economia e politica



dal corriere.it

 
  
 
  
 Lunedì 16 Dicembre 2002 
 
 
  
 
Caso Fiat, Berlusconi, De Benedetti

 
ECONOMIA E POLITICA IL GRANDE INTRECCIO


Non c’è forse settore della vita associata ove il divario fra «essere» e
«dover essere» sia maggiore di quello che si registra nei rapporti fra
politica ed economia (e dunque fra élites politiche da una parte ed élites
industriali e finanziarie dall’altra). La dottrina liberale ha sempre
candidamente auspicato rapporti basati sulla chiarezza: lo Stato tutela i
diritti di proprietà, assicura le condizioni istituzionali di funzionamento
dell’economia di mercato e fornisce ai cittadini «beni pubblici» (i beni
che il mercato non è in grado di produrre); le imprese, per parte loro,
fanno il loro mestiere, competono con altre imprese in un libero mercato, e
quando intervengono nella sfera politica per influenzarne le scelte lo
fanno come un gruppo di interessi fra gli altri, sia pure, ovviamente,
munito di più risorse di altri. Naturalmente, la storia dei rapporti fra
politica ed economia, in tutte le democrazie occidentali, è sempre stata
molto lontana dai precetti della dottrina. In tutte le democrazie, politica
ed economia sono da sempre intrecciate fra loro, in modi assai poco
trasparenti. Questi intrecci si configurano differentemente in virtù di
molti fattori (la forza o la debolezza, rispettivamente, dell’ élite
economica e delle istituzioni statali, l’orientamento favorevole od ostile
al mercato della cultura politica nazionale, eccetera). A un estremo del
continuum troviamo il caso degli Stati Uniti: istituzioni statali deboli,
influenzate e permeate dai grandi gruppi economici e finanziari. All’altro
estremo del continuum c’è, tradizionalmente, la Francia: istituzioni
statali forti, e un ’élite politico- burocratica in posizione «dominante».
Fra i due estremi, si sono quasi sempre collocate le altre democrazie. In
generale, classi politiche legittimate dal suffragio popolare e a capo di
istituzioni statali solide hanno fronteggiato «alla pari» élites
industriali e finanziarie a loro volta dotate di cospicue risorse autonome. 
L’Italia ha sempre spiccato in questo quadro per le sue particolarità. Da
un lato, ha sempre avuto un ’élite industriale e finanziaria assai più
debole (e quindi politicamente più ricattabile) di quelle di altri Paesi.
Dall’altro lato, ha sempre avuto istituzioni statali deboli e una classe
politica che doveva supplire a un endemico «deficit di legittimità» delle
istituzioni mediante la costruzione di reti clientelari e la conseguente
distribuzione di beni di tipo «particolaristico». 
La storia dei rapporti fra classe politica ed élites economiche in Italia è
per lo più una storia di scambi ineguali, in cui le élites economiche, a
causa della loro debolezza, dovevano continuamente guadagnarsi una
protezione, non scontata in partenza, del potere politico, in un contesto
culturale in cui, senza vera soluzione di continuità tra fascismo e
post-fascismo, i pregiudizi contro l’economia di mercato erano
diffusissimi. Da qui certi caratteri strutturali della nostra società. Si
pensi all’epoca d’oro delle «partecipazioni statali» democristiane: c’era
allora un’economia nazionale solo nominalmente «di mercato», ma in realtà
per molti versi assimilabile a un’economia da socialismo reale. Con le sue
saghe e con i suoi eroi: i capitani dell’industria di Stato. 
Se per molto tempo si è lamentata la debolezza della grande industria
privata in Italia, la sua natura di industria protetta dallo Stato, la sua
debole capacità di proiezione esterna, e se oggi, con la vicenda Fiat,
intoniamo il definitivo De profundis per la grande industria italiana, la
causa va in larga misura cercata nel modo in cui, per buona parte del XX
Secolo, si è perpetuato questo rapporto «malato» fra politica ed economia.
In un contesto di poteri strettamente intrecciati, alcune storie spiccano
per la loro emblematicità. 
Fa caso a sé naturalmente la vicenda della Fiat, non solo per le dimensioni
di quel gruppo, e oggi per le dirompenti conseguenze della sua crisi. Ma
anche per il ruolo, assolutamente unico, che la famiglia Agnelli, vera casa
regnante italiana dopo la cacciata dei Savoia, ha esercitato, anche in
rapporto alla politica: l’unico gruppo che, per la forza del suo impero
industriale e finanziario, nonché per il prestigio che ne derivava, si sia
potuto permettere, quasi sempre, rapporti di scambio «paritetici» con le
varie classi politiche di governo. 
Per contro, nonostante l’apparente eccezionalità delle loro storie, e il
loro diverso destino politico, mi sembrano fra loro, al fondo, simili, ed
espressioni di una identica debolezza strutturale del potere economico in
rapporto a quello politico, i due Grandi Nemici, la cui lotta, e le cui
opposte alleanze politiche e finanziarie, condizionano da almeno un
quindicennio la storia dell’Italia pubblica: Silvio Berlusconi e Carlo De
Benedetti. Due uomini che allo strategico rapporto con la politica hanno
dovuto subito legare strettamente la sorte delle loro stesse imprese
economiche. Come prova il fatto che mai essi si sarebbero potuti sbarazzare
dei loro principali strumenti di influenza politica (Berlusconi non avrebbe
mai potuto vendere Mediaset, De Benedetti non si sarebbe mai potuto privare
del gruppo Repubblica-Espresso). La singolarità della loro storia sta nel
fatto che essi sono da sempre al centro di opposte cordate
politico-finanziarie. Se Berlusconi aveva in Bettino Craxi e nei settori
anticomunisti della Dc i sui mentori politici, De Benedetti curava alleanze
opposte e nemiche di quelle di Berlusconi. 
La storia del loro braccio di ferro li ha visti, a turno, sconfitti e
vincitori. Lo stesso ingresso di Berlusconi in politica è frutto, in larga
misura, di quella lotta mortale. Se infatti, con la rivoluzione giudiziaria
di Mani Pulite, De Benedetti, pur egli stesso colpito da iniziative
giudiziarie - andò anche in carcere per 24 ore -, segnò comunque molti
punti a proprio vantaggio (le inchieste distrussero gli alleati politici di
Berlusconi, a cominciare da Craxi, risparmiando però quelli di De
Benedetti) proprio quell’evento proiettò Berlusconi in politica. Al suo
trionfo elettorale del ’94, seguì, col ribaltone e la vittoria del
centrosinistra del ’96, la «vittoria» del suo nemico. E oggi, di nuovo, con
Berlusconi a Palazzo Chigi la sorte ha girato momentaneamente le spalle a
De Benedetti e ai suoi alleati. Di rimarchevole c’è la continuità degli
apparentamenti. Berlusconi, da politico, non ha mai rinnegato le alleanze
del tempo in cui era solo imprenditore e, anzi, proprio su quell’esercito
in rotta sotto il fuoco dell’offensiva giudiziaria ha poi costruito la sua
vincente coalizione. Ma nemmeno De Benedetti si è rivelato incostante o
infedele. Oggi, vero king-maker del centrosinistra (la sua intervista al
Corriere di sabato scorso ha il sapore di un vero e proprio manifesto
politico), grazie al suo volume di fuoco massmediologico, sostiene Romano
Prodi e i Ds. E tale alleanza altro non è se non l’erede di quel
«triangolo» anti-craxiano ( Repubblica , Partito comunista, Dc di Ciriaco
De Mita) che caratterizzò gli anni Ottanta. 
Certo, ora al governo c’è il capo di un impero economico, e questa radicale
novità segna l’attuale fase. Nel senso che esaspera, e rende più evidenti,
tendenze, e soprattutto patologie, sempre storicamente presenti nel
rapporto fra politica ed economia in Italia. Ancora all’epoca del governo
D’Alema, ad esempio, la politica pretendeva di occupare la cabina di regìa
in molte operazioni economico-finanziarie (caso Colaninno-Telecom). Con o
senza Berlusconi al governo, fin quando non avremo, se mai l’avremo,
un’economia di mercato davvero forte e competitiva, ci sarà sempre
qualcuno, seduto a Palazzo Chigi, provenga egli dai ranghi della finanza o
dell’industria o da quelli della politica di professione, che riterrà
essere compito istituzionale del governo ridisegnare in un modo o
nell’altro volto ed equilibri del capitalismo italiano. 
 
di ANGELO PANEBIANCO