ai confini del cyberspazio



     
 
il manifesto - 28 Dicembre 2002 
 
 
Viaggio ai confini del cyberspazio 
Una lunga ricognizione della frontiera elettronica e un'appassionata
rassegna degli stili e forme di vita che a colpi di tastiera e mouse hanno
trasformato Internet. Ma anche un'analisi dei meccanismi che hanno regolato
l'ascesa e la crisi della new economy, dove il circolo virtuoso tra
finanza, stock option e innovazione non ha retto i colpi e i conflitti
della globalizzazione. «Dark Fiber», la raccolta di saggi di Geert Lovink,
uno dei protagonisti della cibercultura
BENEDETTO VECCHI
E'uno dei migliori libri su Internet uscito nell'ultimo anno. E' il
condivisibile giudizio espresso da Franco Berardi Bifo che introduce Dark
Fiber, il volume di Geert Lovink da poco pubblicato dal piccolo editore
Luca Sossella (pp. 286, ? 18). Quello di Lovink è infatti un libro che
riesce felicemente ad unire la ricostruzione storica della vita nel
cyberspazio nell'ultimo decennio alla definizione dei possibili scenari
futuri del web, passando in rassegna gli stili di vita, le culture critiche
che si esprimono nella rete. Inoltre, a rendere avvincente la lettura di
Dark Fiber è il ritmo sincopato che lo contraddistingue dovuto
all'«immediatezza» dei testi che compaiono spesso nei gruppi di discussione
presenti su Internet, dove la scrittura «mordi e fuggi» è sostenuta da
continui rinvii alla cultura «alta» novecentesca. A mo' di premessa va
subito detto che l'autore è uno dei fondatori della mailing list nettime
dopo una intensa educazione sentimentale nei movimenti alternativi e
squatter degli algidi anni Ottanta in Olanda. Anni di no future e di
radicale diffidenza, almeno nei gruppi di base nordeuropei e non solo,
verso la tecnologia, considerata, di volta in volta, strumento nelle mani
del capitale per stroncare ogni forma di dissenso o incarnazione di uno
sviluppo industriale nemico della natura. Di quella breve, ma densa
stagione politica ed esistenziale, Gerrt Lovink ha mantenuto lo sguardo
lucido e l'attitudine alla critica.

Conseguita una laurea in scienze delle comunicazioni, Lovink è infatti
arrivato infatti su Internet imbevuto della dialettica negativa di Theodor
Adorno, della sociologia della comunicazione di Marshall McLuhan e della
corrosiva critica alla società dello spettacolo di Guy Debord, forte però
della convinzione che le tecnologie della comunicazione potessero diventare
da strumento di dominio a tecnologie della liberazione. Faccio parte di
quella generazione, scrive a un certo punto Lovink, che era troppo giovane
nel Sessantotto e troppo cresciuta per farsi abbindolare dalle sirene della
nuova frontiera elettronica: per sfruttare al meglio le potenzialità della
comunicazione on line bisognava fare tesoro del pensiero critico acquisito,
sapendo però che gran parte delle analisi della scuola di Francoforte, di
Marshall McLuhan e di Debord erano difficilmente applicabili a Internet,
dove le tecnologie digitali, recitava la vulgata dominante, non
consentivano solo di comunicare, ma anche di progettare e costruire realtà
parallele a quelle esistenti fuori dallo schermo. Da qui alla definizione
di un progetto corale di net-criticism il passo è stato breve. Anzi, si può
tranquillamente affermare che tutta la produzione teorica di Lovink è parte
di questo progetto, che ha visto impegnati centinaia, se non migliaia di
studiosi, programmatori di computer, semplici navigatori e militanti politici.

Questa parte di Dark fiber è davvero notevole, perché mette in evidenza la
complementarietà tra la vita dentro lo schermo e quella fuori. Così,
scorrono all'indietro le aspre discussioni degli anni Novanta sul virtuale
e il reale, sul ruolo delle tecnologie digitali nel trasformare i media,
sulla comunicazione on line, sui progetti governativi di censurarla, sulla
cosiddetta democrazia elettronica e via digitando. Pregnanti sono infatti i
saggi dedicati all'uso di Internet per informare da parte dei dissidenti
serbi durante le guerre nei Balcani, stretti tra il nazionalismo etnico di
Milosevic e le bombe umanitarie della Nato. L'esperienza dei mediattivisti
indipendenti serbi serve però come elemento propedeutico al tema della
net-war, cioè alle guerre che si combattono su Internet per «occulatare»
eventi e fatti o «produrre» una realtà che giustifichi l'uso degli eserciti
per costruire il «nuovo ordine mondiale» consono agli interessi del libero
mercato. Ma avvincenti sono anche i testi che parlano diffusamente della
vita interna di Nettime, dove la decisione di dar vita a una mailing list
«libera» ha dovuto fare i conti con il quesito se moderarla o meno, una
domanda che torna periodicamente nei gruppi di discussione «politici»
presenti sul web quando l'interattività consentita dalla rete non prevede
mediaziona alcuna.

Il secondo elemento che emerge da Dark Fiber è la critica che l'autore
svolge verso quel luogo comune che accomuna la cultura underground al
pensiero mainstream di una frontiera elettronica inizialmente libera dai
condizionamenti del grande capitale e poi pian piano colonizzata dalle
grandi corporation dell'informatica e delle telecomunicazioni.

Il business, sostiene Lovink, è stato sempre presente in rete: sbaglia
quindi chi guarda al web con la nostalgia verso un passato non contaminato
dalle leggi del mercato. Internet è infatti figlia della produzione
capitalista; ed è per questo che non vanno mai rimossi i conflitti e le
forme di vita che hanno considerato la comunicazione on line come strumento
propedeutico per affrancarsi dalla legge del profitto. Per estensione, si
potrebbe quindi affermare che Internet è stato segnata e plasmata dai
conflitti che l'hanno caratterizzata sin dalle origini. Lovink però
arrischia anche un'ipotesi interpretativa ulteriore. Se da una parte ci
sono sempre state le corporation, dall'altra è cresciuta prepotentemente
una «economia del dono» rappresentata dal movimento dell'open source, cioè
quella produzione di software, spesso sotto forma di cooperazione sociale,
che ha sempre rifiutato le regole del diritto d'autore e che costituisce la
vera variabile indipendente per quanto riguarda il futuro del web.

Sicuramente, i testi dedicati all'ascesa e alla caduta della new economy
sono quelli che meritano maggiore attenzione. In primo luogo perché
spiegano, ad esempio, il titolo: dark fiber è infatti l'espressione usata
per indicare la parte inutilizzata delle fibre ottiche nel trasmettere
immagini, suoni e parole. A prima indagine sembra di assistere a un vero
paradosso: c'è l'hardware, ma non il software. Personal computer sempre più
potenti, fibre ottiche che consentirebbero di trasmettere questo mondo e
quest'altro, ma Internet è usata per l'ottanta per cento solo per la posta
elettronica. Mancano quindi i «contenuti» appetibili per quel miliardo di
persone che si collegano alla rete e che fuggono come lepri di fronte a un
fruscio di foglie appena sentono parlare della necessità di pagare un
balzello per scaricarsi un file musicale o un film in formato digitale.
Internet è gratuita e ogni mezzo è lecito per «piratare» ciò che viene
percepito come un bene comune. Questo è però solo una parte della
spiegazione della crisi della new economy. L'altro aspetto, molto più opaco
e difficile da decrittare pienamente, ha a che fare con la produzione di
merci e con quel circolo virtuoso che vedeva il capitale di rischio
investire in innovazione, la quotazione in borsa di idee e una forza-lavoro
che, in cambio di stock options, lavorava dieci, dodici ore al giorno per
produrre innovazione tecnologica e organizzativa. Come spiegano bene sia
Lovink che Bifo quel circolo virtuoso e quel patto luciferino tra capitale
e forza-lavoro sono semplicemente saltati.

Ma proprio su questa crisi della new economy che si addensono le
spiegazioni più rassicuranti. L'indice che punta sempre al ribasso della
borsa produce sicuramente un impoverimento di chi ha investito nel casinò
finanziario, accelera il processo di concentrazione nel settore dei media e
la convergenza tra telecomunicazioni, informatica e televisione. Sembra
quindi di assistere alla rivincita della «vecchia economia», così come
annunciato dall'elezione di George W. Bush alla Casa Bianca. Creazione di
grandi monopoli, ridimensionamento della finanza: tutto sembra quindi
tornare alla normalità e Internet sembra rappresentare un incidente di
percorso. Non è così, almeno se si considera il world wide web come un
grande laboratorio dove sono state sperimentate forme nuove di rapporto tra
capitale e forza-lavoro, nuovi processi lavorativi, nuove soggettività
messe al lavoro. Che quelle esperienze abbiano rotto la gabbia del
cyberspazio non è certo una novità. Anzi si può dire che gran parte di ciò
che è stato sperimentato su Internet è diventata la norma sia dentro che
fuori lo schermo. Ed è partendo da questa considerazione che si può
tranquillamente affermare che «l'economia del dono» - reciprocità,
strategia dell'attenzione, valorizzazione delle «risorse umane» -
analizzata da Lovink è diventata il modello dominante per quanto riguarda
la produzione della ricchezza. All'orizzonte non c'è quindi nessun ritorno
al passato, bensì un ritorno al futuro, cioè a quel rompicapo che è il
capitalismo flessile. E a quello straordinario intreccio di mediattivismo e
attivismo sociale che si è soliti definire «movimento dei movimenti». In
fondo, la crisi di quel circolo virtuoso e di quel patto luciferino tra
capitale e forza-lavoro è opera anche e soprattutto dei movimenti di
critica alla globalizzazione capitalista.