felici e connessi



da Boiler |giornale di scienza, innovazione e ambiente
                 15.11.2003

Felici e connessi

Telefonini smart, pupazzi per bambini a sensori wireless, diffusione a
macchia d'olio dei blog. La tecnologia - più che isolare l'individuo in una
dimensione virtuale - può aiutare a creare legami reali, tra persone in
carne e ossa. Ed entrare a far parte integrante delle nostre vite, al punto
da rendersi invisibile agli occhi. La posta in gioco è capire dove ci
porterà.

Nel regno dell'informatica ubiqua

di MARK BAARD

 SEATTLE - Intorno a istituti come il Mit e il Georgia Tech, spesso si
aggirano da soli personaggi stravaganti: con in mano i loro portatili,
sembrano annusare da vicino la presenza di possibili punti in cui installare
dei nodi wireless. Molti di loro non sono fanatici del Wi-Fi impegnati in
una missione di warchalking (detezione a scopi hacker delle reti non
protette, n.d.t.), bensì studiosi di "informatica ubiqua", un settore
scientifico che spera di riuscirci a liberare molto presto dai tristi e
ingombranti elaboratori che usiamo ogni giorno, disseminando milioni di
minuscoli nodi wireless in tutti gli spazi pubblici e privati. Gli ingegneri
che hanno partecipato all'UbiComp 2003, conferenza in tema che si è tenuta
in ottobre a Seattle, sono convinti che la tecnologia - invece di isolare l'
individuo in una dimensione virtuale - possa aiutarci a stabilire
connessioni reali tra persone in carne e ossa. Questi ricercatori sono tutti
discepoli di Mark Weiser, tecnologo del centro di ricerca della Xerox di
Palo Alto, secondo cui i computer dovrebbero diventare parte integrante di
abitazioni private, uffici e spazi pubblici, assumendo la forma di
minuscoli, pressoché invisibili, dispositivi Wi-Fi. Weiser, che è morto nel
1999, credeva anche che l'informatica dovesse essere un fattore di calma, e
non di tensione (come lo squillo incessante dei telefonini e l'ossessionante
richiamo dei cercapersone), e che dovesse essere presente «ovunque nel
mobilio».

Più vicini senza fili.

 Da quando Weiser ha coniato, quindici anni fa, il termine "informatica
ubiqua", apparecchi del genere - portatili, cellulari, sensori wireless e
radiotrasmittenti - sono diventati sempre più piccoli, economici e, in fin
dei conti, diffusi. Anche il numero delle centrali Wi-Fi è molto aumentato.
Ma siamo ancora agli inizi degli sforzi di progettazione di dispositivi
informatici in grado di entrare a far parte integrante delle nostre
esistenze quotidiane senza renderci loro schiavi. Le ambizioni originarie
non si sono mai realizzate: i lavori sono stati rallentati dai problemi con
lo standard Bluetooth, e l'idea è stata via via resa impopolare dai fanatici
del marketing che non vedevano l'ora di avere a propria disposizione un'
ulteriore arma per bombardare gli utenti con i messaggi pubblicitari via
telefonino. «Se vogliamo portare le nuove tecnologie informatiche fuori dai
laboratori», spiega William Griswold, ricercatore dell'Università della
California di San Diego, «dobbiamo farne un'amica, non un'intrusa. Dobbiamo
puntare ad applicazioni che accontentino i consumatori».

Griswold e gli altri si stanno facendo ispirare dai servizi di messaggeria
istantanea, dai blog e dai fanatici delle animazioni flash, che spesso usano
la tecnologia come fonte di divertimento e per organizzare riunioni e
attività di protesta negli spazi pubblici. Griswold sta attualmente
lavorando al progetto ActiveCampus dell'Ucsd, un programma che mira al
potenziamento dell'interazione umana con lo spazio e all'aumento di
consapevolezza delle azioni compiute, fattori che molti ritengono di
importanza cruciale per l'affermazione su larga scala dell'informatica
ubiqua. L'Ucsd e la Northwestern University stanno sperimentando l'
ActiveCampus Explorer, un client Im per portatili che classifica i compagni
di chat a seconda della loro prossimità spaziale a un determinato utente. I
partecipanti alla chat possono anche trasmettere informazioni su quello che
stanno facendo e lasciare dei "graffiti digitali" su una mappa accessibile a
tutti. Uno che si fermi al bar per un caffè, per esempio, potrebbe trovarci
un messaggio lasciato da qualcuno che è già stato lì prima e che gli
consiglia di provare i frollini. Griswold ha paradossalmente scoperto che
gli utenti ActiveCampus sono particolarmente inclini a inviare messaggi a
chi è loro vicino, magari per organizzare incontri di persona. «Il fenomeno
sembra indicare che la collocazione spaziale è molto importante», spiega il
ricercatore. «I meccanismi di relazione wireless tra individui sono mediati
dalla vicinanza fisica».

Una materia prima tutta da scoprire

I partecipanti all'UbiComp hanno vissuto un'esperienza simile di
interazione - reale ma potenziata a livello digitale - con il progetto di
display proattivi Experience UbiComp dell'Intel Research. Ogni volta che
qualcuno si avvicinava al microfono per fare una domanda, un lettore ne
isolava il nome dalla targhetta Rfid e un server proiettava su un
maxischermo un suo parziale profilo biografico. E un altro plasma mostrava
diversi gruppi di utenti, riuniti per interessi personali e professionali.
Incoraggiando gli incontri ad hoc in vari spazi fisici, sistemi come gli
schermi proattivi - a detta di William Mitchell, docente di architettura,
scienze e media art al Mit - renderanno obsoleti uffici e quartier generali.
«Nell'arco dei prossimi dieci anni, le reti wireless trasformeranno
radicalmente la tradizionale distinzione tra spazio lavorativo e spazio
pubblico», ha commentato Mitchell alla presentazione del suo nuovo libro,
Me++: The Cyborg Self and the Networked City. I giovani sono già abituati a
muoversi nello spazio pubblico aspettandosi di poter rimanere connessi a
Internet via Wi-Fi o in altro modo. «I network mobili attenuano il legame
tra persone e luoghi, consentono l'occupazione nomadica dello spazio e
creano l'esigenza di uno spazio multiuso».

I nuovi nomadi del digitale rifiuteranno anche tastiere e Pc da scrivania.
Ecco perché molti studiosi di informatica ubiqua dell'UbiComp stanno
lavorando alla progettazione di nuove interfacce originali, punti di
contatto facilissimi da usare e al tempo stesso svincolati da una
collocazione fisica precisa. L'Interactive Institute, attraverso il progetto
Play, sta studiando i bambini che giocano con gli Spooky - speciali pupazzi
di peluche che comunicano tra di loro senza fili - a una versione speciale
di nascondino. Chi ha uno Spooky può letteralmente "sentire" la presenza
nelle vicinanze di chi ne ha uno uguale, fino a duecento metri di distanza.
«Questi giocattoli catalizzano e aumentano le facoltà immaginative dei
bambini, liberandole dai limiti del salotto o del computer su cui stanno
giocando», spiega Peter Ljungstrand, ricercatore dell'istituto. Ljungstrand
sottolinea come sia stato difficile, per gli ingegneri che hanno partecipato
al progetto, lavorare - sulla base di topografie di rete ancora tutte da
inventare e delle esistenti interfacce Microsoft Windows - a una concezione
di tecnologia radicalmente innovativa. «Vediamo la tecnologia come materia
prima, e non più come semplice strumento», conclude. «Ma al contrario del
metallo o del legno, non sappiamo ancora con esattezza cosa potremmo
costruirci».