finanziaria e rischi argentini



 da affari e finanza
 
 lunedi 18 Novembre 2002 
 
 
Finanziaria da campagna elettorale

MARCELLO DE CECCO

E’ stato già detto, ma vale la pena ripeterlo, che il problema finanziario
principale di questo governo sta nell’aver condotto una intera campagna
elettorale all’insegna di una cosiddetta svolta liberista: meno tasse per
tutti, meno lacci e lacciuoli per le imprese, interventi corposi e decisi
per far progredire il paese sulla via della informatizzazione, della
innovazione, e della conoscenza della lingua inglese.
Giunto nella stanza dei bottoni, il governo si è trovato a far fronte ad
una gigantesca crisi economica, politica e finanziaria globale, che ha
investito i principali paesi d’Europa con particolare violenza, in
condizioni di ridotta agibilità della politica economica tradizionale, e
con le finanze di stato impegnate dalle conseguenze di un bilancio
elettorale che il precedente governo, come tutti i governi democratici, si
era permesso di disegnare ed eseguire, dopo avere fatto tirare la cinghia
al paese per un certo numero di anni, allo scopo di portarlo fuori dalle
secche della crisi dei primi anni novanta, seguita al crollo dello SME e
della Prima Repubblica.
Il governo Berlusconi, giunto al potere, avrebbe potuto avvertire senza
ambagi il paese non solo del fatto che aveva trovato le casse vuote (e a
farlo lo aiutò il governatore Fazio), ma anche della necessità di una nuova
austerità, motivata dalla grande crisi mondiale in cui era coinvolta
l’economia italiana.
Decise invece di mantenere scenari di un futuro prossimo rosa per
l’economia del paese e, ovviamente, per l’economia mondiale. Aveva promesso
di ridurre le tasse a tutti, di mandare al macero la concertazione tra le
parti sociali, descritta come corporativa e consociativa, di intervenire
per rilanciare ricerca, scuola e innovazione, dando via libera alla privata
iniziativa. Ma aveva anche fatto trapelare le proprie intenzioni di mettere
in opera una serie di interventi di finanza straordinaria, condoni fiscali
ed edilizi, condoni valutari. Tutto questo doveva premiare l’elettorato
della Casa delle libertà, composto, presumibilmente, in gran parte di quei
famosi lavoratori autonomi, piccoli imprenditori, artigiani, professionisti
che costituiscono la differenza più marcata tra l’Italia e gli altri paesi
a reddito elevato del mondo occidentale. Questi elettori hanno una
importante caratteristica: possono, al contrario dei lavoratori dipendenti
tassati "alla fonte" , decidere quante imposte pagare. I governi
precedenti, per tutti gli anni novanta, erano riusciti a convincere questa
massa di persone e imprese a pagare una parte rispettabile delle imposte
effettivamente dovute, così come accade nel resto dell’Europa civile. Ma,
proprio per questo, la massa dei lavoratori autonomi ha premiato la parte
politica che prometteva la fine di un carico fiscale ritenuto esoso e
ingiusto. Non è da sottovalutare la differenza psicologica profonda che
esiste tra il ricevere un reddito al netto delle imposte, come accade ai
lavoratori dipendenti, e il pagare personalmente le medesime traendo il
denaro dalle proprie tasche dopo che in esse è giunto. 
Insediatosi il nuovo governo, e tendendo l’orecchio ai "rumori" dei bene
informati, che parlavano di condoni imminenti, gli elettori del Polo delle
Libertà si son dunque messi coscienziosamente all’opera per autoridursi le
imposte. Chi non lo avrebbe fatto al posto loro? Le misure effettivamente
varate dal governo, la Tremonti Bis (priva di copertura finanziaria ed
estesa ad ogni sorta di acquisti di beni mobili e immobili), la abolizione
della imposta di successione, e soprattutto il condono sui capitali
detenuti all’estero, concesso letteralmente per un piatto di lenticchie,
hanno confermato i lavoratori autonomi nel loro sciopero fiscale. Ad esso
si è aggiunta la pessima congiuntura, che ha ridotto potentemente i
profitti degli intermediari finanziari, da sempre tra i più importanti
contributori all’Irpeg, il crollo dei guadagni di capitale che ha seguito
la caduta del corso delle azioni, infine i profitti di quasi tutte le
imprese. 
Il governo si è dunque trovato di fronte ad una inaudita frana delle
entrate, che si era in buona parte autoinflitta e che in parte era il
portato dell’avversa congiuntura. Ma, fino all’estate di quest’anno, ha
mantenuto le proprie rosee previsioni congiunturali, facendo i conti su una
crescita del reddito nel 2002 e nel 2003 sempre meno credibile e in
contrasto con le previsioni di tutti gli enti che, in Italia e all’estero,
operano in questo settore. A partire dall’estate, di fronte alla
ineludibile evidenza dei fatti, il governo ha cominciato a fare marcia
indietro, ma a tutt’oggi prevede una crescita per l’anno in corso e in
particolare per il 2003, che non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Ora,
dai dati sulla crescita dipendono le previsioni delle entrate fiscali. Più
il reddito cresce, più cresce il gettito. 
Si deve ritenere che il governo creda veramente alle proprie cifre,
altrimenti non avrebbe strutturato la legge finanziaria come ha invece
fatto. La gran parte dei provvedimenti coi quali si vuol far fronte al buco
delle entrate e alla necessità di mantenere gli sgravi fiscali nei
confronti delle famiglie, infatti, ha una spiccata natura di "una tantum".
Questo vuol dire che il governo veramente spera che nel 2003 il reddito
crescerà di nuovo, addirittura del 2.3% , che il circolo redditoimposte
ridiverrà virtuoso, che non ci sarà quindi bisogno di nuovi interventi "una
tantum" come quelli appena varati.
A rendere più realistica questa interpretazione sta anche l’ultima trovata
dello stesso governo, quella di dar luogo ad una operazione di cosmesi
finanziaria che impedisca al debito pubblico (anche se ancora una volta
"una tantum") di aumentare ulteriormente, Si tratta di trasformare un
debito del governo con la Banca d’Italia, di 39 miliardi di Euro, acceso
nel 1992 per una durata trentennale per estinguere il deficit che esisteva
allora nel conto corrente di tesoreria. Lo si volle trentennale, con una
cedola simbolica dell’1%, e fu registrato al valore nominale nei conti
della nostra banca centrale. Fu un quasiregalo della banca al governo di
allora, nella paurosa crisi politicoeconomica che attanagliava il paese. Il
governo di oggi. chiede di trasformare tale debito portandolo ai valori di
mercato e aumentandone la cedola a quasi il 5%. In tal modo, il valore
capitale del debito si dimezza e impedisce al deficit di bilancio residuo
di quest’anno di far aumentare il debito pubblico italiano. Resta ancora da
sapere come si pensa, da parte governativa, di risolvere il problema di
contabilità creato alla Banca d’ Italia, che, vedendo dimezzato i valore
del proprio credito da 40 a 20 miliardi di Euro, presumibilmente non farà
utili, non li consegnerà al Tesoro e passerà dallo stato di contribuente
netto a quelle di titolare di perdita fiscale.
Ma questi sono problemi di secondo ordine, se l’economia, nel 2003, cresce
al tasso del 2.3%. Anche le altissime strida lanciate al cielo dagli
imprenditori, sui quali il governo ha fatto ricadere lo sgravio fiscale
concesso alle famiglie, si attenueranno fino a spegnersi se ripartirà il
ciclo economico mondiale tanto robustamente da permettere all’Italia di
aumentare le esportazioni del 7%, come non è accaduto in anni recenti, che
è il principale supporto sul quale si regge la credibilità del tasso di
crescita previsto dal governo. 
Non dello stesso avviso sembrano essere i governanti degli altri due grandi
paesi in difficoltà, Germania e Francia. Guidati da ideologie opposte l’una
all’altra, si incontrano tuttavia nel modo di affrontare l’attuale pessima
congiuntura mondiale, che si ripercuote pesantemente sulla crescita e sui
conti pubblici. Espongono francamente deficit di bilancio vicini o
superiori al fatidico 3% del patto di stabilità (che solo ora appare
vituperabile anche a chi insistette tanto per imporlo). Non sembrano voler
far ricorso a provvedimenti una tantum, a concordati e condoni fiscali che
essi sanno bene avere pessime conseguenze sul grado di "fiscal compliance",
sulla rettitudine fiscale persino di cittadini probi e timorati delle leggi
come sono francesi e tedeschi. Sperano, esponendo il deficit e non cercando
di mascherarlo, nell’operare pieno degli ammortizzatori automatici, che il
patto di stabilità ("stupidamente", come bene dice Prodi) anchilosava. Non
si espongono a previsioni rosee di crescita per il 2003, rinviano il
pareggio molto in là nel tempo. Come tutti i governi democratici appena
eletti, stringono per due anni, per poi fare un rilancio nei due seguenti,
per riguadagnare il favore elettorale. 
Quando piove, in altre parole, aprono l’ombrello. I nostri, invece,
sembrano voler usare un giornale ripiegato per scampare dalla pioggia,
nella speranza che questa sia solo un temporale passeggero. E se invece
dura più del previsto? Il giornale si bagna e non ripara più. E allora, via
con altri condoni fiscali ed edilizi che, se uccidono la finanza normale,
fanno tanto bene alle prospettive di un governo che, più che governare,
sembra essere perpetuamente impegnato in una interminabile campagna
elettorale. 
E, se qualche misura che non dipende dal destino si prende, essa è di
pessima qualità. Si eliminano quasi totalmente le spese per la ricerca
scientifica, si vara un decreto tagliaspese che ricorda ai più anziani la
famigerata "linea Carli Colombo", si nascondono sotto il tappeto ulteriori
tagli, imponendo agli enti locali di farli, ma non proibendo che si
indebitino ( a proprio nome, ma con la garanzia implicita dello stato) sul
mercato finanziario internazionale. Lo sfascio argentino, che si è svolto
secondo le stesse procedure, non ha dunque insegnato nulla a noi, che siamo
i fratelli di sangue degli abitanti di quel meraviglioso e sventurato paese.