detabase sicurezza sovranita'



da analisidifesa.it

OSSERVATORIO CeSDiS

DATABASE, SICUREZZA E SOVRANITÀ
di Giovanni Nacci

Il valore delle basi di dati per gli Stati

Questo lavoro è il sunto di alcune lezioni tenute nell'ambito di un corso di
formazione per il Commercio Elettronico Internazionale. Più che dimostrare
nuove tesi o formalizzare teorie innovative, esso vuole avere la presunzione
di stimolare un dibattito di più ampia portata, che coinvolga
professionalità e intelligenze che esulano da quelle tradizionalmente
operanti nel campo dell'informatica.

Il tema prende spunto da una tesi di Simon Nora e Alan Minc, riportata nel
loro famoso rapporto "L'informatisation de la Société" (La Documentation
Francaise, Parigi, 1978, trad. it. "Convivere con il calcolatore", Bompiani
1979) nel quale propongono un interessante quanto ardito parallelo tra l'
esercizio del "dovere di sovranità" di uno Stato e la necessità di
costituire, sul territorio, basi di dati proprietarie, al fine ultimo di
assicurare la conservazione, l'accrescimento e la tutela di quella che
definiscono come "base di conoscenza" nazionale.L'opera di Nora-Minc
contiene idee quantomeno lungimiranti, ritenute da alcuni commentatori
addirittura "visionarie", in virtù della sconcertante profondità di
dettaglio con la quale viene descritta, sul finire degli anni '70, la
vorticosa evoluzione del contesto socio-informativo verificatasi nei
successivi venti anni.

Accantonata ogni previsione di ordine squisitamente "profetico", rimane il
fatto che Nora e Minc hanno anticipato le quattro circostanze fondamentali
che sono alla base di quella che oggi siamo soliti chiamare "Società dell'
Informazione" e cioè:
1. le banche dati hanno assunto estensione internazionale (in riferimento
cioè alla dimensione extraterritoriale delle tematiche e delle informazioni
trattate);
2. le banche dati sono facilmente accessibili da qualsiasi punto del mondo e
in modo sufficientemente economico (abbattimento delle limitazioni di ordine
socio-economico e geografico nella fruizione dell'informazione);
3. molti Paesi attingono conoscenza da banche dati impiantate e gestite da
Stati "monopolisti" nell'informazione (primi fra tutti, gli Stati Uniti).
4. molti Paesi, non avvertendo l'esigenza di realizzare proprie basi di dati
sul proprio territorio, vivono una sorta di "dipendenza informativa" nei
confronti delle basi di dati di altre nazioni, tacitamente accettata e non
considerata più vincolante di altre forme di dipendenza (energetica, ad
esempio). Sulla base di queste considerazioni, Nora e Minc descrivono l'
informazione come un bene caratterizzato da una peculiarità molto singolare,
ossia quella di essere «.inseparabile dalla sua organizzazione, dal suo modo
di conservazione».

Così come l'energia elettrica che giunge nelle nostre case è un bene
inscindibile dai complessi apparati per la sua generazione, conservazione,
distribuzione ed erogazione, l'informazione (parimenti dissipabile.) non può
essere separata dai supporti attraverso i quali viene trattata, elaborata e
conservata. E' per questo motivo che per uno Stato è importante disporre sul
proprio territorio di sistemi e infrastrutture dedicate al trattamento ed
alla "conservazione" dell'informazione. Diversamente, usufruire di "basi di
dati" esterne, perlopiù organizzate e gestite in modo monopolistico da un
ristretto numero di paesi "dominanti", equivarrebbe ad una vera e propria
alienazione culturale. Se si pensa al susseguirsi delle trasformazioni
socio-culturali che la nostra società ha vissuto a partire dalla fine del
secondo conflitto mondiale, ci si rende conto della ragionevolezza della
tesi di Nora e Minc. Ciò che oggi noi chiamiamo "Società dell'informazione",
ha la sua massima manifestazione pubblica nella rete comunemente denominata
"Internet". Ma Internet in realtà non è altro che l'ultimo stadio (per il
momento) dell'evoluzione di un modello socio-organizzativo caratterizzato
dal massimo livello di interconnessione e interdisponibilità delle risorse
informative, liberamente accessibili in modo semplice ed economico.

In questo contesto così apertamente liberale, è però molto facile per chi
dispone di adeguate risorse tecnologiche ed economiche, assumere posizioni
predominanti, che spesso diventano (neanche tanto velatamente) egemoniche.
Il rischio è infatti che la facilità di accesso e fruizione dell'
informazione, intesa soprattutto come possibilità di dare massima pubblicità
del proprio pensiero (con riferimento al proliferare di fenomeni quali: siti
internet personali, forum, chat E-Mailing, e altri servizi simili
disponibili sulla rete Internet) generi una falsa certezza di pluralità,
democraticità e soprattutto affidabilità del modello socio-informativo
stesso e dei suoi apparati di gestione. In questo contesto, una delle
conseguenze più evidenti è la trasformazione del concetto di informazione da
semplice «.nozione . raccolta o comunicata nell'ambito di una utilizzazione
pratica o immediata» a «bene economico», cioè bene atto a soddisfare un
particolare bisogno e per questo motivo atto ad essere merce di scambio
(mercato). Pertanto, si verifica immediatamente l'esigenza di dotare l'
informazione di ulteriore valore aggiunto (maggior significato utile =
maggior valore economico) attraverso la sua catalogazione, classificazione e
correlazione con altre entità simili, oltre che attraverso la generazione di
relazioni logiche atte ad evidenziare contenuti prima non immediatamente
visibili.

In una parola, il "trattamento dell'informazione". Tecnicamente trattare l'
informazione significa, per prima cosa, fissarne il valore semantico in modo
che rimanga disponibile e accessibile nel tempo e nello spazio, in buona
sostanza: "memorizzarla". Crearne cioè una "impronta" su un supporto fisico
che le doni materialità (quindi persistenza e disponibilità) e, come
precedentemente affermato, formalizzarla, classificarla, ordinarla in una
pluralità di indici e relazioni logiche diverse, funzionali a obiettivi e
scopi diversi. Renderla cioè accessibile e interrogabile attraverso metodi
assimilabili al linguaggio naturale. Questo vuol dire creare "conoscenza
dall'informazione" ed è proprio a questo che servono le "basi di dati". Si è
detto come Nora e Minc considerassero la mancata realizzazione di proprie
basi di dati alla stregua di una più o meno consapevole sottomissione a
pochi paesi dominanti, espressione di una reale rinuncia alla sovranità. Il
punto di forza del ragionamento di Nora-Minc sta proprio nel supportare
questa tesi attraverso l'osservazione della particolare natura
"deteriorabile" dell'informazione, che non può prescindere dal supporto
sulla quale essa è rappresentata (quindi il metodo di conservazione, di
memorizzazione) oltre che dalle modalità con cui questo supporto è reso più
o meno accessibile (quindi l'organizzazione e la distribuzione, i metodi).

La cosiddetta "digitalizzazione" della società non fa altro che rendere
ancora più forte l'interdipendenza tra "informazione" e "supporto di
memorizzazione". Infatti, a differenza della creta, della pergamena e della
carta (elementi che nel tempo si sono tramandati il "nobile" compito di
trasfondere la loro fisicità all'informazione, per garantirne la
conservazione nel tempo del significato semantico) il supporto digitale
presuppone una sorta di "smaterializzazione" dell'informazione.
"Smaterializzazione" non perché l'informazione non risieda più su un
supporto fisico tangibile (che sia tavola di creta o nucleo di ferrite,
piuttosto che disco ottico, poco importa) ma semplicemente perché nel
modello digitale la conoscenza (ogni tipo di conoscenza) viene rappresentata
in modo "non originario", attraverso un formalismo diverso e soprattutto
"distante" da quello naturale (quello"binario"). Infatti, ogni atto di
fruizione dell'informazione (acquisizione, memorizzazione, visualizzazione,
cancellazione, ecc.) altera il formalismo originario dal dato, in quanto si
rende necessaria ogni volta prima una "decodifica" (che ne permetta l'
interpretazione nel linguaggio naturale) e successivamente una "codifica",
che ne permetta la memorizzazione (quindi conservazione) sul supporto
digitale.

Ed è proprio questa caratteristica che rende possibile la registrazione sul
supporto digitale di ogni tipologia di informazione (testuale, grafica,
audio, video, ecc.). In altri termini l'informazione "diventa" ogni volta il
supporto sul quale è memorizzata e viceversa, in totale simbiosi. Ovvio,
quindi, che colui che possiede e gestisce il "supporto", di fatto possiede e
gestisce la conoscenza in esso contenuta (aggiornamenti, disponibilità,
accessibilità e fruibilità, attendibilità dell'informazione, ecc.). Quando
questa conoscenza è l'immagine della "memoria collettiva" di uno Stato -cioè
la sua "identità"- appare un preciso dovere istituzionale dotarsi di
tecnologie, strumenti amministrativi e normativi atti a tutelarla e
preservarla. Questa memoria collettiva ha un valore inestimabile. Si pensi
alla quantità ed alla qualità delle informazioni originate dagli apparati
amministrativi e di gestione statali quali archivi, raccolte normative,
collezioni di atti e provvedimenti di ministeri o enti pubblici, forze
armate e di pubblica sicurezza, regioni, province, comuni, ospedali e
aziende sanitarie locali, ecc. fino a giungere alle basi di dati generate da
imprese, aziende, professionisti. Tutto questo non è forse patrimonio
culturale dello Stato, inteso nell'accezione più ampia del termine? Il fatto
è che il più delle volte questi patrimoni informativi sono affetti da un
elevatissimo tasso di disorganizzazione, da una incompatibilità dei modelli
di rappresentazione della conoscenza oltre che da una cronica inadeguatezza
dei sistemi di condivisione dell'informazione.

In sostanza, manca l'infrastruttura, ossia quel sistema di tecnologie,
metodi e risorse che funge da rete di distribuzione ed erogazione dell'
informazione o, in altre parole, l'equivalente degli elettrodotti e delle
centrali elettriche per l'energia elettrica. In queste situazioni, la
"sovranità" non può essere esercitata semplicemente perché la "base di
conoscenza" non è palesata come "sistema funzionale", operante sul
territorio dello Stato. Ce ne rendiamo conto con un esperimento. Eseguiamo
su Internet una ricerca qualsiasi con uno dei tanti motori di ricerca.
Analizziamo i risultati ottenuti con un semplice strumento di trace route,
strumento applicativo e di sistema che permette di tracciare un indirizzo IP
della rete internet o un nome di dominio, al fine di ottenere tutta una
serie di informazioni tra le quali la localizzazione geografica approssimata
del computer che corrisponde al quell'indirizzo IP o del corrispondente sito
ospitato fisicamente sulle memorie di quel computer
Troveremo che nella maggior parte dei casi le risorse informative presenti
sul "network" mondiale per eccellenza (Internet) e originate in ogni parte
del mondo, sono invece "fisicamente" residenti su server (computer collegati
alla rete Internet tramite un indirizzo univoco e che erogano vari servizi
di connettività e distribuzione delle informazioni: servizi web, e-mail,
FTP, ecc ) situati sul territorio degli Stati Uniti, raggiungibile tramite
nomi di dominio gestiti da autorità americane, (si veda a titolo informativo
il sito di Network Solutions Inc.

(www.netsol.com) che mantiene il database -Registry- dei domini con
desinenza ".com", ".net" e ".org") distribuite su dorsali di
telecomunicazione americane. Immaginiamo a questo punto un teatro strategico
irreale, nel quale per un qualche motivo tutti i canali di comunicazione
Internet da e verso gli Stati Uniti venissero improvvisamente oscurati, una
situazione da "embargo informativo" insomma. In una simile circostanza, gli
USA manterrebbero la disponibilità di un patrimonio informativo mondiale
sterminato, sia sotto l'aspetto dimensionale che tematico, costituito dalle
basi di dati di quei Paesi (intesi come sistema di istituzioni pubbliche,
imprese, aziende e privati cittadini) che si erano affidati ad
infrastrutture "esterne" per il mantenimento e la pubblicazione delle loro
basi di dati. Questi paesi, dal canto loro, si vedrebbero estromessi dal
"network" essendo di fatto impossibilitati ad accedere alle informazioni su
di esso residenti (ivi comprese quelle di loro proprietà, non residenti in
basi di dati impiantate sul territorio nazionale). Ma il punto su cui Nora e
Minc insistono è soprattutto un altro: un Paese che -per scelta, necessità o
altro- non disponga affatto di banche dati, in un contesto di rete
informativa globalizzata, quali strumenti ha per validare e certificare l'
originalità, la veridicità e la rispondenza alla realtà delle informazioni
che attinge da terzi? Come si fa ad essere sicuri che quelle informazioni
non siano state abilmente contraffate allo scopo di condurre a "certe"
valutazioni e a "certe" decisioni? Corriamo troppo ? Forse.

Eppure il dossier consegnato dall'Iraq nelle mani dell'ONU circa il
"database" (termine in qualche occasione usato anche dai media) relativo
alle armi di distruzioni di massa di quel paese, potrebbe costituire l'
esempio più recente di una seppur rudimentale azione di "guerra informativa"
. Come ovviare a tutto ciò? Nell'ottica della presente congiuntura
economica, quanto è conveniente per gli Stati investire una considerevole
quantità di risorse nella costituzione e gestione di basi di conoscenza
interne? Forse qualcuno obbietterà che la "minaccia" fin qui prospettata non
può ragionevolmente avere elevate probabilità di verificarsi. ma d'altronde
non erano considerate elevate neanche le probabilità di un attacco aereo al
cuore di New York. Inoltre, possiamo sicuramente affermare il fatto che i
grandi database e le dorsali di telecomunicazione internazionali non
siano -allo stato- più difese dello spazio aereo sopra il Pentagono.
Considerati gli accadimenti del tragicamente famoso 11 settembre, forse è il
caso di pensarci su: troppo spesso negli ultimi tempi è stata la realtà a
superare la fantasia. Secondo il pensiero di Nora-Minc, una soluzione per
gli Stati può essere quella di riappropriarsi della legittima "memoria
collettiva" (finora concentrata sul territorio in pochi paesi dominanti) e
riaffermare la propria sovranità sulla "conoscenza" generata dalle proprie
strutture e dai propri cittadini, attraverso la costituzione sul proprio
territorio di basi di dati.

Che vantaggi può avere uno Stato nel mantenere queste basi di dati sul
proprio territorio? Molti, anzi moltissimi. In primo luogo in termini di
prestigio e rafforzamento dell'identità e -perché no- dell'orgoglio
nazionale (basti pensare alla problematica della fuga di "cervelli" all'
estero), poi in termini di patrimonio culturale (il nostro ordinamento
considera le "basi di dati" alla stregua delle "opere dell'ingegno",
tutelandole con la stessa normativa che tutela il diritto d'autore),
successivamente in termini socio-economico (attraverso la regolamentazione
dell'accesso e della fruizione delle banche dati), in ultimo in termini di
sicurezza e salvaguardia dell'ordine pubblico (basti pensare alla
difficoltà, secondo il nostro attuale ordinamento, nell'accertare e
perseguire reati perpetrati attraverso sistemi informatici residenti fuori
dal territorio nazionale). Da non sottovalutare sarebbero poi i vantaggi
derivanti da una incrementata capacità di controllo da parte dello Stato in
materia di misure di sicurezza a tutela della riservatezza delle basi di
dati (pubbliche e private) contenenti dati personali dei residenti (c.d.
legge sulla "privacy"). Quanto sopra evidentemente a tutto vantaggio delle
molteplici situazioni di "non reciprocità" della normativa specifica tra
paese e paese.

Nel caso di specie, essendo la cosiddetta "legge sulla Privacy" una norma
emanata in attuazione di una raccomandazione comunitaria, non dovrebbero
sussistere grosse preoccupazioni in ambito CEE. Il problema si pone invece
in misura apprezzabile nei trasferimenti di informazioni tra i paesi CEE e
quelli extra-CEE (in modo particolar modo verso gli USA). Non reciprocità
queste che -con tutta probabilità- sono tra le concause che hanno
contribuito alla comparsa di fenomeni ancora poco chiari quali, ad esempio,
"Echelon". Focalizzando meglio il discorso sul nostro paese, la quasi
totalità del suo pur invidiabile patrimonio informativo (scuole, università,
enti di formazione civili e militari, istituti di ricerca pubblici e privati
e chi più ne ha più ne metta) non è ancora organizzata in una forma
immediatamente fruibile ne (sempre a causa della solita carenza di standard
comuni per la rappresentazione della conoscenza) è possibile "incrociare"
tali informazioni tra di loro. Perché allora non spingere per la
costituzione di un "sistema nazionale delle conoscenze", attraverso il quale
realizzare l'interconnessione fisica e logica tra i diversi originatori di
conoscenza e la convergenza dei linguaggi e dei metodi rappresentativi? Due
scogli (oltre la volontà): costi e tempi. L'ultima parola tocca ovviamente
agli Stati e ai governi: globalizzazione informativa e alienazione culturale
oppure salvaguardia della "memoria collettiva" nazionale ? Così la vedono
Simon Nora e Alan Minc:
«Le banche dati sono spesso internazionali e gli sviluppi in materia di
trasmissione permetteranno di accedervi senza eccessiva penalizzazione
tariffaria da un qualsiasi punto del globo.

Da qui, per certi paesi, la tentazione di utilizzare la banche dati
americane senza costituirne di proprie sul loro territorio. Questa
indifferenza viene dall'idea che questo tipo di dipendenza non sia più forte
ne più preoccupante di quella riguardante qualsiasi altro genere di
forniture. Ma qui il rischio è di altra natura. L'informazione è
inseparabile dalla sua organizzazione, dal suo modo di conservazione. Il
sapere, come sempre è stato, finirà col modellarsi sulle raccolte di
informazioni. Lasciare ad altri, vale a dire alle banche di dati americane,
il compito di organizzare questa "memoria collettiva", contentandosi della
possibilità di attingervi, equivale ad accettare un'alienazione culturale.
La realizzazione di proprie banche di dati costituisce perciò un dovere di
sovranità.» (Nora-Minc, "L'informatisation de la Société")
Agli antipodi, c'è l'etica haker (nell'accezione corretta e originaria del
termine, derivante dal soprannome che un gruppo di studenti del MIT
componenti del "Tech Model Railroad Club". plastici ferroviari, si era dato.
Per approfondimenti si veda a tal proposito: G. Pomante "Internet e
Criminalità" -Giappichelli Editore - 1999 Torino), secondo la quale
informazione e conoscenza devono essere libere e alla portata di tutti, in
modo che ognuno possa giovarne, usufruirne e liberamente parteciparvi con il
proprio contributo, ai fini della crescita personale e della collettività.

Però, se ci fermiamo un attimo a riflettere, ci accorgiamo che tutti
noi -ogni giorno- con un pizzico di inconsapevole individualismo, tendiamo a
salvaguardare la nostra personale "base di conoscenza", tendiamo cioè a
tutelare il nostro "sapere", le nostra esperienze, la nostra
professionalità, la nostra bravura. Lo facciamo nei confronti di colleghi e
superiori, di studenti e allievi, di amici e sconosciuti, talvolta finanche
all'interno della nostra famiglia. Lo facciamo normalmente e giustamente per
salvaguardare i nostri legittimi interessi, in tutti gli ambiti della vita,
dal più rilevante al più futile. Lo facciamo semplicemente perché per
ottenere quella conoscenza, quelle esperienze, quelle informazioni, abbiamo
speso risorse. Risorse in termini di impegno, tempo, studio, oltre che
economiche. Tutto ciò ha un valore e -volenti o nolenti- è proprio questo
che difendiamo.
Il punto di congiunzione (perché ne esiste sempre uno) è esattamente questo:
l'informazione ha valore, l'informazione è patrimonio. L'informazione, per
imprese, aziende, Stati e cittadini qualsiasi, è uno strumento. Uno
strumento strategico di gestione e amministrazione della propria vita, dei
propri affari, della propria struttura, del proprio business e -almeno in
questo modello di società- appare indispensabile la sua tutelarla.

In conclusione, nel commentare le idee di questi due autorevoli studiosi, è
importante cercare di astrarle da una logica di mero confronto politico,
evitando di cadere nel tranello di decidere a tutti i costi se siano idee di
"destra" o di "sinistra". Questo sia perché tali definizioni sono sempre
state strette a chi si pone di fronte ai problemi con metodo scientifico,
sia perché succede talvolta che la soluzione più semplice appaia troppo
banale, solo perché sta "nel mezzo". Il dibattito è aperto. Temo (in realtà
spero) che lo sarà per molto.