le premesse economiche della democrazia



da fondazione di vittorio aprile 2003

Giorgio Lunghini
(Università di Pavia)
Le premesse economiche della democrazia

Siamo, nella mia fede assai ottimista e condivisa da pochi, temo, sia a
destra che a sinistra, in uno di quei momenti cruciali della vicenda umana
nei quali si può essere salvati soltanto dalla soluzione di un problema
intellettuale.
J.M. Keynes

Il compito principale della politica è di governare i rapporti tra processo
di produzione e processo di riproduzione, cioè i rapporti tra economia e
società, dunque i rapporti tra mercato e Stato. Se il valore fondante è la
democrazia, è necessario riflettere su quali ne siano le premesse
economiche. Con 'democrazia economica' non intendo una qualche forma di
partecipazione dei lavoratori alle decisioni circa le modalità del processo
di produzione. Di questa possibilità è ragionevole dubitare, poiché il
controllo delle condizioni di produzione è la prerogativa di cui i
capitalisti sono più gelosi, e mai rinunceranno alla loro autonomia nelle
decisioni di investimento o di tesaurizzazione e nella scelta delle tecniche
di produzione. Che cosa sarebbe cambiato, se nel consiglio di
amministrazione di Fiat Auto ci fosse stata una rappresentanza dei
lavoratori? Intendo invece che la democrazia economica è condizione
necessaria per la democrazia sostanziale; e che per essa sono a loro volta
necessarie almeno tre condizioni: la piena occupazione; una distribuzione
del reddito non iniqua, per classi e per famiglie; uno stato sociale che
fornisca quei beni e quei servizi, che il mercato non offrirà mai e che sono
invece parte essenziale del reddito reale dei lavoratori.
Può sembrare un tema astratto, ma di questi tempi non lo è. Con questo tema
bisogna comunque misurarsi, per sgombrare il campo dalla rovesciata
contrapposizione tra riformisti e estremisti e per definire in concreto
agenda e non agenda. Un autore cui può essere utile riferirsi oggi è J. M.
Keynes (come lo si definirebbe oggi:? riformista? estremista? Da parte sua
si chiedeva: Am I a Liberal?). Come ai tempi di Keynes, il problema del
nostro tempo è l'impiego incompleto e imperfetto, paradossale, delle risorse
intellettuali e materiali teoricamente disponibili per il benessere dell'
umanità:
Nel XIX secolo si sviluppò fino a un livello stravagante il criterio che,
per brevità, possiamo chiamare del tornaconto finanziario, come test per
valutare l'opportunità di intraprendere un'iniziativa di natura sia privata
sia pubblica. Ogni manifestazione vitale fu trasformata in una sorta di
parodia dell'incubo del contabile. Invece di utilizzare l'immenso incremento
delle risorse materiali e tecniche per costruire la città delle meraviglie,
si crearono i bassifondi e si pensò che fosse giusto e ragionevole farlo
perché questi, secondo il criterio dell'impresa privata, 'fruttavano',
mentre la città delle meraviglie sarebbe stata, si pensava, un atto di
follia che avrebbe, nell'imbecille linguaggio di stile finanziario,
'ipotecato il futuro'. [...] La stessa regola autodistruttiva di calcolo
finanziario governa ogni altro aspetto della vita. Distruggiamo le campagne
perché le bellezze naturali non hanno valore economico. Probabilmente
saremmo capaci di fermare il sole e le stelle perché non ci danno alcun
dividendo. [...] Il nostro sistema economico non ci consente di utilizzare
appieno le possibilità di benessere economico offerteci dallo sviluppo della
tecnologia ma si ferma molto prima di questo limite, dandoci la sensazione
che avremmo potuto colmare questo dislivello in modo assai più
soddisfacente.
Keynes scriveva anche che se lo scopo della vita è di cogliere le foglie
dagli alberi fino alla massima altezza possibile, il modo migliore di
raggiungere questo scopo è di lasciare che le giraffe dal collo più lungo
facciano morire di fame quelle dal collo più corto. Chi rifiuti questa
visione del mondo dovrebbe convenire che occorre invece migliorare le
condizioni di vita delle giraffe dal collo più corto:
Se abbiamo a cuore il benessere delle giraffe, non dobbiamo trascurare le
sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci
foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la
supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il brutto aspetto di
ansietà e voracità combattiva che copre i miti visi del gregge.
La riflessione più urgente a me pare dunque questa, che sottopongo agli
amici: quale debba essere il ruolo dello Stato nella attuale situazione
economica e sociale. Qualche principio di risposta si può trovare proprio in
Lord Keynes, un autore ieri tanto poco amato dalla sinistra quanto ridotto a
keynesismo criminale dalla destra, e che invece delinea una prospettiva di
grande interesse per una sinistra teoreticamente orfana e politicamente
disorientata. Non è il Keynes del breve periodo e della spesa pubblica
purchessia cui si dovrebbe guardare, ma il Keynes che ne La fine del laissez
faire propone questo criterio di agenda:
Dobbiamo tendere a separare quei servizi che sono tecnicamente sociali da
quelli che sono tecnicamente individuali. L'azione più importante dello
Stato si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano
già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d'azione degli
individui, a quelle decisioni che nessuno prende se non le prende lo Stato.
La cosa importante per il governo non è fare ciò che gli individui fanno
già, e farlo un po' meglio o un po' peggio, ma fare ciò che altrimenti non
si fa del tutto.
È dunque il Keynes dell'ultimo capitolo della Teoria generale, delle Note
conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la teoria generale
potrebbe condurre. Il termine 'filosofia' non deve trarre in inganno: in
verità si tratta di una lucida analisi dei 'difetti' del capitalismo e di un
disegno di politica economica teoreticamente ben fondato. I difetti più
evidenti della società economica in cui viviamo sono l'incapacità a
assicurare la piena occupazione e una distribuzione arbitraria e iniqua
della ricchezza e del reddito. Quando queste condizioni non siano
soddisfatte, e oggi non lo sono, la democrazia corre rischi gravi, che sono
i seguenti.
La disoccupazione ha aspetti non soltanto economici ma anche e soprattutto
politici. Quanti non dispongono di un lavoro regolarmente retribuito
costituiscono un partito, e il loro voto è inevitabilmente un voto di
scambio. Questo significa una frammentazione della società, del tutto
analoga a quella che rilevava Horkheimer come preludio al
nazionalsocialismo, e una rovinosa perdita di rappresentatività da parte
delle organizzazioni dei lavoratori. Viene qui l'obiezione secondo la quale
il problema non sussiste poiché il benessere materiale sarebbe assicurato. L
'idea che il lavoro sia un valore in sé, inoltre, sarebbe un'idea vecchia,
superata: 'premoderna'. Infatti il lavoro non è un valore in sé, lo è in
quanto la disponibilità di un reddito da lavoro, anziché da trasferimenti
(attraverso la famiglia o lo Stato, all'apparenza, ma di fatto si tratta
sempre di trasferimenti dai lavoratori occupati agli inattivi), è la
condizione essenziale dell'autonomia politica.
Una distribuzione del reddito iniqua ha conseguenze economiche e sociali
rovinose. Nella situazione data esistono vincoli distributivi circa il
rapporto tra profitti e salari, che se non sono tenuti in conto possono
esporre il processo di accumulazione a crisi di realizzazione o a crisi di
tesaurizzazione. Effetti ancora più importanti sulla direzione e l'intensità
del processo di accumulazione del capitale hanno però le proporzioni secondo
le quali il sovrappiù si divide tra profitti e rendite, rendite che nella
forma attuale del modo capitalistico di produzione costituiscono un
rinnovato residuo feudale e una sottrazione netta dal prodotto sociale.
Circa le conseguenze di forti diseguaglianze tra le famiglie nei redditi
percepiti e nelle imposte pagate, la più importante è la distorsione dei
modelli di consumo e dunque della domanda finale, della struttura produttiva
e della dipendenza dall'estero. Infine i rischi connessi all'assenza di uno
stato sociale efficace ed efficiente, capace di integrare il reddito
monetario dei lavoratori con quei beni e servizi che il mercato non offre:
sono il prevalere di atteggiamenti radicalmente individualistici, la spinta
a rivendicazioni esclusivamente salariali, la crisi della solidarietà e l'
emarginazione dei deboli. In breve, l'ingiustizia.
Oggi come ai tempi di Keynes, i più pensano che l'accumulazione del capitale
dipenda dalla propensione al risparmio individuale, e che dunque l'
accumulazione di capitale dipende in larga misura dal risparmio dei ricchi,
la cui ricchezza risulta così socialmente legittimata. Proprio la Teoria
generale mostra invece che, sino a quando non vi sia piena occupazione, l'
accumulazione del capitale non dipende affatto da una bassa propensione a
consumare, ma ne è invece ostacolata. Il denaro disponibile presso le
istituzioni finanziarie, d'altra parte, è maggiore di quello necessario,
così che una redistribuzione della ricchezza e del reddito intesa a
aumentare la propensione media al consumo potrebbe favorire l'accumulazione
del capitale sociale. Il luogo comune, secondo cui le imposte di successione
provocherebbero una riduzione della ricchezza capitale del paese, è dunque
infondato. Oltre che garantire il principio (liberale) dell'eguaglianza dei
punti di partenza, alte imposte di successione favorirebbero l'accumulazione
di capitale, anziché frenarla. Il ragionamento di Keynes tende dunque alla
conclusione che
l'aumento della ricchezza, lungi dal dipendere dall'astinenza dei ricchi,
come in generale si suppone, da questa è probabilmente ostacolato: viene
così a cadere una delle principali giustificazioni sociali della
diseguaglianza delle ricchezze.
Conoscendo il genere umano, Keynes aggiunge che alcune pregevoli attività
richiedono il movente del guadagno e la proprietà privata della ricchezza,
affinché possano esplicarsi completamente:
L'esistenza di possibilità di guadagni monetari e di ricchezza privata può
instradare entro canali relativamente innocui pericolose tendenze umane, le
quali, se non potessero venire soddisfatte in tal modo, cercherebbero uno
sbocco in crudeltà, nel perseguimento sfrenato del potere e dell'autorità
personale. È meglio che un uomo eserciti la sua tirannia sul proprio conto
in banca che sui suoi concittadini; ma per stimolare queste attività e per
soddisfare queste tendenze non è necessario che le poste del gioco siano
tante alte quanto adesso. Nella repubblica ideale verrebbe insegnato o
consigliato agli uomini di non interessarsi affatto alle poste del gioco,
tuttavia può essere saggia e prudente condotta di governo consentire che la
partita si giochi, sottoponendola a opportune norme e limitazioni, sino a
quando la media degli uomini, o anche soltanto una parte rilevante della
collettività, sia di fatto dedita tenacemente alla passione del guadagno
monetario.
Il secondo passo del ragionamento di Keynes riguarda il saggio di interesse.
La giustificazione normalmente addotta per un saggio di interesse
moderatamente alto è la necessità di incentivare il risparmio, nell'
infondata speranza di generare così nuovi investimenti e nuova occupazione.
È invece vero, a parità di ogni altra circostanza, che gli investimenti sono
favoriti da saggi di interesse bassi; così che sarà opportuno ridurre il
saggio di interesse in maniera tale da rendere convenienti anche
investimenti a redditività differita e bassa agli occhi del contabile, quali
normalmente sono gli investimenti a alta redditività sociale. Di qui la
cicuta keynesiana, di straordinaria attualità: "l'eutanasia del rentier e di
conseguenza l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista
di sfruttare il valore di scarsità del capitale". Oggi l'interesse non
rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, argomenta Keynes. Il
possessore del capitale può ottenere l'interesse perché il capitale è
scarso. A differenza delle risorse naturali, tuttavia, non vi sono ragioni
intrinseche della scarsità del capitale. In ogni caso sarà possibile, per il
tramite dello Stato, fare sì che il risparmio collettivo sia mantenuto a un
livello che permetta l'accumulazione di capitale sino al punto al quale esso
non è più scarso:
Potremmo dunque mirare in pratica (non essendovi nulla di tutto ciò che sia
irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non fosse
più scarso, cosicché l'investitore senza funzioni non riceva più un premio
gratuito; e a un progetto di imposizione diretta tale da permettere che l'
intelligenza e la determinazione e l'abilità del finanziere, dell'
imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro
mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minore prezzo che
attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con una
ricompensa a condizioni ragionevoli.
Keynes aggiunge qui un corollario oggi blasfemo:
Rimarrebbe da decidere in separata sede su quale scala e con quali mezzi sia
corretto e ragionevole chiamare la generazione vivente a restringere il suo
consumo in modo da stabilire, nel corso del tempo, uno stato di benessere
per le generazioni future.
Tutto sommato, i tempi di Keynes dovevano essere molto più vivaci riformisti
e estremisti dei nostri, se Keynes giudicava la teoria che ho riassunto
sopra "moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica". Essa
infatti comporta la necessità di stabilire alcuni controlli centrali in
materie ora lasciate in gran parte all'iniziativa individuale, ma non tocca
altri campi di attività. Lo Stato dovrà esercitare una influenza direttiva
circa la propensione al consumo, in parte attraverso il fisco, in parte
fissando il saggio di interesse e in parte, forse, in altri modi. Sembra
però improbabile che l'influenza della politica monetaria e creditizia possa
essere sufficiente a determinare un ritmo ottimo di investimento:
Ritengo perciò che una socializzazione di una certa ampiezza dell'
investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci alla
piena occupazione, sebbene ciò non escluda necessariamente ogni sorta di
espedienti e di compromessi con i quali la pubblica autorità collabori con l
'iniziativa privata. Ma oltre a questo non si vede nessuna altra necessità
di un sistema di socialismo di Stato che abbracci la maggior parte della
vita economica della collettività. Non è la proprietà degli strumenti di
produzione che è importante che lo Stato si assuma. Se lo Stato è in grado
di determinare l'ammontare complessivo dei mezzi dedicati a aumentare gli
strumenti di produzione e il saggio base di remunerazione per coloro che li
posseggono, esso avrà compiuto tutto quanto è necessario.
Keynes sapeva bene che il suo manifesto era, se non rivoluzionario,
oltraggiosamente radicale ("Suggerire un'azione sociale per il bene pubblico
alla City di Londra è come discutere L'origine delle specie con un vescovo
sessant'anni fa."). Perciò spiegava che l'allargamento delle funzioni di
governo da lui predicato, mentre sarebbe sembrato a un pubblicista del
secolo XIX o a un finanziere americano contemporaneo una terribile
usurpazione ai danni dell'individualismo, era da lui difeso "sia come l'
unico mezzo attuabile per evitare la distruzione completa delle forme
economiche esistenti, sia come la condizione di un funzionamento
soddisfacente dell'iniziativa individuale". L'assunzione di questa
prospettiva era imposta, per il Keynes del '36, anche da importanti e
lungimiranti considerazioni politiche: "il mondo non tollererà ancora per
molto tempo la disoccupazione, che è associata, inevitabilmente associata,
con l'individualismo capitalista d'oggigiorno".
L'assunzione di questa stessa prospettiva sarebbe inoltre più favorevole
alla pace di quanto non sia un sistema teso alla conquista dei mercati
altrui. Se le nazioni imparassero a costituirsi una situazione di piena
occupazione mediante la loro politica interna, e oggi in Europa ciò sarebbe
possibile, non vi sarebbero più ragioni economiche per contrapporre l'
interesse di un paese a quello dei suoi vicini:
Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è ora, ossia un
espediente disperato per preservare l'occupazione interna forzando le
vendite sui mercati esteri e limitando gli acquisti - metodo che, se avesse
successo, sposterebbe semplicemente il problema della disoccupazione sul
vicino che ha la peggio nella lotta - ma sarebbe uno scambio volontario e
senza impedimenti di merci e servizi, in condizioni di vantaggio reciproco.
Nella chiusa della Teoria generale Keynes si chiede se l'avverarsi di queste
idee sia speranza visionaria o se gli interessi che esse frustreranno non
saranno più forti di quelli che esse promuoveranno. Keynes era un
inguaribile ottimista ("Siamo, nella mia fede assai ottimista e condivisa da
pochi, temo, sia a destra che a sinistra, in uno di quei momenti cruciali
della vicenda umana nei quali si può essere salvati solo dalla soluzione di
un problema intellettuale".). Infatti si risponde che il potere degli
interessi costituiti è assai esagerato in confronto con la progressiva
estensione delle idee. Non però immediatamente ma dopo un certo intervallo,
poiché nel campo della filosofia economica e politica non vi sono molti sui
quali le nuove teorie fanno presa prima che abbiano venticinque o trent'anni
di età. "Presto o tardi, tuttavia, sono le idee, non gli interessi
costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male". Fatto il conto
delle generazioni tra il '36 e oggi, è dunque tempo che gli uomini della
pratica, i quali si credono liberi da qualsiasi influenza intellettuale,
scoprano come vivo questo economista defunto. Vi troveranno almeno una
risposta analoga a quella che il gatto dà a Alice nel paese delle
meraviglie. Alice aveva chiesto al gatto: "Potrebbe dirmi, per favore, che
strada dovrei prendere?". La risposta del gatto, che aveva lunghi unghioli e
tanti denti, fu: "Dipende molto da dove vuoi andare".