il villaggio non globale



   
 
 
il manifesto - 08 Novembre 2002 
 
Il villaggio non-globale 
Finiti i controvertici (e forse anche i vertici, visto che l'ultimo G8 si è
svolto in un luogo sperduto sui monti del Canada) il movimento passa alla
definizione di un programma politico. Con una certezza, quella che nessuna
cancelleria occidentale ha le chiavi per governare la globalizzazione, e un
rischio: finire per ritenersi «gli oratori del genere umano» 
Posti i problemi, la sfida di Firenze è indicare le soluzioni. E i
cosiddetti «no global» sono i soli ad affrontare seriamente le questioni
della globalizzazione
DANIELE ARCHIBUGI
Che si sia discusso del Social Forum Europeo di Firenze come un problema
d'ordine pubblico è una di quelle tristi occasioni mancate della democrazia
italiana e europea. Nei ministeri e nei grandi media i movimenti globali
vengono ancora percepiti per gli aspetti folcloristici, ignorandone la
componente essenziale, quella politica. Ma questa difficoltà di molti
commentatori non è casuale: per quanto a volte in modi confusi, i movimenti
globali toccano un nervo scoperto della politica e delle tradizionali
istituzioni statali, le quali sentono, e a ragione, minacciato il potere
monopolistico di cui nella politica estera. Da Seattle in poi, i principali
vertici inter-governativi hanno avuto un effetto politico comune: quello di
fornire una formidabile occasione per presentare idee politiche e sociali
alternative. Il fatto, in fondo, è paradossale: per i rappresentanti dei
governi, i vertici devono essere una bella vetrina. Su tutto, padroneggia
il protocollo: si stendono i tappeti rossi, si stappano le bottiglie di
champagne, si dipingono le facciate dei palazzi e le città sono ripulite,
si fanno foto di gruppo sorridenti, rovinate solamente dalle corna fatte
dall'ultimo parvenu. Tutto ciò, sembra tramontato per sempre. I vertici,
grazie ai contro-vertici, sono diventati momenti di contenzioso tra due
visioni opposte della politica mondiale.

Non solamente a Genova, nel luglio 2001, dove il neo insediato governo
Berlusconi aveva bisogno di dimostrare che conosceva bene la legge del
manganello, ma anche nella civilissima Svezia, la reazione dei governi nei
confronti dei manifestanti è stata isterica. E viene il sospetto che il
loro timore fosse dettato dal fatto che fosse svelato il più recondito
segreto: neppure le più potenti cancellerie hanno in mano le chiavi per
governare la globalizzazione.

Arroganti commentatori si chiedono che cosa hanno conseguito i movimenti
globali se non il mettere a rischio i monumenti. Sono disinformati. I pochi
risultati utili che sono stati incassati nel panorama internazionale hanno
visto una partecipazione diretta di movimenti non istituzionali. Si prenda
l'esempio della Corte penale internazionale: tutte le lunghe tappe,
dall'approvazione dello Statuto a Roma nel 1998 fino all'apertura della
sede all'Aja, hanno visto una costante pressione di associazioni e
movimenti per i diritti umani, come documentato nel bel saggio di Marlies
Glasius pubblicato nel recentissimo Yearbook Global Civil Society (Oxford
University Press, ne ha parlato su queste pagine Federico Silva). Gli
esempi si potrebbero moltiplicare: dalla cancellazione parziale del debito
alla messa al bando delle mine anti-uomo, non c'è una singola azione che
sia stata compiuta senza campagne transnazionali condotte al di fuori dei
tradizionali canali di partecipazione politica. Non si vuole certo
suggerire un facile ottimismo, perché è evidente che sono molto più
numerosi i casi in cui i movimenti globali non sono (ancora?) riusciti ad
ottenere risultati tangibili (basti pensare alla riforma dell'Onu e degli
organismi economici internazionali).

Ma per troppo tempo i governi degli stati democratici, quelli che dominano
il mondo nella nostra epoca, hanno potuto prendere decisioni sulla politica
internazionale distanti da un effettivo controllo dell'opinione pubblica.
Trincerati dietro la segretezza diplomatica, l'asserita natura tecnica
delle questioni internazionali e la ragion di stato, hanno agito seguendo
le regole ottuse delle proprie amministrazioni, spesso comandate a
bacchetta da lobby più o meno potenti (quella delle armi da fuoco, del
tabacco, degli agricoltori, delle imprese farmaceutiche e così via). Solo
puntuali campagne di contro-informazione sono riuscite ad impedire in altri
casi che i governi riuscissero a far trangugiare insensate decisioni ai
propri elettori.

Il vertice del G8 del 2002 si è svolto in una località dimenticata da dio e
dagli uomini nelle montagne ghiacciate canadesi, a dimostrazione che
finalmente i governi hanno ingozzato almeno metà della lezione impartita
dai movimenti. Si può a questo punto sperare che apprendano rapidamente
anche l'altra metà e che la smettano definitivamente di organizzare i
vertici del G8. Sprovvisti di una carta, senza contraddittorio né
deliberazioni pubbliche, con stati che rappresentano poco più del 10 per
cento della popolazione del pianeta, è impossibile ritenere il G8
un'istituzione democratica.

Ma la riunione di Firenze, non meno dei due Forum sociali di Porto Alegre
del 2001 e del 2002, è anche espressione di un fondamentale salto di
qualità dei movimenti globali: non si svolgono più alla presenza di un
"vertice" convocato da qualche organizzazione inter-governativa, bensì si
sono dati un'agenda e obiettivi politici autonomi. Dalla prima fase della
protesta e della testimonianza, i movimenti sociali stanno ora tentando di
passare alla definizione di un proprio programma politico. In questa fase,
devono tenere presenti alcuni passaggi fondamentali.

Prima di tutto, devono rifuggire dall'accreditare l'immagine stereotipata
che hanno ottenuto dai principali organi d'informazione, a cominciare dalla
pessima etichetta "No global". Questi movimenti sono, al contrario, gli
unici che affrontano seriamente i problemi posti dalla globalizzazione: le
associazioni hanno obiettivi politici e sociali che travalicano le
frontiere degli stati, siano essi i diritti umani, la distribuzione del
reddito, il commercio equo. I problemi che mettono in luce quasi mai
possono trovare risoluzione - se non in un ambiente regressivo -
all'interno dei singoli stati. Le stesse persone che partecipano a questi
movimenti sono i figli privilegiati della società globale: conoscono le
lingue, hanno accesso alla cultura, utilizzano Internet, viaggiano. Per
evitare che la globalizzazione trasformi il pianeta in una nuova giungla di
protervia, sono necessari proprio questi strumenti. Come suggerito nel
titolo di un libro di Mario Pianta, i movimenti offrono una globalizzazione
dal basso, ossia controllata al fine di mettere le enormi potenzialità
economiche, scientifiche e tecnologiche della nostra era al servizio degli
individui, dei paesi e delle regioni che finora ne hanno ricevuto
soprattutto i costi.

Ma tutto ciò è sufficiente per sostenere le ragioni dei movimenti globali?
No, non basta. Occorre anche una strategia politica non episodica. Quando i
coloni americani, più di due secoli fa, intendevano emanciparsi dalla
dominazione inglese, coniarono lo slogan "No taxation without
representation" (no alla tassazione senza rappresentanza politica). Oggi i
movimenti globali dovrebbero parafrasare questo detto: "No globalisation
without representation". Governare la globalizzazione richiede, infatti,
l'apertura di canali istituzionali che possano dar voce ai legittimi
interessati e, in via provvisoria, a coloro che si fanno carico di
rappresentarli.

Qui non bisogna negare alcune contraddizioni: a Genova, i manifestanti
opponevano ai governi lo slogan "Voi G8, noi 6 miliardi". Ma per i governi
non era difficile rispondere chiedendo secondo quale processo deliberativo
i movimenti globali avevano ricevuto l'incarico di rappresentare tutta la
popolazione del mondo. Bisogna rifuggire dalla tentazione di auto-nominarsi
"oratori del genere umano", per riprendere il termine del bislacco
giacobino Anacharsis Cloots. Il vero successo di un movimento è riuscire a
tradursi in istituzione, lasciando da ultimo spazio a movimenti che
perorano più avanzate istanze.

E' indicativo che il vastissimo programma di dibattiti programmati a
Firenze ha messo insieme testimonianze sociali significative con competenze
tecniche specifiche (economiche, giuridiche, addirittura mediche e
ingegneristiche). La sfida di Firenze è non solo porre i problemi (inclusi
quelli spesso ignorati), ma anche di proporre soluzioni. Sia chiaro, le
soluzioni sono spesso difficili da trovare, le opinioni possono divergere,
ed è un elemento di ricchezza se le differenti opinioni fossero
evidenziate, piuttosto che nascoste o camuffate. Basterebbero pochi punti
di convergenza su obiettivi discreti e raggiungibili, fornire coloro che
siedono nelle stanze con i bottoni, per decretare il successo dell'iniziativa.

Da Firenze uscirà anche una radiografia dello stato della democrazia in
Europa. Come mai, verrà spontaneo chiedersi, su tanti aspetti specifici,
una nebulosa di movimenti hanno costituito un'agenda sui problemi del
pianeta e del continente assai più vicina alla percezione dell'uomo della
strada di quanto accada per i parlamenti eletti di mezz'Europa, che pure
dispongono di risorse infinitamente più ingenti? Molti ne ricaveranno
un'ulteriore prova della crisi della democrazia rappresentativa. O più
semplicemente, dell'arroccamento dei parlamenti nazionali su questioni
esclusivamente parrocchiali. Ma speriamo che, questa volta, qualche
parlamento sappia ameno aprire le orecchie.