l'oro nero e la guerra



     
 
il manifesto - 10 Ottobre 2002 
 
L'oro nero bagna la guerra 
Si avvicina la fine dell'era del greggio abbondante e basso costo. Questo
annunciava, nel 2001, un rapporto «politico» delle lobby del petrolio, di
cui fa parte anche il vicepresidente Cheney. E suggeriva, evidentemente
ascoltato, l'uso dell'intervento militare per garantire gli
approvvigionamenti agli Stati uniti
RITT GOLDSTEIN
Un rapporto dell'inizio del 2001, predisposto congiuntamente dal potente
Council on Foreign Relations (Cfr) e dal James A. Baker Institute for
Public Policy (Jbipp), metteva in luce il fatto che gli Usa stanno per
finire il petrolio, prospettando anche l'eventuale «necessità
dell'intervento militare» per garantire gli approvvigionamenti petroliferi.
Il Rapporto, un documento politico che formulava alcune proposte per la
strategia dell'amministrazione Bush in campo energetico, plaudiva anche
alla creazione, da parte di Dick Cheney, di una task force sull'energia con
lo scopo di mettere a punto specifici piani energetici, e suggeriva di
considerare la possibilità di includervi una «rappresentanza del
Dipartimento della Difesa». Intitolato «Strategic Energy Policy Challanges
for the 21st Century», il Rapporto congiunto paventa la fine del greggio
abbondante e a basso prezzo. L'industria dell'energia comincerebbe ad avere
scorte limitate. Il Rapporto sollecita l'amministrazione Bush a rivelare
«queste dolorose verità al popolo americano».

Alcune informazioni sugli autori del Rapporto. Il Council on Foreign
Relations è uno dei gruppi più potenti tra quelli che influenzano la
politica americana. C'è chi sostiene che sia il più potente. Tra i suoi
membri vi sono numerosi esponenti del governo attuale e di governi
precedenti oltre ad alcuni dei più potenti uomini d'affari sul pianeta, tra
cui: Zbigniew Brzezinski, Frank C. Carlucci (presidente del gruppo
Carlyle), Jimmy Carter, Richard B. Cheney (vice presidente Usa), Henry A.
Kissinger, Richard N. Perle, Brent Scowcroft e molti altri. Per quanto
riguarda il James A. Baker III Institute for Public Policy della Rice
University, la sua influenza politica è di natura simile.

Affermando che «non c'è alternativa. E non c'è tempo da perdere», il loro
documento prospetta in futuro l'esplosione dei prezzi dell'energia, la
recessione economica e scontri sociali negli Usa, a meno che non si trovino
le risposte. Sottolineando l'urgenza delle attuali circostanze, il rapporto
prospetta un periodo di almeno tre-cinque anni per creare le infrastrutture
necessarie a rispondere al fabbisogno energetico dell'America con, in
alcuni casi, tempi ancora più lunghi. Il documento chiede «il ripensamento
del ruolo dell'approvvigionamento energetico nella politica estera
americana». L'accesso al petrolio viene citato ripetutamente come un
«imperativo per la sicurezza».

Il Rapporto fa anche saltare il mito, molto diffuso, secondo cui gli Usa
sarebbero in qualche modo al riparo dai problemi di approvvigionamento
petrolifero dal Medio Oriente, perché l'America riceverebbe la maggior
parte del petrolio da fonti meno instabili, fuori del Golfo Persico.
Secondo il Rapporto, «la natura globale del commercio e del prezzo del
petrolio significa che importa poco se il petrolio del Golfo arriva in Asia
o negli Usa. I trend mediorientali nella definizione del prezzo e negli
approvvigionamenti influenzerà comunque i costi energetici in tutto il globo».

Il Rapporto rivela in modo esplicito e dettagliato sia una motivazione
alternativa per la guerra al terrorismo americana, sia la motivazione
apparente per molta parte dell'attuale politica estera dell'amministrazione
Bush, la sua cosiddetta oil agenda. Sono state presentate iniziative per
migliorare gli approvvigionamenti petroliferi dal Venezuela, dalla
Colombia, dall'Africa occidentale, dal Caspio e dall'Indonesia.
L'amministrazione ha affrontato attivamente la questione petrolifera con
ciascuno di essi, e Colin Powell è recentemente tornato da due paesi
africani produttori di petrolio. Uno dei «passi immediati» che il Rapporto
chiede è di verificare se si possa modificare la politica Usa in modo da
velocizzare la disponibilità di «petrolio dalla regione del bacino del
Caspio». Questo confermerebbe vecchie accuse secondo le quali le questioni
energetiche farebbero ombra all'agenda americana sull'Afghanistan.

Per gli autori francesi Jean-Charles Brisard e Guillame Dasquie, gli
interessi petroliferi americani hanno convinto l'amministrazione Bush a
bloccare le indagini sul terrorismo e a negoziare con i Taleban, come
risulta da un resoconto del 15 novembre 2001 dell'Inter Press Service
(Ips). L'obiettivo Usa, ripetutamente citato, era la costruzione di
oleodotti e gasdotti trans-afghani che avrebbero dovuto permettere
l'accesso al petrolio e al gas del Mar Caspio. Secondo gli autori, e anche
secondo un articolo del gennaio 2002 apparso su Le Monde Diplomatique, i
tentativi Usa di comprare e poi di minacciare i Taleban avevano preceduto
l'11 settembre. L'articolo Ips cita gli autori francesi e riferisce che, di
fronte al rifiuto dei Taliban di collaborare, «la giustificazione della
sicurezza energetica è diventata una giustificazione al ricorso alla forza
militare», in linea con quella che il rapporto presentava come una opzione
valida.

Una nota a margine alla questione delle minacce militari Usa è offerta dal
Gao (General Accounting Office), organismo investigativo del Congresso Usa.
Questo ha fatto causa al vice presidente Dick Cheney per ottenere
informazioni dettagliate sui meeting tenuti dalla task force sull'energia.
I gruppi ambientalisti hanno speculato che si sta combattendo la causa, la
prima in 81 anni di storia del Gao, per nascondere il livello di
coinvolgimento della Enron nella task force. Tuttavia questo Rapporto
solleva ulteriori preoccupazioni: se, dando seguito alle raccomandazioni
del Rapporto, il Dipartimento della Difesa abbia partecipato davvero alla
task force di Dick Cheney sull'energia, di cosa si sia discusso, con chi, e
quando. Questi sono interrogativi che dovranno avere una risposta.

Per quanto riguarda la colpa per la crisi attuale essa viene attribuita,
sia pure con riluttanza, alla deregulation dei mercati energetici, e si
parla anche della mancanza di una ampia politica energetica Usa e del fatto
che non siano state adottate misure di conservazione e di diversificazione
dell'energia. Secondo il Rapporto, con la deregulation, le compagnie hanno
evitato l'alto costo rappresentato da una sovracapacità produttiva
nell'industria petrolifera, optando invece per un profitto aggiuntivo. Di
conseguenza, la sovracapacità dell'industria petrolifera nel mondo è scesa
da circa l'8% di domanda globale nel 1990 a «un trascurabile 2% di domanda
globale». Una sfida petrolifera del Medio Oriente alla politica estera Usa
appare come il peggiore incubo della task force.

La maggior parte della attuale capacità produttiva di riserva, dice il
Rapporto, «si trova in Arabia Saudita», più una parte aggiuntiva negli
Emirati Arabi Uniti. Questo rende l'America sempre più vulnerabile, mentre
è in aumento la percentuale mondiale di petrolio proveniente dal Medio
Oriente.

Nel Rapporto si nota anche che una interruzione nell'oleodotto dell'Alaska
«avrebbe lo stesso impatto di una rivoluzione che tagli le forniture da un
importante produttore di petrolio mediorientale». Il Rapporto paragonava
l'attuale situazione energetica Usa a una automobile che viaggi a 140 km
orari con un ammortizzatore rotto: una situazione buona finché tutto fila
liscio, fatale se si incontra una strada accidentata.

Focalizzandosi sulle attuali limitazioni di forniture petrolifere e le
gravi ripercussioni che si verificherebbero se queste venissero meno, non
sorprende che il documento esprima ripetutamente preoccupazioni sulla
dipendenza dal petrolio mediorientale, esprimendo le incertezze generate
dalla «pressione interna» cui sono attualmente soggetti gli stati del
Golfo, con riferimento a un «anti-americanismo» nella regione. Per
affrontare queste questioni vengono sollecitate anche alternative
diplomatiche, considerate in grado di offrire all'amministrazione delle
opzioni in campo politica, ma a partire dall'11 settembre la politica
sembra in sintonia solo con l'opzione, citata nel rapporto,
dell'«intervento militare». Le idee presentate, riguardanti un
alleggerimento del conflitto arabo-israeliano, l'ammorbidimento delle
sanzioni contro l'Iraq e la «riduzione delle restrizioni sugli investimenti
petroliferi all'interno dell'Iraq» restano di segno opposto rispetto alla
politica attuata da Bush. Si potrebbe dire per analogia che è stata offerta
la scelta tra un guanto di velluto e un pugno d'acciaio. Bush usa il secondo.

L'importanza dell'Iraq come paese produttore di petrolio è menzionata
ripetutamente, così come il bisogno di estendere la produzione irachena nel
più breve tempo possibile per andare incontro alle previste carenze nelle
scorte, carenze che nel breve termine possono essere evitate solo
attraverso una maggiore produzione o conservazione. In sostanza, il
Rapporto vede la politica del Golfo Persico come una minaccia significativa
e come un ostacolo a maggiori approvvigionamenti energetici.

Implicito nelle preoccupazioni che «gli alleati del Golfo stanno giudicando
i loro interessi in politica interna ed estera sempre più in contrasto con
le considerazioni strategiche degli Stati uniti», e che «appare evidente
che gli investimenti non si stanno facendo in modo abbastanza tempestivo»
per andare incontro ai bisogni globali, c'è il presupposto di quella che è
ora diventata una posizione quasi apertamente accusatoria. L'ovvia
implicazione è che se gli Usa dovessero improvvisamente ottenere un
controllo saldo dei siti petroliferi mediorientali, le compagnie
petrolifere americane potrebbero effettuare gli investimenti necessari a
estendere le ricerche e la produzione. Questo eviterebbe temporaneamente la
fine del greggio a basso prezzo e alla portata.

Quest'estate, resoconti giornalistici hanno cominciato a dipingere l'Arabia
Saudita come un possibile bersaglio dell'anti-terrorismo. Anche la retorica
sull'Iraq è stata costantemente alimentata prima con una accusa, poi con
un'altra, creando quasi una situazione da «accusa del giorno». Gli addetti
alla difesa nazionale Usa sono stati a guardare mente l'Iraq diventava il
«perno strategico», e si è discusso sempre di più con un'agenda basata
sulla formula: «non solo un nuovo regime in Iraq» ma un «nuovo Medio
Oriente». Condoleezza Rice e Dick Cheney presentano entrambi questo
scenario come una rivoluzione democratica in Medio Oriente, ma
preoccupazioni su pressioni interne da parte delle popolazioni di questi
paesi sembrerebbero contraddirli.

Altre posizioni tra cui quella di Mo Mowlam, ex ministra del governo Blair,
vedono un'invasione dell'Iraq come destabilizzante per la regione. Il caos
che con ogni probabilità ne seguirebbe fornirebbe il necessario pretesto
per una efficace occupazione Usa degli impianti petroliferi del Medio
Oriente. Ma l'invasione in Afghanistan non ha ancora portato a quegli
oleodotti e a quei gasdotti considerati tanto importanti, e mentre il
presidente afghano si fa proteggere dai soldati americani, nel Rapporto si
sostiene ripetutamente che la sola cosa sicura che sta andando avanti è ciò
che è stato chiamato «Il Nuovo Grande Gioco», la lotta per l'impero.