ripensare lo sviluppo



     
 da lanuovaecologia.it

Giovedì 13 Febbraio 2003  
 
DOSSIER|Presentato il rapporto annuale di Legambiente 
 
Ripensare lo sviluppo 
 

Johannesburg: Nairobi Cambiamenti climatici e povertà. I risultati di un
decennio di mal governo della globalizzazione nel rapporto Ambiente Italia
2003

E nel Belpaese,
più ombre che luci
 
 
 
90.000 km2 di foreste tagliate ogni anno. Emissioni di Co2 in crescita
costante, con un aumento, in dieci anni, del 21% negli Usa e del 34% nei
Paesi asiatici. I poveri dell'Europa occidentale sono cresciuti, nel corso
degli anni '90, da 44 a 91 milioni, e si contano 30 milioni di casi di
malnutrizione. Diminuisce l'attesa di vita in tutta l'Africa  

sub-sahariana. I paesi cosiddetti liberisti dell'Occidente sviluppato
(gruppo Ocse) hanno speso nel 2001 285 miliardi di dollari per sostenere i
propri prodotti agricoli (6 volte tanto gli aiuti allo sviluppo, quasi il
40% del valore totale della produzione agricola mondiale) distorcendo il
mercato e producendo un danno ai Paesi in via di sviluppo che la Banca
Mondiale quantifica in 20miliardi di dollari annui.

Bastano questi pochi indicatori - fra i cento che compongono Ambiente
Italia 2003, il rapporto annuale di Legambiente, presentato oggi a Roma - a
tratteggiare gli esiti di un decennio di globalizzazione senza regole, di
strapotere del profitto e di sottovalutazione delle 'controindicazioni'
sociali e ambientali di uno sviluppo abbandonato a se stesso. E da soli
basterebbero a far impallidire le tesi di chi pretende di minimizzare i
problemi ambientali o di far passare le crescenti disuguaglianze sociali
per il rumore di fondo della grande macchina del progresso.

«C'è chi ritiene - spiega Ermete Realacci, presidente di Legambiente,
intervenuto alla presentazione del volume realizzato con l'Istituto di
ricerche Ambiente Italia e pubblicato da Edizioni ambiente - che l'attuale
sistema economico sia sostenibile così com'è, che attribuisce
all'innovazione tecnologica da sola il potere di ridurre gli effetti
ambientali dello sviluppo, e che crede che questo sviluppo inevitabilmente
produrrà benessere diffuso e benefici per la salute e l'ambiente. Queste
stesse persone - e basterebbe citare il noto opinionista Lomborg, divenuto
paradigma dell'eco-scettico - tendono a sminuire la portata dei danni che
negli ultimi decenni la crescita  
 
industriale ha prodotto sul pianeta. Il loro modo di pensare è
l'espressione di un nuovo conservatorismo compassionevole, che arriva
addirittura ad additare le 'infondate lagnanze' degli ambientalisti come
causa dello spreco di risorse indirizzate a problemi che non esistono
invece che a dare soluzioni concrete a problemi reali. Queste tesi si
scontrano coi dati di fatto, che invece mostrano la necessità di forti
politiche che indirizzino i processi industriali ed economici».

Gli ultimi dieci anni mostrano chiaramente come potrebbe andare: laddove,
come in Europa, è stata attuata una politica diretta alla riduzione dei gas
serra, ad esempio, si sono effettivamente ridotte le emissioni del 3%;
negli Stati Uniti invece, che hanno avversato queste politiche, le
emissioni sono aumentate del 21%. Mentre nei paesi dell’Unione Europea si
registra una contrazione significativa degli NOx (–30% tra il 1990 e il
2000), negli Stati Uniti nell’ultimo decennio si registra una crescita del
6% e, nel periodo 1990-1995 (l’unico per cui sono disponibili stime,
effettuate dallo IIASA), si registra una crescita del 14% in Giappone e del
33% in Cina.

Lo stesso dicasi per rifiuti ed energia. Al crescere del reddito aumentano
i rifiuti e i consumi energetici: +14% su scala mondiale nell’ultimo
decennio, +18% nel Nord America e +43% nei paesi asiatici. «E non sono solo
i fanatici ambientalisti a sostenerlo. Il più recente studio
sull'argomento, quello della Banca Mondiale, conclude che la regolazione -
e dunque una rigorosa legislazione ambientale, politiche tariffarie e
agevolazioni per le tecnologie più innovative e meno inquinati - è il
fattore dominante  
 
nella riduzione dell’inquinamento. Tra i paesi sviluppati, Stati Uniti e
paesi scandinavi rappresentano in modo esemplare come alti tassi di
sviluppo ed elevati livelli di reddito possano essere associati a politiche
ambientali (e sociali) radicalmente diverse».

In Europa, il miglioramento locale della qualità ambientale è stato
associato a politiche di efficienza energetica, di efficienza nell’uso
delle risorse e di riciclo dei materiali che hanno determinato un
contenimento o una riduzione assoluta delle emissioni e dei prelievi di
risorse di interesse globale. Negli Stati Uniti, invece, il miglioramento
locale della qualità ambientale non si è associato a un miglioramento
equivalente dell’efficienza del consumo e della produzione. Quella
americana è diventata un’economia obesa. 

Lo stesso andamento dei fenomeni di mondializzazione dei mercati ha
prodotto risultati fortemente contraddittori. Una parte dei paesi in via di
sviluppo, 24 nazioni in cui vivono circa 3 miliardi di persone (Cina in
testa), è oggi più integrata, ha acquisito più alti tassi di crescita
economica, ridotto la povertà e la denutrizione sia in valori assoluti che
in percentuale: in un decennio i poveri sotto i 2 dollari di reddito
giornaliero in Cina passano da 800 a 610 milioni, cioè dal 70 al 49% della
popolazione. In questi stessi paesi si è anche favorito l’accesso alla
salute e all’istruzione e in (qualche caso) alle libertà civili, anche se
spesso con crescenti diseguaglianze interne.

Ma al tempo stesso 2 miliardi di persone – soprattutto in Africa, Medio
Oriente e nell’ex Unione Sovietica – sono finite quasi ai margini del
sistema economico mondiale.  
 
Hanno visto crescere o apparire la povertà: in Europa centro-orientale i
poveri sono passati da 44 a 91 milioni, cioè dal 10 al 20% della
popolazione e per la prima volta si contano 30 milioni di persone in
condizione di denutrizione. Nell’Africa subsahariana tutti gli indicatori
mostrano un peggioramento in valore assoluto: negli anni ’90 è diminuito
dello 0,3% annuo il reddito procapite, i bambini non scolarizzati sono
aumentati (e in 15 paesi si è ridotto anche il tasso di scolarizzazione
primario), l’attesa di vita è diminuita (in alcuni paesi di decine di anni,
in primo luogo per effetto dell’Aids). Spesso perfino la mortalità
infantile è tornata a crescere (in Kenya tra il 1990 e il 1998 è passata da
61 a 74 per 1000, in Zimbabwe da 52 a 73), le persone in stato di
denutrizione sono cresciute di oltre 40 milioni e i poveri sono aumentati
di 100 milioni (sempre pari al 75% della popolazione).

Ma persino in alcune delle aree che bene o male hanno compiuto dei
progressi, la parte povera della popolazione spesso non ha condiviso questi
miglioramenti: in India i ragazzi tra 15 e 19 anni del 20% di famiglie più
ricche hanno in media frequentato 10 anni di scuola, mentre il 40% dei
giovani più poveri non ha alcuna scolarizzazione. Negli stessi paesi
sviluppati c’è stato un arretramento dell’uguaglianza sociale, con la sola
eccezione della Danimarca. Guardando all’Italia si può osservare che tra il
1991 e il 2000 è aumentata la concentrazione del reddito e della ricchezza
nelle mani del 10% più ricco degli italiani (la cui quota di reddito è
passata dal 23,8 al 26,6% e la quota di ricchezza dal 41,6% al 47%).