lo situazione del boicottaggio nestle



dall'unita di domenica 23 - 2 - 2003

Dolce Nestlé ti mangio o ti boicotto?
di Maura Gualco

Latte in polvere, prodotti transgenici, politiche antisindacali, merce
scaduta. Gli argomenti utilizzati in circa trent'anni di boicottaggio non
sono pochi. Unicef, Oms (Organizzazione mondiale della Sanità) il Sinodo
dei vescovi anglicani, Mani Tese, i sindacati di mezzo mondo, L'Animal
Liberation Front, il Baby Milk Action e la Rete italiana di boicottaggio
hanno una cosa in comune. Almeno una volta hanno messo sotto accusa,
invitato, criticato, giudicato direttamente o indirettamente l'operato
della multinazionale svizzera Nestlè.

Ma cosa c'è di vero nelle requisitorie compiute da mezzo mondo contro
l'azienda nata nel 1866, anno in cui il chimico tedesco Henri Nestlè
inventò la farina lattea?

<b>IL LATTE IN POLVERE</b>
Argomento principe del boicottaggio contro il colosso alimentare è
soprattutto la politica di marketing utilizzata per vendere latte in
polvere. «L'Oms e l'Unicef stimano che la morte di circa un milione e mezzo
di bambini - si legge su uno studio dell'Unicef - sui circa undici milioni
che muoiono ogni anno, avvenga nei paesi a basso reddito per mancanza di
allattamento al seno». Quattromila al giorno. Tre le cause di tali decessi
la prima ragione è da ricercarsi nel costo del latte artificiale, che per
una famiglia nigeriana, ad esempio, corrisponde al 50% circa del salario
medio. Ragion per cui il latte viene diluito con troppa acqua, ciò che
rende i bambini denutriti. 

La seconda ragione per cui l'allattamento al biberon è fortemente
sconsigliato da Oms e Unicef è la mancanza di igiene. L'acqua con cui il
latte è preparato è spesso malsana ed è molto difficile sterilizzare
biberon e tettarelle. Ma questo è solo uno dei motivi. Nelle società povere
- sostiene l'Unicef - i bambini allattati artificialmente sono esposti alla
morte 25 volte in più di quelli allattati al seno. A questi ultimi,
infatti, vengono trasmessi anticorpi, ormoni, sostanze organiche che
proteggono da infezioni più comuni, polmonite inclusa. Difese che i bambini
acquisiscono nonostante vengano allattati da madri talvolta denutrite. I
bambini del Terzo Mondo - che spesso non hanno possibilità di curare una
polmonite o una semplice diarrea - hanno più probabilità di morire se
allattati con il latte artificiale.

Colpa della Nestlè che è presente in 84 paesi con circa 500 fabbriche? E
che si arricchisce anche con la vendita di latte in polvere? Beh, nessuno
viene obbligato ad acquistarlo, si potrebbe pensare. Infatti, ciò per cui
viene accusata la multinazionale elvetica non è di vendere latte in
polvere, attività più che legittima. Ma di promuoverlo commercialmente
violando le norme del Codice internazionale siglato nel 1981 dall'Oms,
dall'Unicef. E di farlo, promuovendo l'uso del latte in polvere attraverso
la pubblicità, facendo sconti sugli acquisti e distribuendo campioni
gratuiti sia al personale sanitario che alle madri. 

Già nel '78 al Congresso degli Stati Uniti, il senatore Edward Kennedy
sollevò il problema. Vennero ascoltati professionisti del Sud del Mondo,
dottori, infermiere che descrissero l'impatto negativo della
pubblicizzazione del latte artificiale. I rappresentanti delle compagnie
negarono di avere responsabilità. Solo negli anni ''80 Oms e Unicef
formulano un protocollo d'intesa per la normativa sulla materia che venne
approvato a stragrande maggioranza dall'Assemblea mondiale sanitaria. Gli
Usa furono l'unica nazione a votare contro. Venne accettato anche dalla
gran parte delle multinazionali alimentari, Nestlè compresa. 

Eppure il boicottaggio della multinazionale si estende a macchia d'olio in
tutto il pianeta. Motivo? La Nestlè viola il codice, rispondono Unicef e
sostenitori della protesta che si raggruppano nell'Inbc (International
Boycott Commitee). Non è vero, risponde la Nestlè. Ma nel 1997, un cartello
di 27 organizzazioni tra cui Unicef e Save the Children riconosco la
validità di un rapporto -"Cracking the Code"- col quale vengono dimostrate
le ripetute violazioni del Codice da parte di 32 multinazionali tra cui
anche la Nestlè. E due anni più tardi la conferma da parte dell'Asa
(Advertising Standard Authority), ente pubblico preposto alla sorveglianza
della pubblicità nel Regno Unito: per vendere il latte artificiale, la
Nestlè non rispetta le regole.

«Trincerarsi dietro il paravento del libero mercato è ridicolo oltre che
assurdo: con la stessa giustifiazione si è trasformato il Terzo mondo è una
pattumiera. La Nestlè spaccia per aiuti la sua scorretta politica di
marketing», va giù duro Dijbrill Diallo, ex consigliere speciale
dell'Unicef. Sicché il boicottaggio si diffonde anche in Italia dove il
colosso alimentare riceve l'ennesima mazzata. 

L'Antitrust la condanna insieme ad altre imprese per aver formato un
cartello mirante al controllo dei prezzi. Un brutto colpo che i vertici
della multinazionale svizzera non accettano di buon grado. Tanto che poco
dopo si appellano al Tar del Lazio. Il quale, nel giugno del 2001,
risponde: è respinto il ricorso contro la sentenza dell'Antitrust. E su
tutte le imprese condannate grave una sanzione: sei miliardi da pagare.

La rete internazionale del boicottaggio oggi non è ancora andata in
pensione. «Anzi - risponde il pediatra Adriano Cattaneo, portavoce della
branca italiana - continueremo a diffondere il boicottaggio perché
riceviamo conferme che la Nestlè non ha ancora modificato i suoi
comportamenti commerciali. Il 18 gennaio scorso, ad esempio, il British
Medical Journal, una delle più prestigiose riviste mediche, ha pubblicato i
risultati di una ricerca nella quale si confermano le continue violazioni
del Codice da parte della Nestlè in Togo e Burkina Faso. Non c'è da
stupirsi se il numero dei nostri aderenti continua ad aumentare». 

Ma per Alessandro Magnoni, uno dei portavoce della Nestlè Italia è falso.
«La Nestlè rispetta le regole del Codice e ultimamente abbiamo anche
installato in molte parti del mondo degli "Ombusdam", cioè uffici preposti
alla segnalazione di eventuali violazioni del Codice».

<b>OGM</b> 
Nel mirino di Greenpeace, gli organismi geneticamente modificati sono stati
per anni oggetto di boicottaggi feroci. La politica sugli ogm, diceva un
comunicato inviato da Nestlè a Greenpeace, era quella di escluderli dalla
gamma dei loro prodotti. E un decreto del 1999 vietava la presenza di Ogm
negli alimenti per neonati. 

Ma quando sono usciti alcuni lotti del prodotto Alsoy 1 e 2 - latte
artificiale - Greenpeace si è resa conto che tra gli ingredienti resi
pubblici dall'etichetta comparivano gli Ogm. Così nel 2001 si sono
incatenati ai cancelli di un magazzino dell'azienda svizzera per protestare
contro la commercializzazione di prodotti ogm destinati ai lattanti. 

«Arrivò il portavoce della Nestlè, Alessandroni Magnoni - racconta Luca
Colombo, responsabile della campagna Ogm di Greenpeace - che ci consegnò
una lettera con cui l'azienda si impegnava a ritirare quei lotti
geneticamente modificati». Un aiuto alla Nestlè arrivò, poi, nel settembre
del 2001 con un decreto che consentì, ma soltanto nel latte, una soglia di
tolleranza degli Ogm pari all'1% derivante da contaminazione accidentale.
Un margine di libertà, dunque, per le aziende di latte artficiale, messo
tuttavia in pericolo da una sentenza del Tar Lazio che stabilì: la soglia
dell'1% di Ogm deve essere indicata nell'etichetta. 

«Noi ci attieniamo alla legge - dice Alessandro Magnoni - ed essendo una
decisione amministrativa quella Tar non abbiamo ritirato i nostri prodotti.
Aspettiamo di conoscere la decisione del Consiglio di Stato al quale ha
fatto ricorso il Ministero della Salute impugnando la decisione del Tar».
Ma la Nestlè, oggi, fa uso di ogm nei suoi prodotti? «Certamente, anche se
usano un doppio standard - dice Colombo - li levano in Occidente e li
rimettono nel Sud-est asiatico». Magnoni lo nega. Almeno per quanto
riguarda l'Italia. «In Italia e in Europa non utilizziamo ingredienti,
materie prime o additivi geneticamente modificati. Se all'estero la
legislazione lo consente, perché no?».

<b>LE ULTIME NOTIZIE DAL MONDO </b>
Arrivano nel novembre del 2002 quando il senatore colombiano Jorge Enrique
Robledo Castillo, denuncia nella sessione plenaria del Senato, presentando
un ampio rapporto del Das (Dipartimento amministrativo di sicurezza), il
sequestro alla Nestlè di 8094 confezioni da 25 chili ognuno di latte in
polvere della marca "Conaprole" di produzione uruguayana, le quali secondo
il Das, risultavano scadute da parecchio tempo. Il sequestro fu eseguito
perché si stava riconfezionando e rietichettando il carico con adesivi che
riportavano la scritta "Nestlè...fabrica de Bugalagrande". Il proprietario
dell'azienda dove si stava realizzando il comportamento illecito, Rodrigo
Hosco Rodas, affermò di essere stato incaricato del trasporto dei prodotti
della Nestlè de Colombia e del loro immagazzinamento e che la società lo
riforniva delle scatole e delle etichette affinché fossero riconfezionati e
distribuiti alle fabbriche della Nestlè di Valledupar e Buga. «La mercanzia
- si legge nel rapporto del Das - risultava immagazzinata da circa sei
mesi». E che il carico appartenesse alla Nestlè fu riconosciuto dallo
stesso incaricato del settore logistico e rappresentante della Nestlè di
Buga. 

Chiamati a rispondere sua alcune vicende internazionali, tra cui anche
quella colombiana, da Ginevra un portavoce della Nestlè fa sapere che non
intendono tornare a parlare di fatti già avvenuti. Come quello dell'Etiopia
a cui l'azienda alimentare ha fatto causa chiedendo un indennizzo pari a 6
milioni di dollari per l'esproprio di una fabbrica avvenuto nel 1975.
Accusata di chiedere un risarcimento "indecente" a un paese che muore di
fame, il sito web della comagnia viene inondato di messaggi di protesta.
Dopo alcuni giorni il colosso alimentare fa sapere di aver chiuso chiuso un
accordo accettando un mini risarcimento da parte dell'Etiopia e di
destinare la quasi totalità della somma alla lotta contro la carestia. Ogni
tanto un po' di "refacing" (come vengono chiamate nelle mega corporations
le operazioni d'immagine) bisogna pur farlo.
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