la faccia sporca del petrolio



da lanuovaecologia.it     
 
Sabato 18 Gennaio 2003  
 
EMERGENZE|Pozzi e drenaggi. La mappa del rischio 
 
Terre in quarantena 
 

Incendio agli stabilimenti di Porto Marghera Da Manfredonia a Porto
Marghera. Dove si trovano i 50 «siti di interesse nazionale» che potrebbero
godere dei finanziamenti per la messa in sicurezza. L'esperienza
statunitense del Superfund 
 
 
di Rosanna Magnano

Smaltire il mercurio direttamente in mare. Alla faccia delle più elementari
regole di rispetto dell’ambiente. E soprattutto del 53 bis: l’articolo,
inserito due anni fa nel decreto Ronchi grazie alle pressioni di
Legambiente, che sanziona il traffico illecito di rifiuti. Accadeva,
secondo gli inquirenti, negli impianti Enichem  
 
Porto Marghera 
di Priolo, in Sicilia: dove è stata riscontrata una percentuale di mercurio
20.000 volte superiore ai limiti di legge. Uno scandalo che la magistratura
ha portato alla luce in questi giorni. E che, sulla base di 552 capi di
imputazione, ha fatto scattare 18 arresti, fra dirigenti Enichem e
funzionari della Provincia di Siracusa. 

STANZIAMENTI BLOCCATI

Quella emersa in Sicilia è soltanto una delle tante facce sporche del
petrolio. Che deturpano spiagge, porti, zone lagunari. Luoghi dove gli
impianti di trasformazione "vecchio stampo", anche dove non è intervenuto
il dolo, hanno lasciato il segno. Sia nell'ambiente, sia nella salute di
chi ci abita. Sono i luoghi per i quali è per i quali, già dal ’98, è
arrivata la qualifica di «siti di interesse nazionale». E possono contare
su uno stanziamento di circa 500 milioni di euro per realizzare interventi
di bonifica e messa in sicurezza. A patto che i tempi di realizzazione dei
progetti finalmente si sblocchino. «Per quasi tutti i siti di interesse –
fanno sapere dal ministero dell’Ambiente – le indagini sullo stato di
inquinamento e gli interventi urgenti di bonifica, soprattutto a difesa
della falda acquifera sono partiti e sono in pieno corso di svolgimento».
Ma in realtà, come denuncia anche Legambiente, sono ancora pochi gli
interventi in fase di avvio.

DA  
 
Porto Marghera 
GELA…

Qualche esempio? Fra gli interventi d'emergenza, nell’area del
petrolchimico di Manfredonia è in progetto una barriera per impedire la
diffusione dell’inquinamento verso il mare e per bloccare l’«ingressione»
del cuneo salino. A Gela si sta realizzando invece una barriera
impermeabile per impedire la diffusione dell’inquinamento e il drenaggio
delle acque di falda. Proprio a Priolo infine, sempre per rimanere alla
lista degli interventi urgenti, è stato realizzato un complesso sistema
formato da pozzi di emungimento e trincee drenanti al per estrarre l’acqua
inquinata e il prodotto petrolifero galleggiante sulla falda. Ma le
indagini che sono appena cominciate dovranno chiarire il reale impatto
inquinante dello stabilimento. 

…A VENEZIA

Le misure di messa in sicurezza di maggior peso sono comunque quelle che
riguardano Venezia: sono ormai avviati progetti per 35 km di sbarramento
(stima dei costi: 5 milioni di euro per chilometro). Di questi, 17 km
dovrebbero essere finanziati con i fondi derivanti dalla cosiddetta
transizione Montedison: il contestato accordo raggiunto dal colosso chimico
e il governo italiano per il risarcimento dei danni ambientali causati
nell'area di Marghera. Nella città lagunare è inoltre in corso il dragaggio
dei sedimenti nei  
 
Priolo 
canali e nelle darsene industriali. Mentre sono stati presentati gli studi
di fattibilità per gli impianti di trattamento dei materiali derivanti
dalle bonifiche e i progetti preliminari per la collocazione di milioni di
metri cubi di sedimenti a moderato grado di contaminazione.

IL MODELLO AMERICANO

Su tutti però pesa la macchinosità delle procedure. «Le Conferenze dei
servizi attivate dal ministero dell'Ambiente per accelerare l'intero
processo si sono rivelate lentissime – denuncia Stefano Ciafani,
dell'Ufficio scientifico di Legambiente – Basti pensare che dal '98, quando
sono state avviate le Conferenze dei primi 15 siti, i lavori non sono
ancora cominciati. In più gli inquinatori sono eccessivamente timidi quando
si tratta di presentare i progetti di bonifica. E i tempi diventano
lunghissimi». Ma come uscirne? «Proponiamo il modello americano – aggiunge
Ciafani – Ovvero, chi inquina paga. E se le aziende sono fallite si ricorre
a quello che negli Stati Uniti chiamano Superfund: un salvadanaio
finanziato dalle imprese». Con questo sistema gli americani hanno ottenuto
buoni frutti: con verifiche a sorpresa e un fondo che lo scorso anno
superava gli 8,5 miliardi di dollari. Da noi invece il processo di bonifica
sembra rimanere ancora impastato nelle maglie della burocrazia.