riparte l'economia americana?



da repubblica.it

unedi 20 Ottobre 2003

Il ritorno della locomotiva americana

FEDERICO RAMPINI

La ripresa americana è una solida realtà. Si possono avere dubbi sulla sua
sostenibilità nel mediolungo periodo, alla luce dei «deficit gemelli» (conti
pubblici e commercio estero). E' d'obbligo la cautela riguardo ai benefici
di questa ripresa sull'occupazione, che potrebbero tardare più del normale.
Ma che la locomotiva americana sia ormai ripartita, non lo si può più
negare. Tutti i dati più recenti convergono nel confermare questo verdetto.
A settembre la Federal Reserve ha misurato un consistente aumento della
produzione industriale: +0,4% mensile, in contrasto con il lieve calo (meno
0,1%) di agosto. Le vendite al dettaglio sono scese dello 0,2% a settembre,
ma la colpa è tutta dell'automobile, se si esclude questo settore le vendite
invece sono salite dello 0,3%. Inoltre il Commerce Department ha rivisto al
rialzo i dati definitivi su luglio e agosto: l'aumento delle vendite al
dettaglio in quei due mesi era stato superiore alle cifre iniziali, ora è
misurato rispettivamente a +1,4 e +1,2%. La doppietta luglioagosto è
significativa, perché è la prima volta che si verificano due mesi
consecutivi con aumenti di vendite superiori all'1% dal marzo 2000, il mese
in cui ebbe inizio la caduta del Nasdaq.
La tenuta dei consumi dovrebbe prolungarsi nei prossimi mesi, anche perché
le famiglie americane sentono sui loro redditi netti il beneficio dei nuovi
sgravi fiscali e dell'aumento degli assegni familiari varati
dall'Amministrazione Bush. L'inflazione rimane molto bassa e anche questo
non guasta. A settembre l'indice dei prezzi al consumo è salito dello 0,3%
ma quasi tutto il rincaro del costo della vita è dovuto a un'impennata della
benzina. Se si escludono le voci di spesa che hanno una forte volatilità
stagionale energia e generi alimentari l'indice dei prezzi a settembre è
salito di un modestissimo 0,1%. La Federal Reserve ne deduce che
nell'economia americana rimangono all'opera potenti forze deflazionistiche
(aumento della produttività, importazioni dalla Cina), e quindi deciderà di
mantenere invariati i tassi a breve in occasione del suo prossimo meeting il
28 ottobre. Al livello minimo degli ultimi 45 anni (1%) i tassi a breve sui
federal funds contribuiscono a sostenere la ripresa economica e in
particolare i consumi, perché si trasmettono alle famiglie attraverso bassi
interessi sui mutui immobiliari, sulle carte di credito e su tutti gli
acquisiti rateali (automobili in testa). A questi livelli dei tassi, perfino
il rialzo di questa estate sugli interessi dei mutui non ha raffreddato il
mercato immobiliare: sia le costruzioni di nuove case, sia le vendite di
abitazioni già esistenti rimangono molto sostenute, malgrado i segnali di
una "bolla speculativa" nei prezzi di molte aree urbane.
Notizie moderatamente buone sono uscite anche dal mercato del lavoro. Il
Labor Department ha rilevato che nella settimana dal 6 al 12 ottobre le
nuove richieste di indennità di disoccupazione sono scese di 4.000 unità,
attestandosi a livello di 384.000. La media mobile di questo dato misurata
su quattro settimane (un indicatore meno volatile) è scesa di 4.250 unità a
390.750: è il più basso livello dal febbraio scorso. Il Beige Book
pubblicato dalla Federal Reserve la settimana scorsa ha confermato questo
quadro generale: il suo giudizio è che la ripresa sta acquistando velocità
grazie alle spese dei consumatori e il rialzo nell'attività industriale ne è
una chiara conferma. I chief executive delle più grandi imprese americane,
riuniti nella Business Roundtable, prevedono ormai una crescita del Pil Usa
pari al 3,3% nell'ultimo trimestre dell'anno e anche questo è un segnale di
ottimismo: nel sondaggio precedente, effettuato a luglio, la loro previsione
per il Pil di questo trimestre finale era del 2,3%. Gli analisti
macroeconomici che partecipano al sondaggio trimestrale della Reuters sono
anch'essi molto positivi, ormai prevedono una crescita media del Pil
americano pari al 3,5% per l'intero 2003.
Nessuno però si fa illusioni sugli effetti che questa ripresa può avere nel
breve termine sul mercato del lavoro, che in fin dei conti è la cosa più
importante per il benessere della nazione. A settembre c'è stata una
creazione netta di 57.000 nuovi posti di lavoro (come saldo fra assunzioni e
licenziamenti): è un modesto segnale di svolta, ma ci vuole ben altro.
Tenuto conto della continua crescita demografica sostenuta anche
dall'immigrazione l'America ha bisogno di creare dai 200.000 ai 300.000
posti di lavoro aggiuntivi ogni mese, per almeno sei mesi, per poter
abbassare in maniera significativa il tasso di disoccupazione. Attualmente
l'indice della disoccupazione è pari al 6,1% della forza lavoro. I 25
economisti sondati dalla Reuters prevedono che tra un anno si sarà a
malapena mosso: 5,9%. Non è la prima volta che gli Stati Uniti sperimentano
una "jobless recovery", una ripresa senza creazione di posti di lavoro:
accadde nel 1991, e fu la ragione principale della mancata rielezione di
George Bush padre alla Casa Bianca. Un intervallo di ritardo fra il momento
in cui l'economia riparte, e quello in cui le imprese ricominciano ad
assumere in proporzioni significative, è normale. Questa volta però si ha
l'impressione che l'intervallo sia diventato più lungo, e la colpa sarebbe
del forte aumento di produttività, che consente alle imprese di rispondere
all'incremento della domanda senza dover aumentare i dipendenti.
L'altra incognita che pesa su questa ripresa sono i due gravi squilibri
macroeconomici del sistemaAmerica. Il deficit dei conti pubblici federali
raggiungerà il livello record di 500 miliardi di dollari nell'anno fiscale
2004, cioè quasi il 5% del Pil. Il deficit nei conti con l'estero sarà
ancora superiore: quest'anno si avvia a toccare i 570 miliardi di dollari,
l'anno prossimo si prevede che sfonderà la soglia dei 600 miliardi.
L'esistenza di questi deficit gemelli significa che la ripresa americana
dipende dalla fiducia degli investitori stranieri, dalla disponibilità del
resto del mondo a continuare a finanziare gli Stati Uniti. Una fiducia che
può essere incrinata dalla debolezza del dollaro: cioè proprio da quel
deprezzamento che Washington incoraggia al fine di rilanciare le
esportazioni...e la crescita.