economia e proprietà intellettuale



il manifesto - 05 Novembre 2003


L'intelletto senza logo

Copyright, brevetti e economia mondiale in un prossimo summit dell'Onu
Dalle telecomunicazioni all'informatica, dall'intrattenimento fino alla
mappatura del Dna, la legislazione sulla proprietà intellettuale è stato lo
strumento attraverso il quale gli stati-nazione hanno spesso cercato di
governare lo sviluppo economico. Ora con leggi draconiane, ora con norme
flessibili per favorire la diffusione dell'innovazione tecnologica
nell'attività produttiva. Per questo, si moltiplicano gli studi di
economisti e giuristi attorno a questo tema. E sono sempre più insistenti le
pressioni che organismi sovranazionali per un'armonizzazione a livello
internazionale delle diverse leggi nazionali

BENEDETTO VECCHI

La sigla è oscura ai più, ma dietro di essa si nascondono molte ambizioni.
Già, perché il Wsis, questo il misterioso acronimo, che sta per World Summit
on Information Society, cioè l'incontro internazionale che si terrà il
prossimo dicembre a Ginevra, è stato proposto in un contesto internazionale
in cui il multilateralismo dominava le relazioni interstatali e dove la
necessità di una riforma degli organismi sovranazionali era già all'ordine
del giorno. Correva l'anno 1998 e durante una riunione della International
Telecommunication Union in corso a Minneapolis fu approvato un documento in
cui si chiedeva alle Nazioni unite di organizzare un summit mondiale sulla
società dell'informazione. Nel giro di pochi mesi, l'assemblea dell'Onu fece
sua l'indicazione e propose di dedicare due incontri al tema - il primo
appunto a Ginevra, e il secondo a Tunisi nel 2005 - con un'avvertenza:
coinvolgere la società civile nella loro preparazione. In un documento del
segretario delle Nazioni unite Kofi Annan - consultabile nel sito
www.wsis.org - si legge infatti che la riuscita del summit ci sarà solo in
presenza di un diretto coinvolgimento non solo dei governi, ma di tutta la
«società civile» nello stilare una «carta dei diritti universali alla
comunicazione». Il primo problema da affrontare era la definizione di
«società dell'informazione». Ragion per cui centri studi, lobby, enti
governativi hanno stilato memorandum, inviato studi e ricerce che partivano
tutti da un unico presupposto: le tecnologie digitali stanno cambiando la
vita associata in tutte le parti del mondo, facendo diventare l'informazione
il motore dell'economia mondiale, mentre i media sono diventati il luogo
deputato alla formazione e all'espressione dell'opinione pubblica. E
tuttavia il pieno dispiegarsi della società dell'informazione trova non
pochi ostacoli. Infatti, anche nell'era della informazione vige la regola
che un quinto della popolazione mondiale detiene l'ottanta per cento della
ricchezza: l'ottanta per cento dei computer, dei telefoni e delle
televisioni esistenti al mondo sono venduti nel Nord del pianeta, l'ottanta
per cento dei cybernauti - circa settecento milioni - abita nei paesi
maggiormente sviluppati - la famose triade: Stati uniti, Europa e Giappone a
cui si aggiungono l'Australia e la Nuova Zelanda. Stesso discorso vale per
la diffusione del telefono: su tre telefoni installati, due sono nel Nord e
uno nel Sud del pianeta. A ciò corrisponde però l'asimmetria della
popolazione: l'ottanta per cento degli abitanti del pianeta vivono nei
cosiddetti paesi in via di sviluppo o in quelli di recente
industrializzazione, mentre il restante venti per cento nei paesi
maggiormente sviluppati. Infine, gran parte della produzione di hardware e
software nelle telecomunicazioni, nell'informatica e nell'intrattenimento
sono concentrati nella mani di una manciata di grandi imprese transnazionali
che hanno sede a Parigi, Londra, Seattle, Los Angeles e Tokyo.

Che le cose non vadano ottimamente lo sanno quindi tutti, ma bastano solo
alcuni, piccoli accorgimenti e anche il resto del mondo potrà partecipare al
gran banchetto. Basta cioè che la deregulation non trovi ostacoli sul suo
cammino e il gioco è fatto. C'è il digital divide, inutile negarlo. Per
colmare il divario basta aprire le frontiere al libero mercato è tutto è
risolto. C'è una micidiale concentrazione della produzione e diffusione
dell'informazione. Anche qui un po' di sano realismo: è il mercato il
migliore allocatore delle risorse. Questo è il mantra che accompagna la
partecipazione alla preparazione del summit da parte delle corporation, di
molti governi nazionali e del G8. In risposta, le organizzazioni non
governative hanno lanciato, da parte loro, la campagna per i diritti alla
comunicazione (www.cris.org).

La storia non è stata però benigna per gli organizzatori del summit. Da 1998
in poi molta acqua è passato sotto i ponti e oramai l'Onu è ridotto
all'ombra di se stesso, mentre altri organismi sovranazionali hanno messo
serie ipoteche su come sarà affrontato il digital divide. Particolarmente
attivo è stato il Wto che, in nome della difesa della proprietà
intellettuale, ha chiesto più volte una revisione e un'armonizzazione delle
diverse leggi nazionali sulla falsariga dei Trips, cioè i Trade Related
Intellectual Proprierties.

A fare da apripista sulla revisione delle leggi nazionali su brevetti,
copyright e difesa dei loghi sono stati gli Stati uniti. Infatti, nell'arco
di dieci anni gli Usa hanno «aggiornato» più volte la loro legislazione
sulla proprietà intellettuale, fino al momentaneo epilogo del Digital
Millennium Copyright Act. Non da meno è stato l'azione della Wipo, la World
Intellectual Proprierty Organitation, un vero e proprio think thank in
materia da sempre sensibile alle motivazione delle grandi imprese. In una
serie di documenti preparati in vista anche del Wsis - di particolare
interesse è quello che porta il titolo Intellectual Property on the
Internet: a Survey of Issues (http://ecommerce.wipo.int) -, questa
organizzazione considera l'uniformità delle leggi sulla proprietà
intellettuale come la conditio sine qua non di un'efficace strategia volta a
legittimare l'appropriazione privata di un bene comune come sono la
conoscenza e il sapere. Recentemente, ad esempio, ha pubblicato un
promemoria sui brevetti applicati sia al software che alla mappatura del Dna
in cui prendeva atto del fallimento del vertice di Cancun del Wto, ma
considerava comunque essenziale che nell'agenda politica mondiale
l'armonizzazione della legislazione sui brevetti diventasse uno dei
argomenti principali degli organismi sovranazionali e per questi motivi
l'organizzazione chiamava i rappresentanti dei paesi membri e delle grandi
corporation ad avviare un negoziato per definire le linee guida di una
strategia globale sui brevetti
(www.grain.org/pubblications/wipo-splt-news-2003-en-cf ). Per la Wipo, però,
il panorama internazionale si è arricchito di un nuovo attore che costringe
nuovamente a modificare a livello globale le politiche legislative sulla
proprietà intellettuali. Si tratta dei «paesi di recente
industrializzazione» che chiedono di poter contare sul piano mondiale anche
su questo specifico problema.

Nel recente vertice di Cancun, il cosiddetto gruppo chiamato G20 - e che poi
è diventato G21, G22 e, infine, G22plus - ha posto con forza anche il
problema della proprietà intellettuale, prospettando la possibilità da parte
di alcuni paesi di violare proprio i Trips. Tra i paesi fondatori del G20
c'era il Brasile del presidente metalmeccanico Lula e l'India, da sempre
paesi molto sospettosi nei confronti della legislazione internazionale su
brevetti e copyright. Per il Brasile, infatti, in alcuni casi si può
applicare l'articolo 21 del trattato che ha istituito il Wto, dove si legge
che in caso di «emergenza nazionale» un paese che fa parte
dell'Organizzazione mondiale del commercio può sospendere qualsiasi trattato
sottoscritto sul libero commercio. E il paese latinoamericano ha minacciato
di applicarlo nel caso della produzione dei cosiddetti medicinali «salva
vita». Lo stesso ha fatto l'India, subito dopo che il Sudafrica di Nelson
Mandela fu portato in tribunale dalle multinazionali farmaceutiche per aver
cominciato a produrre dei medicanali per affrontare e contrastare la
devastante diffusione dell'Aids. Per la Wipo, la strada di una unica legge
per tutto il mondo non è più granché percorribile, come dimostra il
fallimento del vertice di Cancun. In particolar modo, bisogna prevedere
delle «eccezioni» per paesi, come il Brasile e l'India, che nelle ultime
decadi hanno conosciuto significati processi di industrializzazione. In
altri termini, se l'applicazione dei Trips deve essere rigida per i paesi in
via di sviluppo, per quelli di «recente industrializzazione» va usata una
mano di velluto in direzione di una stabilizzazione delle relazioni
interstatali, evitando così l'acuirsi dei conflitti tra Nord e Sud del
mondo. Conflitti che avevano visto manifestarsi anche un altro inatteso
ospite, il «movimento dei movimento», che aveva occupato la scena politica
globale proprio durante in una riunione del Wto dove si discuteva anche di
proprietà intellettuale.

Che il clima internazionale sia cambiato lo testimonia il lavoro di una
commissione «indipendente» voluta dal governo laburista di Blair -
Integrating Intellectual Property Rights and Development Policy
(www.iprcommission.org) - che nel documento finale consiglia una politica
«dell'attenzione» nei confronti dei paesi di recente industrializzazione,
che hanno conosciuto uno sviluppo della capacità produttiva nei settori
«sensibili» alla proprietà intellettuale. Il riferimento implicito è proprio
al Brasile e all'India, rispettivamente paesi emergenti nell'industria
farmaceutica e nell'high-tech, nonché naturali e enormi bacini di
biodiversità, il «vivente» che molte imprese vorrebbero mettere sotto
brevetto. Dello stesso tenore è anche il rapporto francese del Conseil
d'analyse économique - www.cae.gouv.fr -, nel quale un gruppo di economisti
e giuristi, in nome della difesa del diritto d'autore, invita a essere
pragmatici e realisti: una legislazione draconiana all'interno limiterebbe
le capacità innovative delle imprese e del «sistema-paese», mentre
l'applicazione a livello internazionale del sistema dei brevetti e del
copyright aumenterebbe le tensioni e i conflitti a livello globale e
favorirebbe la saldatura politica tra paesi di recente industrializzazione e
paesi in via di sviluppo, come è appunto accaduto al vertice del Wto tenuto
a Cancun.

La tripartizione del mondo che emerge dalle analisi degli organismi
sovranazionali è certamente una delle rappresentazioni della crisi di un
ordine mondiale basato sul libero mercato. E tuttavia i temi realtivi alla
brevettabilità del vivente, del copyright e dell'economia del logo quando
sono affrontati dal movimento di critica alla globalizzazione economica
rivelano la loro valenza politica più che economica in senso stretto.
L'animatore della mailing list nettime nonché teorico dei new media Geert
Lovink, nel presentare i materiali prodotti da gruppi di base e da
economisti «alternativi» in vista dell'appuntamento del Wsis, sostiene che
quello di Ginevra deve essere un evento nel quale tutto il «movimento dei
movimenti» deve far sentire con forza la sua voce. Tra questi spicca, per
capacità di sintesi, quello dell'attivista Alan Toner, di cui esiste anche
una versione tradotta in italiano scaricabile dal sito italiano di indymedia
(http://italy.indymedia.org). Il suo limite sta semmai nel considerare la
proprietà intellettuale solo come un impedimento alla libera circolazione
delle informazioni e un ostacolo allo sviluppo di media alternativi. In uno
degli studi più interessanti sul rapporto tra brevetti, innovazione e
sviluppo economico, la ricercatrice statunitense Petra Moser ha documentato
come il diritto d'autore, e i brevetti in particolare, abbia molto più a che
fare con la produzione di ricchezza che non con l'astratta difesa di
un'opera di ingegno (How Do Patent Laws Influence Innovation? Evidence from
Nineteeth-Cenury World Fairs, www.nber.org/papers/w9909). Di questo lavoro
ne ha già riferito Franco Carlini sulle pagine di questo giornale il 5
ottobre, ma è altresì importante notare come la ricercatrice americana
testimoni come l'assenza di una legislazione non rigida non ostacoli
l'innovazione, ma che anzi favorisca la ricerca scientifica di base, mentre
la presenza di una legge garantisca tutt'al più una circolazione e una
diffusione rallentata di quella che l'economista statunitense Nathan
Rosenberg ha chiamato «innovazione incrementale». In altri casi, come ha
documentato lo storico dell'impresa Alfred Chandler nel volume La
rivoluzione elettronica (Università Bocconi Editore), il diritto d'autore è
uno strumento flessibile per il governo politico del mercato e che è stato
di conseguenza usato, alternativamente, in maniera blanda quando si trattava
di «costruire un mercato», oppure per favorire, attraverso la costruzione di
robuste «barriere d'entrata», la posizione predominante di alcune imprese
che hanno già conseguito un «margine competitivo» rispetto a possibili
concorrenti.

Per tornare alla ricerca di Petra Moser, l'economista del Mit è molto
attenta a non giungere a conclusioni così drastiche, ma le sue ricerche
condotte all'interno della Sloan School Of Management, cioè uno dei tempi
sacri a favore del libero mercato, lasciano ben pochi margini di dubbio. La
proprietà intellettuale è quindi da considerare lo strumento attraverso il
quale le imprese vogliono, da una parte mantenere i loro margini di
profitto, dall'altra usarlo per «appropriarsi» di un sapere diffuso e da
sempre proprietà comune.

Rispetto a questa concezione della proprietà intellettuale come diritto
proprietario delle imprese, Internet rappresenta un'anomalia, perché la Rete
è cresciuta in un regime di diritto d'autore ai minimi termini: e questo
grazie proprio a un'attenta regia della National Science Foundation e del
Pentagono, che hanno favorito libera circolazione e condivisione della
conoscenza all'interno della comunità scientifica e hanno promosso la
diffusione dei risultati della ricerca scientifica nella realtà produttiva
degli Stati uniti.

Ma Internet è anche il luogo dove questa alterità rispetto alle leggi sulla
proprietà intellettuale ha dato vita ai movimenti dell'open source e del
freesoftware. In una ricerca condotta dai due giovani economisti americani
Josh Lerner e Jean Tirole - The Simple Economics of Open Source,
www.nber.org/papers/w7600 - viene descritto, attraverso lo studio dello
sviluppo dei software Apache, Sendmail e del linguaggio di programmazione
Perl, di il percorso che ha condotto decine di migliaia di programmatori
dalla critica alla proprietà intellettuale a sviluppare attività economiche
di tutto rispetto. Per Lerner e Tirole, i tre case studies dimostrano che
c'è innovazione quando esiste condivisione della conoscenza e che qualsiasi
gabbia che vuol richiudere e privatizzare il sapere sociale ostacola lo
sviluppo economico. Conclusioni condivisibili e convincenti, ma che sono
condotte proprio in nome della libera concorrenza e della critica delle
posizioni di monopolio che alcune delle major dell'informatica hanno nella
produzione di software.

E uno dei compagni di strada che i mediattivisti incontreranno durante la
riunione del Wsis saranno proprio i programmatori del software libero. Come
questo incontro possa tradursi o meno in una ricchezza reciproca non è dato
sapere. E' indubbio che l'open source e il freesoftware sono una realtà
economica che usa un linguaggio libertario e antimonopolista, ma
rappresentano al tempo stesso un modello di autorganizzazione sociale che fa
leva proprio sull'informazione e sulla conoscenza come bene comune. Cioè le
caratteristiche proprie tanto del «movimento dei movimenti» che dei
mediattivisti, che il regime della proprietà intellettuale vuole ricondurre
alla ragione economica. Quella stessa ragione che trasforma il sapere e la
conoscenza in merce.