la terra vista da occidente



     
    
 
il manifesto - 14 Febbraio 2003 
 
La terra piatta vista da Occidente 
Un saggio dell'economista francese Serge Latouche sulla crisi di un modello
culturale e economico che voleva disegnare il mondo a sua immagine e
somiglianza 
Uniformità culturale, cancellazione delle economie locali e distruzione
delle risorse naturali. Questi i tratti distintivi de «La fine del sogno
occidentale»
MAURO TROTTA
L'aspetto più evidente della globalizzazione è senza dubbio quello relativo
alla sfera economica: prevalenza di colossi imprenditoriali transnazionali,
finanziarizzazione dell'economia, mercificazione senza limiti, fattori che
investono ambiti fino ad oggi considerati estranei al mercato. E poi,
ancora, flessibilizzazione del lavoro, libera circolazione di capitali e
merci, sfruttamento intensivo delle risorse naturali. La globalizzazione,
però, non attiene semplicemente all'area economica, ma risulta strettamente
connessa sia allo sviluppo tecnoscientifico, sia alla sfera culturale. Da
un lato, infatti, è stato proprio l'irrompere sulla scena delle nuove
tecnologie informatiche a rendere possibile, ad esempio, la creazione di un
mercato finanziario globalizzato. Dall'altro, l'economia globalizzata
richiede non soltanto stilemi culturali condivisi da un capo all'altro del
pianeta - si pensi, ad esempio, alla necessità di conoscere anche
superficialmente la lingua inglese per poter utilizzare un pc - ma
necessita anche che vengano uniformati stili di vita, desideri, bisogni,
mentalità. Ed è proprio l'uniformazione economica, tecnologica e culturale
il carattere fondamentale dei processi di mondializzazione.
Un'uniformazione declinata sotto il segno dell'universalismo occidentale -
incarnato oggi principalmente dall'american way of life - e che mira ad
edificare una società completamente razionale, senza «buchi neri» o altri
spazi sottratti alla ragione. All'ombra della standardizzazione, infatti,
tutto diventa misurabile e valutabile e si suppone possa essere controllato
e governato.

Sono queste le premesse da cui parte La fine del sogno occidentale. Saggio
sull'americanizzazione del mondo (Elèuthera, pp. 178, ? 13), di Serge
Latouche, l'economista francese già conosciuto dal pubblico italiano per i
suoi precedenti studi, come I naufraghi dello sviluppo e La megamacchina,
pubblicati entrambi da Bollati Boringhieri. Il presente volume è un saggio
breve, ma denso, che indaga nuovamente quel sogno di dominio occidentale,
quell'utopia modernista trasformatasi ormai in incubo per larga parte del
pianeta. Un progetto antico che, secondo l'economista francese, affonda le
proprie radici nell'alba della modernità e che ha sempre trovato impulso
sfruttando concetti come «progresso» o «sviluppo», portando inesorabilmente
alla distruzione di popoli, culture, forme di vita, di tutto quanto,
insomma, potesse opporsi.

Oggi, al di là dei venti di guerra che risuonano sempre più violenti, le
strategie appaiono sensibilmente diverse, più soft da quelle attuate ai
tempi dell'imperialismo classico. E agli eserciti coloniali si è soliti
preferire la strategia del dono. Una strategia insidiosa da cui è quasi
impossibile difendersi. Come si fa a rifiutare il cibo, la medicina che
salva la vita o l'oggetto che dà prestigio? Così, donando, l'Occidente
destruttura culturalmente le società con cui entra in contatto. Chi dona,
infatti, acquisisce non soltanto prestigio, ma un credito inestinguibile.
Del resto ogni dono può celare un fondo di maleficio. Forse non è casuale
che la stessa parola, gift, che in inglese indica il dono, in tedesco
significa veleno. E il dono avvelenato, secondo Latouche, è la vera arma
usata dall'Occidente per distruggere le altre culture: «il neocolonialismo,
con l'assistenza tecnica e il dono umanitario, ha fatto senza dubbio molto
di più per la deculturazione che non la brutale colonizzazione». Ancora:
«la favolosa società di Bali? È stata più destrutturata da trent'anni di
turismo internazionale che da duecento anni di colonizzazione olandese».

Per Lathouce, dunque, l'americanizzazione del mondo crea soltanto macerie e
distruzione, perseguendo, al tempo stesso, la «deculturazione» delle altre
società, lo sradicamento della loro identità culturale e l'annullamento
delle radici che donavano senso all'esistenza.

Ma qual è il fine ultimo di questo immane processo? Per poter rispondere
occorre interrogarsi sulla natura profonda dell'Occidente, riuscire a
definire l'artefice dei processi di uniformazione in atto. Insomma bisogna
chiedersi cosa sia oggi l'Occidente. La risposta di Latouche a questo
quesito è complessa ed articolata ed affronta aspetti storici, economici,
sociali e culturali. In sintesi si può affermare che per secoli l'Occidente
è esistito in sé e per sé. Aveva una missione civilizzatrice e si
caratterizzava come cristianità e, al tempo stesso, come Europa dei Lumi.
Rapine e saccheggi connessi erano, al limite, viste come eccessi, ma non
veniva mai messa in questione l'espansione in quanto tale, identificata con
la marcia trionfale della Storia. Poi si è insinuato il dubbio e questa
fede è stata incrinata. E con il crollo degli imperi coloniali la
situazione è completamente mutata. La decolonizzazione, con la fine della
supremazia dei bianchi, non ha portato alla morte della civiltà
occidentale: ha mandato in frantumi l'Occidente per sé, conservando integro
l'Occidente in sé. In questo modo la civiltà occidentale ha cominciato a
non esistere di fronte a se stessa, ma soltanto di fronte agli altri.
Infatti l'Occidente non è più l'Europa, né dal punto di vista geografico né
da quello storico. E non è neanche un insieme di credenze condivise. Appare
piuttosto come «un'enorme macchina impersonale, senza anima e ormai senza
padrone, che ha messo l'umanità al suo servizio». Una megamacchina
tecnoeconomica volta soltanto al proprio sviluppo, alla sua
autoaffermazione che, senza alcuna possibilità di controllo umano, prosegue
la sua folle opera di sradicamento a livello planetario, strappando le
persone dai loro luoghi d'origine e scagliandole all'interno di zone
uniformemente urbanizzate, senza però integrarle all'interno dei processi
di industrializzazione, burocratizzazione e tecnicizzazione che essa
persegue. La macchina così genera differenziazione e distrugge il tessuto
sociale. Al di là degli effetti concreti e visibili del suo agire che
mettono in discussione la stessa sopravvivenza dell'uomo e del pianeta, è
proprio questa frantumazione della società che annuncia il fallimento del
sogno occidentale: frena seriamente, infatti, ogni possibilità reale di
universalizzare qualsiasi modello. Non solo, la disgregazione ha investito
anche lo Stato-nazione, cioè quella forma di patto sociale in cui si è
sviluppata la modernità.

Se il rullo compressore dell'americanizzazione sembra livellare e
schiacciare tutto, in realtà esistono ancora resistenze e opposizioni: i
dislivelli spesso si sono solo infossati e possono riemergere sotto nuove
forme. Gli esclusi dai benefici della modernizzazione, per sopravvivere,
sono costretti a inventarsi nuove soluzioni. Questi progetti alternativi
possono anche assumere caratteri mostruosi oppure essere fagocitati e
riciclati dall'Occidente, ma ce ne possono essere alcuni in grado di
contribuire a bloccare la macchina e rappresentare l'inizio di un mondo
dove al sogno universalista si sostuisca un pluriuniversalismo relativo,
una vera «democrazia delle culture», all'interno della quale tutte abbiano
la propria legittimità e il proprio posto. A questo proposito, Latouche
cita esplicitamente le «reti neoclaniche», basate su forme forti di
solidarietà tra poveri e lo sviluppo di un'economia informale fondata
sull'autoproduzione e l'autoconsumo. Sviluppatesi soprattutto in Africa, ma
presenti anche in Oceania e in America Latina, queste strutture
socio-economiche recuperano in modo originale aspetti della tradizione -
come la socialità della famiglia allargata, del clan o l'abilità
artigianale - declinandoli in modi nuovi e originali, creando reti di mutua
assistenza, ad esempio, o sviluppando tecniche efficaci di riutilizzo degli
scarti della modernità.

Naturalmente, afferma l'economista francese, la lotta di resistenza nei
confronti della megamacchina senza volto, i cui rappresentanti si chiamano
Fmi, Banca mondiale, Wto, Forum di Davos, non può investire soltanto gli
emarginati e gli sconfitti, ma è un compito che spetta a tutti, in
particolare alle nuove generazioni. Occorre creare contropoteri diffusi,
stabilire regole nuove, trovare anche compromessi. In questo, un ruolo di
primo piano spetta all'Europa, che potrà trasformarsi in «un'Europa sociale
e basata su una vera cittadinanza» soltanto grazie all'azione di «forze
vive e potenti movimenti».

Testo complesso, ma ricco di spunti ed estremamente interessante, La fine
del sogno occidentale privilegia forse in maniera eccessiva l'approccio
culturale ad altre possibili prospettive di indagine. Tutto viene
ricondotto a problematiche culturali: i processi di uniformazione, le
resistenze, le strategie di dominio. È vero che Latouche in pratica
definisce la cultura come «la risposta dei gruppi umani al problema
dell'esistenza», ne dà quindi un'accezione in qualche modo materialista e
molto estesa, per cui quasi tutto, e in particolare l'economia,
rientrerebbe al suo interno. Questo, però, non evita che in alcuni passaggi
il discorso rimanga troppo astratto, rifugiandosi in uno stile apodittico
ed asseverativo. Inoltre, ma questo non è certo imputabile a questo libro,
sarebbe interessante comprendere come lo studioso francese valuti l'attuale
situazione internazionale, dove la minaccia della guerra contro l'Iraq è
motivata anche dalla difesa della civiltà occidentale.

C'è da dire, infine, che il titolo originale, La planète uniforme, sembra
aderire meglio a un libro in gran parte incentrato sulla disamina dei
processi di uniformazione planetaria di quello, senza dubbio di maggior
impatto, scelto per la versione italiana.