della cultura europea possa accompagnare e
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sostenere come tratto distintivo la prosecuzione del processo
d'integrazione del nostro continente.