chimica a manfredonia il medioevo



     
 
il manifesto - 25 Gennaio 2003 
 
Viaggio nell'Italia a rischio, dove la politica «di sviluppo» ha fatto
disastri (4)
Manfredonia, il Medioevo senza fine 
Da 26 anni l'arsenico avvelena la cittadina pugliese. Sotto accusa è ancora
una volta l'Enichem. 10 dirigenti e 2 medici del lavoro sono accusati di
omicidio colposo plurimo, lesioni plurime e disastro ambientale. Una storia
venuta a galla grazie all'inchiesta di un operaio, poi morto di tumore
insieme ad altri sedici lavoratori della fabbrica chimica. Lunedì il processo
MASSIMO GIANNETTI
INVIATO A MANFREDONIA (Foggia) 
Cominciò tutto di domenica. L'ultima domenica di settembre di ventisei anni
fa. Era l'anno di Seveso, il medioevo di Manfredonia. La gente andava
ancora al mare perché qui, sulle sponde del Gargano, l'estate finisce quasi
sempre in autunno inoltrato. In città ci si apprestava alla consueta
passeggiata in centro quando, verso le undici del mattino, si sentì un
boato. Era «simile a un tuono», ricordano i testimoni, e veniva dal
petrolchimico. Molti però non ci fecero caso, perché sembrava uno dei tanti
«botti» già sentiti in passato e provenienti dal solito posto. Non destò
paura neanche la nuvola che si alzò nel cielo dopo lo scoppio. Era giorno
di festa ma in fabbrica _ situata sul golfo, a meno di un chilometro dal
centro abitato _ c'erano molti operai che lavoravano. Un centinaio rimasero
intossicati e furono portati all'ospedale. Con loro anche una trentina di
abitanti che si erano recati sul posto per vedere cosa era successo. Era
accaduto l'inferno, ma l'azienda tranquillizzò tutti. L'esplosione di una
«colonna di lavaggio dell'ammoniaca» aveva provocato la fuoriuscita di
«almeno dieci tonnellate di anidride arseniosa», ma per i dirigenti
dell'Anic _ che poi diventerà Enichem _ non era successo niente di grave.
Al cronista della Gazzetta di Foggia, Michele Apollonio, spiegarono che lo
«scoppio, causato da un incidente tecnico, non aveva provocato alcun danno,
e che quella nube non era né più né meno che l'effetto che si ha accendendo
una sigaretta». Questo venne ripetuto per giorni ai lavoratori. E questo
credette anche Nicola Lovecchio, operaio simbolo di questa storia. Una
storia che non potremmo raccontare se l'ex capoturno del «magazzino
fertilizzanti», ucciso da un tumore a 50 anni, non avesse deciso di andare
«fino in fondo» prima di morire. E' infatti grazie alla sua inchiesta,
sfociata poi in una denuncia alla procura di Foggia, che la magistratura
pugliese ha ripercorso gli «anni bui» di Manfredonia. Iniziata nel `96,
l'indagine del pm Lidia Giorgio si è conclusa nel marzo scorso e ha portato
al rinvio a giudizio di dieci dirigenti dell'Enichem e di due esperti in
medicina del lavoro dell'università di Bari, Luigi Ambrosi e Vito Foà, «che
prestarono la loro autorevole consulenza sulle misure di carattere
sanitario». Sono imputati di omicidio colposo plurimo, lesioni colpose
plurime e disastro ambientale, «perché tutti, in cooperazione colposa tra
loro e comunque con le proprie autonome e indipendenti condotte,
cagionavano un disastro colposo, consistito nell'esposizione prolungata
(dal 26 settembre del `76 per sei anni) di un notevole numero di lavoratori
(più di 1800 tra diretti e esterni) ai composti arsenicali dei sali
utilizzati nella colonna di lavaggio dell'ammoniaca, dispersisi all'interno
dello stabilimento e fuori».

La fabbrica era stata pesantemente contaminata dall'anidride arseniosa e da
altri veleni, ma non venne mai fermata del tutto, neanche quando, di fronte
all'evidenza, l'azienda si era resa conto che la situazione era molto più
grave di quanto non voleva ammettere pubblicamente. E infatti continuò a
non dire nulla agli operai, violando così «l'obbligo di informarli del
rischio derivante dall'esposizione ai composti arsenicali», è il primo capo
d'accusa del pm: «Pur essendo nota già dal 1976 la tossicità dell'arsenico
- aggiunge il magistrato -e, quindi, pur potendosi prevedere la
pericolosità per la salute dell'esposizione a polveri di arsenico,
adibivano i lavoratori all'attività di disinquinamento e, più in generale,
consentivano l'ingresso dei dipendenti all'interno dello stabilimento senza
adottare cautele idonee». Cautele che _ sottolinea il pm _ «pur essendo
tecnicamente ipotizzabili e attuabili», furono completamente ignorate.
«All'opera di bonifica, in sé pericolosa in quanto comportante contatto con
polveri d'arsenico tossiche, furono impiegati lavoratori non specializzati
o comunque non previamente addestrati» a tale compito. Furono mandati allo
sbaraglio, anzi al macello. Toglievano il veleno dalla fabbrica a mani
nude. Non furono infatti dotati né di maschere per il viso né di tute
impermeabili a tenuta stagna, così come aveva prescritto anche
dall'ispettorato del lavoro. «Omissione di controllo», è in questo caso
l'accusa per gli imputati alla sbarra. Che dovranno inoltre rispondere
della «mancata effettuazione nel tempo di monitoraggi ambientali per il
controllo del livello di concentrazione di arsenico nell'aria e nei
terreni», e di non aver «osservato il principio di massima protezione che
avrebbe imposto» un'altra lunga serie di cautele. Tra queste «la riduzione
al minimo indispensabile del numero di lavoratori a cui consentire
l'ingresso in fabbrica fino alla verifica dell'esito positivo dell'opera di
disinquinamento», e il «ricambio dei lavoratori addetti alla bonifica con
nuove unità, onde ridurne al minimo l'esposizione».

Le conseguenza di queste «condotte delittuose» avranno un periodo di
incubazione di circa quindici anni. Si riveleranno mortali per diciassette
operai e gravemente lesive per altri cinque lavoratori, tuttora affetti
rispettivamente da polineuropatia sensitivo-motoria, dermatite
iperpigmentata alle gambe, enfisema, cirrosi epatica e carcinomi polmonali
e renali. Le vittime provocate dal «mostro» chimico _ produceva
fertilizzanti e caprolattame (sostanza utilizzata per per la produzione di
fibre di plastica) _ sarebbero state in realtà molte di più, ma per la
magistratura soltanto una parte di queste sono collegabili alla «prolungata
esposizione» dei lavoratori alle sostanze tossiche. Per sei anni, a partire
da quella «normalissima» domenica di tanti anni fa.

Nicola Lovecchio, all'epoca trentenne, fu uno dei tanti lavoratori mandati
al macello dai suoi dirigenti. Lo scoprirà però soltanto all'inizio degli
anni Novanta. All'ospedale in cui si recava per fare radioterapia,
l'oncologo che lo seguiva non riusciva a spiegarsi le cause di quel
melanoma, infrequente a quell'età, riscontrato nel polmone destro del suo
paziente. Lovecchio, non fumava sigarette né beveva alcolici, raccontò
quindi al medico la vicenda dell'esplosione e di quando, successivamente,
furono messi a pulire la montagna di polvere d'arsenico che si era
depositata nello stabilimento. Benché malato continuò ad andare in
fabbrica, ma da quel giorno ci andò nella doppia veste di operaio e
investigatore. Indagando scoprì che una ventina lavoratori dello
stabilimento erano morti di cancro, e che altri sette suoi compagni di
reparto avevano contratto patologie tumorali. Cercò di convincere questi
ultimi a unirsi alla sua battaglia, ma nessuno lo seguì. In fabbrica era
proibito parlare di malattie, neanche i sindacati lo volevano. La paura di
perdere il posto di lavoro, benché nocivo, spinse chissà quanti lavoratori
a soffrire, e poi morire, in silenzio. Lovecchio continuò da solo la sua
battaglia per conoscere la verità: «Non posso stare seduto ad aspettare che
questa malattia mi consumi del tutto senza aver fatto nulla per
riacquistare la mia dignità di uomo», scrisse in una sorta di testamento.
All'esterno aveva il sostegno di due esponenti di Medicina democratica e
del movimento ambientalista che a Manfredonia aveva cominciato a formarsi
alla fine degli anni Ottanta. Nella sua inchiesta ricostruì cicli
produttivi, si informò sulle sostanze che venivano usate. Diventò esperto
di medicina preventiva. Ma oltre al danno, Lovecchio aveva subito pure la
beffa. Venne infatti a sapere che i medici del lavoro che di tanto in
tanto, per conto dell'azienda, andavano a controllare lo stato di salute
dei lavoratori, avevano omesso le sue reali condizioni. Per avere le
radiografie, dovette ricorrere ai carabinieri. Quando finalmente riuscì a
ottenerle, il suo oncologo scoprì che già aveva il tumore già dal `91. I
medici aziendali non gliel'avevano diagnosticato, glielo dissero due anni
dopo, quando il cancro che si portava dentro era ormai in stato avanzato.
Subì interventi chirurgici, dolorossissime terapie. Ma non si diede per
vinto. Non aveva «più niente da perdere», ripeteva ai suoi familiari.
Sfidare il colosso della chimica italiana appariva assurda, oltreché
controproducente, anche ai sindacati che cercarono di dissuarderlo nel
denunciare l'Enichem. Aveva inoltre scoperto che i sanitari, contrariamente
a quanto raccomandavano gli studi in materia, avevano innalzato anche di
otto volte il tasso di arsenico «tollerabile» dall'organismo umano. I due
«autorevoli esperti in medicina del lavoro» avevano in altre parole quasi
ridotto l'anidride arseniosa in qualcosa di commestibile per l'uomo.
Lovecchio morirà nell'aprile del `97, ma prima di morire ebbe almeno la
soddisfazione di aver determinato l'apertura dell'indagine giudiziaria
contro «l'azienda che ci ha maltrattati nel vero senso della parola», come
ripeteva ai suoi colleghi.

Il processo entrerà nel vivo lunedì prossimo, quando il pubblico ministero
ribadirà pubblicamente le accuse ai dodici imputati. I difensori di questi
ultimi vorrebbero farlo saltare puntando sulla prescrizione dei reati.
Nelle varie interviste rilasciate alla vigilia dell'udienza hanno però
annunciato una duplice strategia. L'altra tenderà a sostenere che «non c'è
rapporto scientificamente provato tra l'esposizione all'arsenico e
l'insorgenza dei tumori - (tesi invece ampiamente documentata dai tecnici
dell'istituto superiore di sanità di cui si è avvalsa il pm durante le
indagini preliminari) - e, soprattutto, che non c'è alcuna dimostrazione
che nell'area sipontina si sia registrata un'impennata del numero dei
decessi per cancro».

Gli effetti della contaminazione chimica sulla popolazione è l'altro
capitolo del disastro provocato dalla fuga tossica di 26 anni fa. Buona
parte di quelle «dieci tonnellate» di veleni sono ancora presenti in oltre
trecento ettari di terreno e in una vasta area marina, pari a
ottocentocinquanta ettari. Uno studio dell'Organizzazione mondiale della
sanità ha di recente registrato tra la popolazione «un eccesso di mortalità
per tumore allo stomaco nei maschi e un aumento dei tumori alla laringe,
alla pleura e mielomi multipli nelle donne». La stessa ricerca mostra
inoltre un aumento generale di leucemie e malattie non tumorali
all'apparato genito-urinarie. «Gli eccessi riscontrati - dice l'Oms -
possono essere indicativi di effetti dalle esposizioni da arsenico, e in
particolare all'emergere dei primi effetti a lunga latenza che potrebbero
aggravarsi negli anni successivi».

Sono una trentina i soggetti riconosciuti dal tribunale come parti civili
contro l'Enichem. Tra questi l'Associazione di donne «Bianca Lancia», che
nell'88 portò il caso Manfredonia alla Corte europea dei diritti dell'uomo
denunciando gli effetti dannosi prodotti dallo stabilimento chimico sulla
popolazione. L'esposto fu presentato da quaranta donne che, dopo una
battaglia durata dieci anni, nel `98 ottennero un risarcimento di 10
milioni ciascuna per il «danno morale» subito. Una sentenza storica contro
lo Stato italiano, condannato per violazione dell'articolo 8 della
Convenzione di Strarburgo laddove questa dice che «ogni persona ha diritto
al rispetto della propria vita privata e familiare», diritto appunto
violato dalle continue emissioni nocive della fabbrica che le autorità
statali non hanno impedito.

Tra le tante parti civili istituzionali accorse a chiedere i danni
all'Enichem, oltre alla regione, alla provincia e al comune, c'è anche il
ministero dell'ambiente. Proprio quel ministero che oggi Legambiente, Wwf,
Medicina democratica (anch'esse parti civili al processo) e altre
associazioni, accusano di «gravi responsabilità» nella lentezza con cui
avviene la bonifica di Manfredonia. La bonifica, nonostante i morti, non è
stata infatti mai conclusa. E' cominciata due anni fa e il modo in cui
avviene, senza peraltro un piano generale, lascia alquanto a desiderare.
Tanto che ancora l'Unione europea, attraverso l'apposita commissione
ambiente, l'estate scorsa ha aperto una «procedura d'infrazione» nei
confronti dell'Italia in quanto «non ha adottato le misure necessarie ad
assicurare che i rifiuti, stoccati o depositati in discarica presenti nel
sito Enichem, fossero recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute
dell'uomo e pregiudizio per l'ambiente». «In pratica - dice Antonio
D'Angelo, presidente nazionale di Medicina democratica - , l'Enichem - che
dopo aver inquinato cielo, mare e terra per trent'anni - ha ottenuto pure
l'autorizzazione per ripulire l'area dello stabilimento con i soldi
pubblici (200 miliardi previsti in cinque anni), si rifiuta di dire dove
porta il materiale contaminato. Non informa neanche adesso la popolazione.
E il ministero tace». Ma non è tutto. Infatti, come se la storia che
abbiamo raccontato non avesse insegnato nulla, la bonifica avviene mentre
nello stabilimento Enichem è consentito l'ingresso di altri lavoratori. La
«fabbrica assassina», chiusa ufficialmente nella metà degli anni `90, è
stata infatti rilevata dall'imprenditore trevigiano Sangalli che l'ha
riconvertita in una mega industria del vetro. Ci lavorano circa trecento
persone (ma le agenzie interinali cercano altro personale) e produce 500
mila tonnellate di vetro ogni anno. E' classificata «industria insalubre di
prima categoria» e in quanto tale, per legge, avrebbe dovuto sottoporsi
alle procedure di valutazione di impatto ambientale prima di insediarsi. La
regione Puglia però non ha ritenuto opportuno fare questo esame alla Sangalli.

La vetreria è una delle tante aziende che stanno reindustrializzando
Manfredonia. Sono una quarantina gli imprenditori «venuti dal nord» per
rivitalizzare questa «area depressa» della Puglia. E tanti altri sarebbero
in arrivo. Una reindustrializzazione a fondo perduto e senza troppe
responsabilità. Avviene infatti attraverso il «contratto d'area» che, come
è noto, prevede finanziamenti pubblici alle aziende benefattrici e salario
al minimo contrattuale per i dipendenti. Lavoro precario e senza diritti
sindacali. Ma questa è un'altra storia.