reddito minimo d'inserimento e standard



da la voce.it 22 - 12 - 2002

   
19-12-2002  
Quando mancano gli standard minimi 
Quando mancano gli standard minimi, di Chiara Saraceno

Misure di sostegno al reddito

In Italia continua a mancare, a differenza che in tutti gli altri paesi
dell’Unione Europea salvo la Grecia, una misura di sostegno al reddito che,
a parità di bisogno, sia omogenea per tutti i cittadini italiani. A livello
nazionale esistono misure di garanzia solo per due categorie di persone:
gli anziani e i disabili. A queste si aggiunge poi l’assegno al nucleo
familiare, per le famiglie di lavoratori dipendenti poveri. Negli ultimi
anni è subentrato infine l’assegno per i nuclei poveri con almeno tre figli
minori. Si tratta di una misura che si è dimostrata certamente fortemente
redistributiva, ma che è riuscita a scalfire appena la forte incidenza
della povertà in queste famiglie (riguarda infatti il 25 per cento), mentre
non tocca quella di famiglie con due soli figli minori, che pure è
consistente (16 per cento). Per tutti gli altri casi, la qualità,
consistenza, e persino esistenza di misure di sostegno sono lasciate alle
decisioni locali, con esiti di frammentazione e disomogeneità. 


In assenza di una misura nazionale di sostegno al reddito per chi si trova
in povertà, non solo si è in presenza di una sorta di giungla categoriale,
ma anche di una situazione da cuius regio eius et religio: a parità di
bisogno, a seconda di dove si vive, si ha o meno diritto a qualche misura
di sostegno. La delega al livello locale di gran parte dell’assistenza,
senza che siano stati preliminarmente definiti criteri, standard, diritti e
doveri minimi a livello nazionale ha avuto come esito, accanto a
interessanti fenomeni di innovazione a livello locale, una forte
discrezionalità, e quindi anche l’infragilimento di condizioni di
cittadinanza comuni. 

E’ da questa discrezionalità ed eterogeneità dei trattamenti, e non da una
peraltro inesistente generosità dei sostegni, che deriva l’assistenzialismo
spesso imputato al modesto welfare state italiano.

La sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento

L’assenza di una pratica, e di una tradizione di cultura politica e
amministrativa, consolidate e omogenee almeno negli obiettivi e nei metodi
di base, non consentono di guardare con tranquillità alla delega pura e
semplice di iniziativa agli enti territoriali, tanto più dopo
l’approvazione del titolo V della Costituzione, che ha rafforzato
l’autonomia regionale in questo come in altri campi. La stessa
sperimentazione del Reddito Minimo di Inserimento (RMI) ha segnalato in
questi anni come in larga parte del Mezzogiorno non esistano non solo
risorse finanziarie per forme anche minime, ma non occasionali, di sostegno
al reddito, ma neppure un retroterra amministrativo e professionale
preparato ad affrontare la problematica della povertà e della esclusione
sociale in modo non episodico o emergenziale, quando non clientelare. Ma
anche nei Comuni del centro-nord, che pure avevano una più solida
tradizione amministrativo-professionale e interventi consolidati nel
sostegno al reddito, una misura quale il RMI si presenta con caratteri di
forte innovazione, che richiedono una radicale riorganizzazione sia
culturale che dei servizi. 

Le politiche governative 

Proprio per ovviare alla disomogeneità di criteri e standard, ma anche di
bisogni e risorse, la creazione di una misura di base omogenea nei criteri
di accesso, nei diritti e nei doveri, è prevista all’art. 23 dalla Legge
328/2000, sul sistema integrato dei servizi e interventi sociali. In esso
si parla infatti di messa a regime del RMI, sulla base degli esiti della
sperimentazione, "come misura generale di contrasto della povertà alla
quale ricondurre anche gli altri interventi di sostegno al reddito".

L’attuale Governo ha invece deciso di confermare la differenziazione ed
esclusiva responsabilità finanziaria e applicativa, degli enti locali in
questo campo.

Nel Patto per l’Italia l’attuazione di un qualche Reddito di ultima istanza
viene affidato alla iniziativa, e alle risorse finanziarie, amministrative
e gestionali, delle Regioni, con prevedibili conseguenze sul piano non solo
di una ulteriore frammentazione, ma anche di uno squilibrio tra bisogni e
risorse (si veda BOERI-PEROTTI). Non vi sono risorse dedicate nel Fondo
Nazionale per le Politiche Sociali, che per altro nella Finanziaria 2003
non è stato neppure aumentato a questo scopo. Anzi, alla diminuzione del 6
per cento si aggiunge quella derivante dalla decisione di non proseguire la
sperimentazione in atto ormai da quattro anni, dato il giudizio negativo
espresso dal Governo sulla opportunità, appunto, di mettere la misura a
regime. Ciò comporta di fatto, per la prima volta in quattro anni, una
riduzione dei finanziamenti dedicati al contrasto della povertà. Le
detrazioni fiscali per i familiari a carico, infatti, non toccano chi è più
povero, per il ben noto fenomeno dell’incapienza(1).


La questione della povertà

Certamente il RMI da solo non costituisce una soluzione alla questione
della povertà. E’ solo un tassello, importante e a mio parere essenziale,
di un pacchetto di azioni e iniziative che riguardano diversi settori:
accanto a politiche del lavoro e di sviluppo locali, e alla riforma degli
ammortizzatori sociali, occorre da un lato riconoscere in modo più adeguato
e più universalistico il costo dei figli, dall’altro favorire il lavoro
remunerato delle madri, aumentando il numero di percettori di reddito in
famiglia. Infine, occorre pensare a qualche forma di sostegno a redditi da
lavoro bassi, del tipo working family tax credit inglese o al prime pour
l’emploi francese. Tuttavia, proprio perché è per definizione una misura di
ultima istanza, è forse più urgente di altre: perché riguarda coloro che
poveri sono già, e spesso da tempo e, se minori, con un’elevata probabilità
di rimanerlo a lungo.


(1) Baldini e Bosi (30.9.02 e 17.12.02) hanno segnalato che anche la
riforma delle aliquote fiscali è per lo meno dubbia nella sua efficacia
redistributiva nei confronti dei redditi più bassi.