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il manifesto - 27 Dicembre 2002 
 
 
L'eminenza grigia del Cavaliere 
Per tracciare il profilo intellettuale di Giulio Tremonti bisogna risalire
a Jean-Bapiste Colbert, il maître-à-penser della politica economica del Re
Sole. Ma oggi la posta in palio è rendere operativa una politica economica
basata su una strategia neocorporativa nelle relazioni tra capitale e
lavoro, che deleghi ai privati la «cura dei bisognosi» e ribalti
definitavamente i rapporti di forza nella società in favore dell'economia
di mercato
LUIGI CAVALLARO
Colbert, chi era costui? La domanda, che fino a poco tempo fa si sarebbe
potuta udire solo in qualche aula universitaria, circola da alcune
settimane sulle testate giornalistiche del Belpaese, complici una
densissima intervista che il ministro Tremonti, vero maître à penser del
governo in carica, ha rilasciato a La Stampa e una lunga apparizione dello
stesso Tremonti sul palcoscenico della neonata trasmissione televisiva
Excalibur, ormai lanciatissima verso il ruolo di principale dispensatore
del pensiero di una destra in cui l'integralismo cattolico, gli umori
primitivi dei leghisti e un'ipotesi di modernizzazione dirigista e
corporativa si stanno finalmente componendo - ad onta delle frizioni
superficiali su cui insistono i queruli rappresentanti di un Ulivo ormai
esangue - in un corposo progetto di «rivoluzione passiva». Ministro di Sua
Maestà Luigi XIV, il «Re Sole», Jean Baptiste Colbert (1619-1683) fu il
protagonista assoluto di una stagione prettamente mercantilista, durante la
quale la politica economica francese si connotò per un selettivo
protezionismo doganale, forti incentivi alla modernizzazione della
struttura produttiva, intervento pubblico diretto nell'attività industriale
mediante le cosiddette «manifatture reali» e, al contempo, misure di
liberalizzazione dell'iniziativa economica privata, allora impastoiata nei
vincoli di ascendenza medievale delle corporazioni. Da allora sinonimo di
dirigismo economico, il «colbertismo» (anzi, il «neo-colbertismo») è stato
ripetutamente evocato da Tremonti nelle interviste citate come emblema di
una nuova stagione della politica del centro-destra. «La nostra può anche
essere la direzione di un nuovo New Deal», ha detto Tremonti. Rispetto alla
prospettiva di «usare lo Stato», la destra, infatti, «non sta ferma», né in
Italia, né in Europa, né negli Stati uniti. Anzi, quanti pensano «che la
destra rifiuti lo Stato, non hanno capito né la destra, né lo Stato».
Tremonti conia uno slogan: «Il mercato dove è possibile, lo Stato dove è
necessario» e giunge ad affermare, con una sicumera che avremmo voluto
sentire ben prima e da ben altre parti, che sulla cultura delle
privatizzazioni «è arrivato il momento di fare un bilancio storico». Detto
chiaramente: «non è una bestemmia l'ipotesi che lo Stato entri in una
società», foss'anche la Fiat. E nemmeno è una bestemmia che a livello
statuale, anzi a livello di Unione europea, ci si proponga di correggere le
asimmetrie negli scambi commerciali: «Se in Oriente producono a costo 10
una valvola che a noi costa 100, non c'è competizione possibile, non c'è
riduzione d'imposta che tenga. Occorre intervenire. Un tempo si sarebbe
reagito con l'imposizione di dazi. Ora si tratta di imporre condizioni di
reciprocità», perché «i paesi che fabbricano prodotti ma non impongono ai
produttori i doveri sociali stanno spiazzando l'Europa».

Se è vero che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia si
presentano sempre due volte (la prima volta come tragedia e la seconda come
farsa), vien fatto di pensare che il governo Berlusconi si prepari ad una
svolta di politica economica analoga a quella compiuta da Mussolini a
partire dalla seconda metà degli anni Venti. Adesso come allora, l'Italia
si trova nel bel mezzo di una deflazione mondiale, in quel tempo indotta
dalla follia del «ritorno all'oro» e dalle politiche monetarie restrittive
che essa aveva provocato, ai nostri giorni frutto, da un lato, della
programmatica incapacità degli Stati Uniti di governare il loro mercato
finanziario e patrimoniale, dall'altro del modo scellerato con cui abbiamo
costruito l'Unione europea, affidando ad una Banca centrale indipendente il
compito di perseguire la stabilità monetaria a costo di milioni di
disoccupati.

Adesso come allora, siamo costretti lungo la china del rientro dal debito
pubblico, a quel tempo effetto delle spese di guerra, oggi frutto perverso
dell'intreccio fra il «keynesismo delinquenziale» dei fantastici anni
Ottanta e il coevo e insensato «divorzio» tra governo e istituto
d'emissione. E adesso come allora, la difficile congiuntura internazionale
viene a cadere in un momento di forti tensioni interne, che in quei tragici
giorni riflettevano il malcontento popolare per le promesse tradite
nell'immediato dopoguerra, oggi sono effetto, per un verso, della
preoccupazione del «ceto medio riflessivo» circa il modo in cui la
coalizione al governo sta gestendo i molteplici conflitti d'interessi che
riguardano il presidente del consiglio e la sua cerchia di familiares, e
per l'altro di una crisi economica che ha mandato in frantumi gli idola ai
quali abbiamo sacrificato la nostra intelligenza collettiva - parlo di un
decennio di acritica esaltazione del mercato, che ha distrutto ogni
capacità progettuale dei pubblici poteri e fatto precipitare il nostro
paese agli ultimi posti per capacità di competere nei settori dell'high
tech, in nome di un dissennato elogio del made in Italy, tanto ignorante
dei presupposti storici del «miracolo economico» quanto arrogante nella
somministrazione delle ricette di policy.

Allora Mussolini e i suoi giocarono il tutto per tutto e trassero
esplicitamente la carta nazionalista, l'unica che in quel momento poteva
consentire al duce di continuare ad occupare il centro dello schieramento
governativo, mantenendosi equidistante sia dall'ala radicale che da quella
moderata. Sul piano della politica economica, ciò si tradusse
nell'ingabbiamento della dinamica salariale entro le rigide pastoie della
contrattazione collettiva obbligatoria (la politica dei bassi salari fu una
costante del regime) e nel riordino delle istituzioni di previdenza ed
assistenza sociale allora esistenti, nel convincimento che solo una
politica sociale attenta a compensare sul piano dei servizi ciò che veniva
tolto sul piano delle libertà potesse conseguire l'obiettivo brutalmente
enunciato da Mussolini in una privata riunione di gerarchi:
«cloroformizzare le opposizioni e anche il popolo italiano». Fu così che la
spesa sociale crebbe, tra il 1926 ed il 1942, di dieci volte in termini
percentuali sul Pil, mentre contemporaneamente, allo scopo di sgravare la
finanza pubblica dall'onere di una spesa che - invece di decrescere, come
prescritto dai dettami ortodossi - cresceva a più non posso, si escogitava
la trovata della moltiplicazione degli enti pubblici economici, che,
mediante la collocazione presso il pubblico di obbligazioni garantite dallo
Stato, raccoglievano il risparmio privato allo scopo di renderlo
disponibile per la politica di modernizzazione della struttura produttiva
intrapresa dal regime.

Scorrendo in quest'ottica uno per uno i provvedimenti economici ispirati da
Tremonti, si ha forte la sensazione di un dejà vu, a cominciare dalle sue
due più contestate creature, la «Patrimonio s.p.a.» e la «Infrastrutture
s.p.a.», che - più che preludere ad una svendita di massa del patrimonio
pubblico - ricordano (lo ha rilevato Marcello de Cecco) l'Icipu e il
Crediop, ossia due delle invenzioni partorite negli anni Venti dalla
fantasia «creativa» di Alberto Beneduce allo scopo di raccordare
direttamente risparmio privato e investimenti industriali. Nello stesso
senso si muovono il «Patto per l'Italia», in cui nemmeno si fa mistero di
aver scambiato la moderazione salariale e l'abrogazione (per carità, in via
sperimentale) dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori con un workfare in
cui grande peso avranno gli «enti bilaterali» che gestiranno i programmi di
riorientamento formativo, e soprattutto l'annunciato decollo dei fondi
pensione, grazie ai quali ingenti capitali potrebbero rendersi disponibili
per l'investimento in opere pubbliche, magari tramite l'acquisto di
obbligazioni garantite dal «patrimonio culturale» (sul cui gradimento al
pubblico non dovrebbe essere difficile scommettere, visto che l'orso
seguita a ballare in Borsa). E sempre nella stessa direzione si collocano
l'aumento delle pensioni minime e la diminuzione delle imposte sui redditi
più bassi (quest'ultima espressamente definita da Tremonti come «la
contropartita della riforma del mercato del lavoro»), veri e propri atti
dovuti ad un elettorato che - come ha documentato l'Itanes in una ricerca
apparsa l'anno scorso - risulta composto, per la sua larga maggioranza, di
donne anziane (casalinghe, pensionate e cattoliche praticanti), cui si
aggiungono disoccupati, pensionati e operai dei ceti più bassi.

Il quadro, insomma, sembra abbastanza coerente, tanto più che, conscio dei
vincoli europei, il ministro Tremonti sembra aver costituito una vera e
propria lobby (di cui, secondo indiscrezioni giornalistiche, farebbero
parte il ministro francese Francis Mer, l'inglese Gordon Brown e il tedesco
Eichel) per ammorbidire l'abbraccio soffocante del Patto di stabilità. La
loro azione concertata ha già portato, in occasione del vertice di Siviglia
del giugno scorso, a sopprimere nel documento finale ogni riferimento al
2004 come termine ultimo per il processo di risanamento delle finanze
statali. Il ministero di via XX settembre, d'altronde, rappresenta in
questo momento uno dei centri più attivi di elaborazione politica e
culturale: sebbene i maligni lo dipingano come territorio di scorrerie di
pusher, esso ospita conferenze di illustri economisti di fama
internazionale, attribuisce incarichi di responsabilità ad «eterodossi»
come Siniscalco e Barca e sta collaborando ad un progetto internazionale,
il «Plan B», il cui completamento dovrebbe far passare il New Deal
tremontiano alla fase operativa. E a chi gli rimprovera scarsa
considerazione per i conti pubblici, Tremonti replica: «La filosofia
politica delle nostre due prime finanziarie è quella della protezione
sociale, indispensabile in una fase che, dopo l'11 settembre, era
evidentemente una fase di progressive criticità»; quanti insistono sui
conti, «sulla trimestrale di cassa», parlano il linguaggio di chi «non ha
proprio idea di quello che sta succedendo in Europa, dove la posizione
italiana è e sarà rispettata», e non hanno capito che il funzionamento
degli «stabilizzatori automatici» si misura fuori dalla congiuntura, che il
«buco» nelle entrate è fittizio se c'è uno «scarto tra crescita potenziale
e crescita reale» e, di conseguenza, «non deve essere coperto con manovre
correttive». Keynes non avrebbe potuto dire di meglio.

Sarebbe erroneo liquidare il tutto come una riproposizione fuori tempo
massimo dello statalismo fascista. Come ha spiegato Gianfranco Fini
all'assemblea annuale della Compagnia delle opere, «non si deve delegare
tutto né allo Stato né al mercato: la strategia giusta è quella
neocorporativa, l'unica strategia che riconosce il protagonismo degli
individui e dei corpi intermedi». In tal modo, il «neocorporativismo
colbertiano» si candida a dirigere la trasformazione della società europea,
resa necessaria dalla rivoluzione tecnologica e organizzativa indotta dalle
nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione, verso un assetto
in cui i «corpi intermedi» della Chiesa e delle micro-comunità
territoriali, unici antidoti contro lo sradicamento culturale provocato dal
mercato capitalistico, riaccoglieranno i «naufraghi dello sviluppo» entro
un tessuto di valori condivisi: non a caso, di fronte alla domanda se fosse
meglio welfare society o welfare state, Fini ha risposto che «welfare
community coglie meglio la complessità», a conferma di quanto pesi il
«comunitarismo» (col suo indefettibile corollario di intolleranze religiose
e/o razziali) nel sistema valoriale della destra.

È indubbio che un programma del genere, prendendo corpo insieme alla spinta
alla semplificazione dei meccanismi istituzionali in senso presidenzialista
e plebiscitario, mira essenzialmente alla spoliticizzazione della società,
per la quale - oggi come ottant'anni fa - le (limitate) concessioni di
politica sociale varrebbero come «compensazione» per la rinuncia ad una
partecipazione attiva alla formazione degli indirizzi di politica economica
e lato sensu culturale: la destra è destra ed è illusorio sperare che possa
usare il welfare come strumento di compimento della cittadinanza, invece
che come alternativa ad essa. Ma, a mio avviso, vale la pena di accettare
la sfida che ci viene portata con codesto progetto di «rivoluzione
passiva»: Tremonti ha mille volte ragione quando afferma che, se si aprirà
la discussione su nuove forme di democrazia economica (quali la
partecipazione dei lavoratori agli utili e alla gestione delle imprese e,
più in generale, il concorso dei cittadini alle scelte concernenti cosa,
come e per chi produrre), «è da questa parte che accadrà». Tradotto: oggi
come negli anni Trenta, non c'è possibilità di democrazia economica se
prima non si rovesciano le priorità, se la politica si fa dettare il suo
programma dall'economia, se si persiste nella follia di disconoscere le
possibilità di un ruolo economico autonomo dello Stato (se nazionale o
europeo, è un altro discorso).

Dunque, viva Tremonti-Colbert? No di certo. Ma nonostante l'oscena messe di
condoni, il merito di aver gridato che «il re è nudo» glielo possiamo
riconoscere, specie in confronto a chi, dalla nostra parte, si reca in
pellegrinaggio alla City e grida allo «scandalo» dei conti pubblici in
rosso, o si attarda francescanamente a predicare le virtù dell'esodo.