il capitale scopre l'etica ?



il manifesto - 02 Settembre 2003


Il capitale ora scopre l'etica?
Si fa molta confusione tra finanza etica, responsabilità sociale
dell'impresa, economia non profit. Cerchiamo di fare il punto sul dibattito
e sulle esperienze davvero alternative alla finanza tradizionale

ALESSANDRO MESSINA

Il rapporto tra etica ed economia è un filone di indagine che negli ultimi
dieci anni è particolarmente cresciuto. Oltre ad un'attività teorica si è
osservata, e forse in modo ancora più significativo (è il caso dell'Italia),
una emersione di nuove pratiche ed esperienze che cadono a vario titolo
sotto la duplice categoria del «rapporto tra economia ed etica» e della
«responsabilità sociale delle imprese». Dalle Nazioni Unite alla Commissione
Europea sono numerosi i documenti in cui si chiede alle imprese di
«eticizzare» i propri comportamenti. E il governo italiano ha inserito la
responsabilità sociale delle imprese tra le priorità del semestre europeo.
Il tema del rapporto tra etica ed economia diventa sempre più importante. In
una recente ricerca è emerso che il 58% dei cittadini europei (64% in
Italia) ritiene che il mondo economico non dedichi sufficiente attenzione
alla responsabilità sociale. Tra questi cittadini il 25% (20% in Italia)
considera molto importante nella scelta dei propri acquisti l'impegno e la
responsabilità sociale dell'azienda produttrice e il 44% (16% in Italia) è
disposto a riconoscere un valore maggiore a questi prodotti, accettando un
prezzo più alto.

La domanda di etica, inevitabilmente genera il suo mercato e crea i suoi
strumenti. Il marketing sociale anche in Italia si sta affermando per la
comunicazione del marchio e l'intercettazione di nuovi consumatori: secondo
l'Upa (Utenti Pubblicità Associati), il 75% delle aziende italiane ha
realizzato un'operazione di marketing sociale negli ultimi due anni.

D'altro canto, di fronte ai danni ambientali, alle produzioni considerate
immorali (armi, tabacco, alcool) e a comportamenti contrari ai diritti umani
fondamentali (come il lavoro minorile) vi sono movimenti di cittadini che
nel tempo hanno maturato capacità di lobbying, di pressione, di
sensibilizzazione dell'opinione pubblica con il fine di ottenere maggiore
trasparenza e attenzione a queste tematiche da parte delle imprese. Da
queste spinte dal basso e dalle esperienze concrete è derivato lo sviluppo
dei codici di condotta, del bilancio sociale, dei marchi di qualità sociale,
degli investimenti socialmente responsabili.

I codici di condotta sono adottati dalle imprese e resi pubblici per
esplicitare quali sono i valori di riferimento che guidano le prassi
aziendali. Va detto, però, che in questi codici è difficile trovare impegni
concreti e spesso anche i principi espressi sono vaghi e ben inferiori, da
un punto di vista qualitativo, rispetto ai pur generici standard previsti
dalle organizzazioni internazionali (in particolare quelli dell'Oil,
l'Organizzazione internazionale del lavoro). Solitamente ai codici di
condotta (o codici etici) viene affiancato il bilancio sociale, una
rappresentazione dell'impatto ambientale e sociale dell'attività
dell'impresa.

Strumento sempre più diffuso di marketing e comunicazione per la promozione
dell'immagine aziendale (sponsorizzazioni, azioni «buone»), il bilancio
sociale ha progressivamente perso la sua natura di controllo interno
rispetto alla efficacia sociale della attività dell'impresa.

I marchi di qualità sociale sono in un certo senso lo specchio dei codici di
condotta sui prodotti. Riproducono infatti sulle etichette delle confezioni
alcune sintetiche descrizioni su come quel prodotto è stato (o più
comunemente, come non è stato) ottenuto. Ben più complessa e ambiziosa è la
sfida degli investimenti socialmente responsabili. Negli Usa, il mercato dei
prodotti finanziari responsabili ha raggiunto nel 1999 un valore di circa
2200 miliardi di dollari. In Europa erano nel 2002 circa 300 i fondi che
facevano riferimento a criteri ambientali e sociali. A indicare che il
legame tra finanza e comportamento delle imprese è sempre più in voga,
soprattutto negli Stati uniti, è il successo del Dow Jones Sustainability
World Index (DJSWI), fratello minore del famoso indice di borsa. Si tratta
di un indice che raccoglie soltanto quei titoli che, presenti nel Dow Jones
tradizionale, hanno ottenuto i punteggi più alti in termini di
sostenibilità.

Altro strumento che segue l'approccio culturale anglosassone è quello della
certificazione sociale. Si tratta dell'ancora poco diffuso SA 8000, standard
internazionale di certificazione «sociale», il cui obiettivo è proprio
verificare la rispondenza dei comportamenti e dei bilanci delle imprese alle
stesse (vaghe) regole elaborate dall'Onu o dalle sue agenzie. Proprio nel
1999 l'Onu ha lanciato al World Economic Forum di Davos il Global Compact,
una piattaforma di confronto per le imprese che accettino di promuovere
principi e buone prassi relativamente ai diritti umani, al lavoro e
all'ambiente. Il lavoro dell'Onu non si distingue certo per originalità e
non mette in discussione nessuna delle regole di comportamento delle
imprese, soprattutto per le grandi multinazionali e transnazionali. In ogni
caso l'Onu, ben conscia degli scarsi strumenti a sua disposizione, mette le
mani avanti: «il controllo e la verifica delle pratiche aziendali non
rientra all'interno del mandato o tra le capacità istituzionali delle
Nazioni Unite».

Ciò nonostante il Global compact ha fatto scuola. È infatti nella cornice
delineata dal lavoro dell'ONU che la Commissione Europea ha voluto inserire
il suo Green paper (Libro verde) sulla responsabilità sociale delle imprese.
Pur rappresentando un passo avanti rispetto a quello ONU il documento della
Commissione Europea (più attento ai diritti dei lavoratori e all'uso delle
risorse ambientali) ha un approccio vago e asistemico su alcuni aspetti
cruciali: formazione, pari opportunità, politiche non discriminatorie,
stabilità dei posti di lavoro, diritti umani.

E chiudiamo con l'Italia. Come si ricordava all'inizio, il governo italiano
ha inserito tra le priorità del semestre europeo la responsabilità sociale
delle imprese. Maroni in testa, i nostrani berluscones spacciano per azione
culturale l'ennesimo tentativo di liberare i capitali dai controlli di
governi e sindacati. Concedendo alle imprese - meglio se multinazionali - di
scegliere come e su cosa darsi delle regole (che non si provi a parlare di
vincoli). Al modesto prezzo di un po' di beneficenza. Come quella di cui
parla ripetutamente nei tanti convegni su etica ed economia, finanza etica,
impresa sociale ecc. promossi da gatti e volpi varie del business: dalla
finanza assetata di rifarsi un'immagine (con Banca Intesa, tra le prime
banche armate italiane, in prima linea), a Confindustria e Assolombarda, dal
Sole24ore al suo surrogato nonprofit Vita. Il nonprofit autentico ha scelto
invece un'altra strada: quella dei diritti - e non della beneficenza -
dell'altra economia, della trasformazione sociale.