la guerra e' un pessimo affare



     
    
 
il manifesto - 31 Gennaio 2003 
 
 
La guerra è un pessimo affare 
I trent'anni di azioni belliche annunciate da Bush sono una diseconomia,
uno spreco di risorse a vantaggio di lobbies in crisi, la resistenza degli
stati-nazione alla globalizzazione
SERGIO CUSANI
Sul proscenio, il mondo impaurito dalle minacce di attacchi proditori da
parte dei diversi nemici ampiamente evocati, annunciati, propagandati, è
pronto ad attaccare, a scendere in guerra preventiva per difendersi dal
terrorismo internazionale inafferrabile e pervasivo, e dall'attacco
batteriologico e chimico con mezzi tanto rudimentali quanto efficaci, anche
mediaticamente. E per paura incomincia preventivamente a spendere cifre
enormi: massiccia mobilitazione di uomini e mezzi, esercitazioni militari,
acquisto di ingenti quantitativi di armi e servizi connessi senza
preoccuparsi dei costi sociali della paura. Altre immense risorse è
disponibile, sempre per paura, a dissipare nei prossimi decenni; il solo
scudo stellare sottrarrà enormi risorse alla prossima generazione. Ma
dietro le quinte la storia è un'altra. Dietro il proscenio dello
sbandieramento minaccioso, ossessivo e giornaliero delle armi che alimenta
ansie e paure, è già iniziata la vera guerra duratura che oppone un modello
desueto di fare economia a un altro che tende a soppiantarlo in ogni angolo
del pianeta: il passaggio dall'economia dello stato nazione all'economia
globalizzata. La distanza tra questi modelli è simile a quella che c'è
stata tra l'economia del baratto e quella monetaria, tra l'economia
schiavistica e quella capitalistica. Questa concreta e realissima duratura
guerra è in atto nel mondo intero e avrà esiti sconvolgenti per l'intera
economia mondiale.

Il governo Bush ha deciso di proporre al Congresso lo stanziamento di 675
miliardi di dollari di sgravi fiscali in dieci anni ai detentori di redditi
alti, abbattendo le tasse sui dividendi azionari, e di sostegno alle
imprese. Questa detassazione a favore dei ceti più abbienti e il sostegno
alle imprese accelereranno la finanziarizzazione del sistema, favoriranno i
prodotti americani, ridurranno ai minimi termini lo sviluppo delle
infrastrutture e il welfare, mentre si allargherà il divario tra ricchi e
poveri, ai quali verranno elargite solo e sempre briciole: poveri che non
contano, non pesano, non hanno lobby, e che disertano il voto. Allo stesso
tempo si riducono a un guscio vuoto i nuovi organismi di controllo della
trasparenza del mercato varati, dopo i grandi scandali - dalla Enron alla
Worldcom - che hanno sconvolto l'opinione pubblica americana e mondiale,
con il malcelato obiettivo di tranquillizzare il risparmio soltanto su di
un piano meramente comunicazionale, come correttamente rilevato dal Prof.
Ugo Mattei a proposito dell'importante quanto inoperante Public Company
Accounting Oversight Board.

I venti di guerra esorcizzano la paura e sotterrano gli scandali. In più,
la svalutazione del dollaro in atto, pilotata dalla Federal Reserve, è una
misura di guerra commerciale che favorisce l'esportazione di prodotti
americani, armi comprese, ma che ha l'obiettivo strategico di scardinare le
principali monete ed economie potenzialmente competitive, in particolare
l'Euro e l'Unione Europea. Questa miscela di misure, detassazione più
svalutazione del dollaro, come del resto le risposte che va preparando
l'Europa e non solo, è il prodotto della sopravvissuta logica dei blocchi
contrapposti per piegare a proprio favore i rapporti di forza geoeconomici
nel mondo. E laddove le guerre commerciali non risultassero sufficienti per
piegare i più recalcitranti, perplessi o preoccupati anche per il crescente
deficit dei conti pubblici Usa, c'è sempre lo spettro della guerra delle
armi contro i tanti nemici alle porte.

Questa orrifica messinscena che tiene incessantemente il mondo con il fiato
sospeso nell'attesa dell'evento apocalittico, produce grandi e redditizi
affari solo per quell'economia ormai priva di ragioni e parametri sociali.
Insomma, incessante spauracchio di guerra armata all'orizzonte, intanto
vera guerra commerciale a tutto campo. Questa è l'opzione
dell'Amministrazione Bush per mettersi anche al riparo dai nemici interni,
dalle masse dewelfarizzate e dall'opinione pubblica, che ne chiederebbero
la testa senza possibilità di sconti per le difficoltà dell'economia pure a
seguito dei grandi scandali di cui sono attori protagonisti e che hanno
gettato letteralmente in miseria milioni di risparmiatori.

Ma finché i nemici della guerra saranno armati solo di sacrosante ragioni
morali e di ipotesi operative ancora deboli, il crepitìo delle armi
continuerà. Soltanto quando i nemici della guerra riusciranno a mostrare le
superiori ragioni economiche della pace e proporranno comportamenti
conseguenti, allora si potrà pensare che le armi possano tacere.
D'altronde, buffo cinismo, alla fin fine il business della guerra può con
indifferenza fare a meno dell'effettivo scatenarsi dell'evento bellico; che
potrebbe anche accadere se la macchina in armi, lanciata, continuasse per
inerzia la sua folle corsa. Ma non è qui il suo business. Anzi,
l'accadimento bellico crea enormi problemi: diffonde immagini terribili,
suscita forti emozioni popolari difficilmente gestibili e pericolose sul
piano del consenso politico. In più non divide ma compatta il movimento
globale per la pace. Inoltre le altre grandi lobby delle transazioni
finanziarie, dell'interscambio globale delle merci, insomma del business
quotidiano - lobby cui non difettano strumenti e capacità di pressione -
soffrono del fibrillante clima di guerra e della tensione continua: frena
la propensione al consumo, si riducono gli investimenti, aumentano i costi
delle coperture assicurative, si limitano o si chiudono le frontiere, si
genera diseconomia. Il commercio internazionale (circa 6.000 miliardi di
dollari all'anno) ha subìto un calo significativo in termini sia di
quantità che di valore (dati Wto). Sono crollati di oltre il 50% gli
investimenti tra paesi, da 1300 miliardi di dollari a poco più di 620 (dati
Unctad/Onu). Sui mercati finanziari integrati e globali, l'emissione netta
di titoli a reddito fisso è crollata del 40% (dati Banca dei Regolamenti
Internazionali). Situazione difficilmente sostenibile a tempo
indeterminato, soprattutto se la guerra divenisse effettiva.

In definitiva, il mercato della paura non ha bisogno che qualcuno realmente
muoia per colpa dei nemici. Che ci sia o no la guerra e, in ogni caso, non
penso proprio ad una guerra estesa, all'incendio della prateria, quanto
piuttosto ad azioni e provocazioni militari cinicamente circoscritte. Ma
non è questo il punto. Il punto essenziale è che tutti abbiano paura di
irragionevoli nemici. Evocare il pericolo del nemico e agitare di
conseguenza le armi di attacco per la difesa preventiva, costituisce
preventivamente già un bottino di guerra, senza colpo ferire. Il mercato
della paura alimenta un mercato che senza nemici, paura, guerra, non
avrebbe diritto né ragione d'esistenza nel mercato. L'economia della guerra
oggi, diversamente da altri periodi storici, non si identifica con
l'economia in generale. È solo un settore dell'economia che mantiene la sua
forza non in virtù della capacità di creare redditi e consumi diffusi, ma
unicamente per gli storici rapporti privilegiati di pochi grandi gruppi
industriali con sistemi bancari elefantiaci e iniqui, e poteri politici
totalmente invischiati. Un intreccio che rappresenta la causa più genuina
della crisi internazionale, e su cui lo stato nazione, nei due secoli
precedenti, ha costruito le sue fortune, oggi irreversibilmente incise dai
processi di globalizzazione. Gli interessi della guerra sono contrari
all'economia della globalizzazione: ogni volta che l'Amministrazione Bush
ha urlato il peana di guerra, le borse e i mercati hanno sofferto. È di
tutta evidenza che le guerre dell'ultimo quindicennio hanno distrutto più
mercati di quanti ne abbiano costruiti. L'economia della guerra non è più
un'economia, ma una diseconomia, che si accompagna ad una riduzione di
spazi di democrazia e di welfare. La pace non è più soltanto un imperativo
morale ma è diventata un'esigenza economica anche perché le ragioni della
guerra non riguardano l'economia in generale, ma quella parte che senza la
paura della guerra potrebbe continuare a vivere solo con trucchi di
bilancio, con truffe alle masse dei piccoli azionisti, con sovvenzionamenti
statali privi di ragione, con improbabili ingegnerie finanziarie garantite
dalla protezione del potere politico cointeressato. Diseconomie che ci sono
in Usa, come in Germania, in Italia, in Giappone e in altri paesi. Ogni
stato ha il suo Bush e le sue Enron. Il grande business del futuro é la
creazione di un mercato davvero globale in cui più grande impresa economica
consista nel curare profittevolmente le terribili ferite inferte finora al
pianeta terra e ai suoi abitanti.