capitalismo nazionale e competitivita'



dal corriere.it 25 - 2 - 2003 
  
 
  
 
 
Il capitalismo nazionale e la crisi di competitività

 
IL RILANCIO CHE NON C’E’ (ANCORA)

di FABRIZIO ONIDA


«Il serbatoio di imprenditorialità dell’Italia è il nostro antidoto alla
crisi (...). L’Italia non è in declino imprenditoriale ma soffre di una
grave crisi di competitività (...). Gli imprenditori non devono avere paura
di diventare grandi, evitando di sacrificare la crescita dell’impresa
all’esigenza di mantenerne il controllo a tutti i costi». Questi passaggi
salienti dell’intervista rilasciata da Antonio D’Amato al Sole-24 Ore del
20 febbraio, sotto il titolo «È finito il capitalismo protetto», sono
pienamente condivisibili, anche se stimolano almeno un paio di
osservazioni. Molti Paesi invidiano il nostro «serbatoio di
imprenditorialità», dalle microaziende artigianali alla fitta rete di
piccole e medio-grandi imprese che trova proprio nel retroterra di origine
artigianale una possibilità di approvvigionamento esterno di componenti a
costo contenuto e qualità elevata. 
In tal modo l’Italia ha conquistato e mantiene ancora oggi un primato di
vantaggi competitivi. Ciò si verifica non solo in nicchie di eccellenza di
settori «maturi» (moda, casa-arredo, gioielleria) dove creatività, stile e
design fanno premio su standardizzazione e prezzo, ma anche in numerosi
comparti di meccanica specializzata. In questi settori l’offerta italiana
possiede una straordinaria capacità di fornire alle aziende trasformatrici
a valle della catena produttiva soluzioni innovative, flessibili, rapide,
adattate alle diverse e mutevoli esigenze dell’utente. 
Tutto bene? Sì. Peccato solo, però, che queste straordinarie energie
imprenditoriali riescano difficilmente a dispiegarsi in settori meno
maturi, a crescita tendenzialmente più rapida della domanda mondiale e con
forti economie di scala e organizzazioni aziendali complesse. Parliamo di
campi come l’informatica, le telecomunicazioni, la chimica fine e quella
farmaceutica, i mezzi di trasporto. Settori dove molte volte in passato
pezzi significativi della nostra industria pronti a passare di mano - in
seguito a cessioni da parte delle Partecipazioni Statali, ma anche per il
fallimento della gestione privata precedente - non hanno affatto trovato
capitalisti e capitani coraggiosi italiani in grado di raccogliere il
testimone, mentre hanno richiamato investitori di altri Paesi. Il tutto con
esiti non sempre favorevoli al mantenimento e allo sviluppo in Italia delle
attività più nobili e alle strategie di penetrazione dei mercati altrui:
tanto per non fare nomi, si pensi allo smembramento di Montedison, Enichem,
Breda, Olivetti, nonché alle cessioni di Italtel, Telettra, Nuovo Pignone,
Snia, Fibre, Farmitalia, Elsag, Marconi. 
Quanto all’azienda familiare che ha paura di crescere per non mettere a
rischio il controllo da parte degli azionisti, i tempi sono sempre più
stretti. La necessità di ricambio è ormai pressante su molte aziende di
seconda, terza generazione e oltre. Da noi fa ancora fatica ad affermarsi
la saggezza pragmatica americana, secondo la quale ai figli e nipoti
dell’imprenditore va assicurato un patrimonio finanziario da gestire come
meglio credono, ma in nessun modo il diritto alla successione manageriale
(vi fareste operare da qualcuno solo perché è figlio di un famoso
chirurgo?). C’è anche da dire che in diversi casi importanti aziende
italiane (pubbliche e private) sono andate in crisi irreversibile a causa
di un’ambiziosa e imprudente politica di crescita e diversificazione,
ignorando un altro importante insegnamento della storia industriale per cui
«le aziende che in media hanno più successo sono quelle che fanno bene un
solo mestiere al mondo» (da un’intervista di Paolo Scaroni, neopresidente
Enel sul Corriere della Sera del 20 dicembre scorso). 
Ma certamente il «nanismo» di nicchia, pur capace di assicurare una buona
redditività all’imprenditore familiare nel breve periodo, tende a
sacrificare la continua ricerca di crescita nel medio periodo, obiettivo
che è invece prioritario dove la gestione manageriale dell’impresa è
sottoposta allo scrutinio severo di un azionariato slegato dagli interessi
di una sola famiglia. 
Le statistiche ci dicono che la crescita dimensionale dell’azienda comporta
aumento di produttività della forza lavoro e insieme di occupazione
qualificata. Entrambi sono ingredienti di una competitività che non mira
solo al risparmio di costi e alla difesa dai nuovi concorrenti a basso
salario. I distretti industriali di maggior successo sono caratterizzati
dalla presenza di una o (meglio) più imprese leader, con forte proiezione
multinazionale, rapporti di fornitura molto al di là dell’originario
distretto territoriale (inclusa la delocalizzazione in Paesi vicini di
alcune fasi di lavorazione a basso costo), politiche di marchio e
comunicazione, crescenti investimenti in reti distributive e di assistenza
diretta alla clientela sui principali mercati. Spesso «il potere è ai
distributori» e di ciò hanno cominciato a far tesoro le principali aziende
nei più diversi settori del made in Italy , investendo assai più che in
passato proprio nelle fasi a valle del processo manifatturiero. 
Giustamente D’Amato ricorda che «fuori dal salotto il mondo sta cambiando
rapidamente». Il rilancio del capitalismo italiano, dopo l’affievolirsi
dell’ultimo decennio, ha ancora molta strada da percorrere. 
 
Fabrizio Onida