l'auto al tramonto



     
 
il manifesto - 16 Ottobre 2002 
 
Non solo Fiat. E' l'auto che tramonta 
La mobilità urbana di massa è una conquista d'inizio secolo. E' dopo gli
anni '50 che l'auto privata diventa la soluzione privilegiata, sostenuta e
incentivata dai governi. Così troppe auto hanno intasato le strade, hanno
influenzato urbanistica e cultura, costumi e consumi. Nascondendo un fatto
semplicissimo: che nell'era di internet la domanda di mobilità dovrebbe
declinare
GUIDO VIALE
Quello che manca nell'attuale dibattito sulla crisi della Fiat è un
approccio storico al fenomeno auto, che non è una realtà eterna, ma ha
avuto un inizio e può avere - o sta avendo - una fine. Cento anni fa
l'invenzione del motore a combustione interna (propulsore e combustibile di
peso e dimensioni ridotte, tali da poter essere montati sullo chassis di
una carrozza, cosa impossibile con la macchina a vapore) ha dato l'avvio
alla progressiva sostituzione dei cavalli, dei carri e delle carrozze con i
veicoli motorizzati nei percorsi urbani e in quelli extraurbani secondari
(cioè non serviti dalla ferrovia). Questo processo si è sviluppato nel
corso di trenta anni negli Stati Uniti, di cinquanta in Europa, e di cento
nel resto del mondo (tanto che in alcuni di questi paesi è ancora in
corso). I vantaggi erano indubbi: le automobili non sporcano la strada e
richiedono meno manutenzione e sono più veloci di un essere vivente. Prima
dell'auto c'erano già tecnologia, mestiere - cioè professionalità - e una
quota non irrilevante di business e di occupazione anche nella costruzione
di carri e carrozze, tanto che la nascente industria automobilistica era
partita appropriandosi di alcune innovazioni sviluppate in quel campo:
telai, balestre, soffietti, ecc. Ma nessuno, mano a mano che l'automobile
si faceva strada, innanzitutto nel trasporto urbano di lusso e di merci e
nella mobilità rurale, ha mai pensato di sostenere il traino animale con
incentivi e politiche ad hoc.

La conquista del settore della mobilità urbana di massa, e non solo più di
élite, da parte dell'auto negli Stati Uniti - anni `20 e `30 - è invece
un'altra storia. A quell'epoca il trasporto pubblico di massa si era già
diffuso grazie a tram e metropolitane che viaggiavano su rotaie e
sfruttavano la propulsione elettrica, due soluzioni che hanno entrambe
bisogno di un tracciato fisso. Per scalzarle a favore delle motorizzazione
privata, la grande industria statunitense dell'automobile aveva comprato a
una a una le società private - o, più spesso, municipali - che gestivano il
trasporto pubblico locale e poi le aveva chiuse. Chi voleva muoversi doveva
comprarsi un'auto. In Italia lo smantellamento dei binari dei tram è
continuato fino alla fine degli anni `70. Poi ci si è accorti che era un
errore.

L'auto come veicolo pressoché esclusivo della mobilità interurbana è stata
invece imposta negli anni `50 con un la costruzione di una rete nazionale
di autostrade, ricalcata su quella costruita in Germania negli anni `30,
che sono rimaste i modelli insuperati di tutti i successivi programmi di
lavori pubblici (governo Berlusconi e legge-obiettivo compresi) a livello
mondiale.

Con l'imposizione dell'auto come soluzione privilegiata di mobilità, si
sono andate affermando anche le principali caratteristiche dell'epoca in
cui viviamo: individualismo (e solitudine): l'importante è potersi spostare
quando, dove e con chi si vuole e per il resto si sta chiusi in casa, in
ufficio o in fabbrica, dato che strade, piazze, giardini, marciapiedi e
cortili sono stati sottratti agli umani per consegnarli alle auto;
consumismo: nonostante tutte le innovazioni, l'auto resta l'archetipo
incontrastato dei consumi nelle società «opulente» (a cui si sacrifica
spesso la parte più rilevante del proprio reddito), e la principale
aspirazione in tutte quelle che non lo sono; sprawl urbano, cioè «città
diffusa»: le città hanno cessato di addensarsi intorno agli edifici che ne
esprimevano le funzioni fondamentali, o di allinearsi lungo gli assi
radiali definiti dai tracciati del trasporto pubblico (tram e
metropolitane) per sparpagliarsi - insieme al sistema industriale (i famosi
distretti) su tutto il territorio, azzerando la storica differenza tra
campagna e città.

Tra i lasciti dell'auto alla nostra epoca ci sono anche i cambiamenti
climatici (i trasporti - in gran parte su gomma - sono responsabili del 40
per cento circa dell'effetto serra) e, da ultimo, le guerre: quella del
Golfo, quella in Afganistan (pianificata ben prima dell'11 settembre),
quella in Cecenia e la prossima ventura in Iraq - ma anche gran parte del
conflitto arabo israeliano, per lo meno dal 1973 - non hanno altra ragione
che la sete di petrolio del parco-macchine dell'Occidente.



La schizofrenia

L'auto ha stravinto, ma è da tempo soffocata dal suo stesso successo:
continua a invadere tutto il territorio disponibile, ma ogni auto in più
non fa che sottrarre «spazio vitale» a tutte le altre; scarica impunemente
in propri miasmi in atmosfera, ma il cielo, che per gli antichi era una
sfera di cristallo e da Copernico in poi uno spazio infinito, si è
dimostrato incapace di contenerli tutti. Inoltre l'auto non offre più
niente di quello che aveva promesso: la libertà di andare dove si vuole si
è trasformata nella clausura dell'imbottigliamento; la libertà di partire
quando si vuole nella rigida programmazione degli spostamenti per evitare
le ore di punta; l'indipendenza dai tracciati rigidi del trasporto pubblico
nella costrizione dei sensi unici, delle zone vietate o a traffico
limitato, nei percorsi che si avvitano su se stessi per scoraggiare
l'afflusso; la produttività garantita dalla velocità, nella lentezza della
regolamentazione semaforica, delle code, della quotidiana ricerca di varchi
e di parcheggi.

Il fatto è che la modalità di trasporto fondata sull'automobile richiede
che ciascuno abbia sempre e ovunque un'auto a propria disposizione e la
soluzione adottata per raggiungere questo obiettivo è consistita
nell'obbligare ciascuno di noi - di quelli di noi che possono permetterselo
- a comprarne una. Con la conseguenza che tutte quelle auto non stanno più
negli spazi a loro disposizione; e non ci staranno più per quanti sforzi
facciamo per accrescerli, anche a spese del paesaggio, del retaggio
monumentale, degli equilibri ambientali, della socialità, della salute. E
ci staranno ancora meno se il modello di mobilità occidentale (un'auto ogni
due persone) si diffondesse in tutto il resto del mondo, che è la strategia
oggi perseguita da tutte le case automobilistiche, Fiat compresa.

Questa strategia, in cui tutti noi siamo coinvolti dai nostri comportamenti
quotidiani, ha le caratteristiche una corsa di lemmings verso il suicidio
collettivo. C'è un parallelismo stretto tra l'ostinazione con cui tutte le
mattine ci «mettiamo in macchina» per andare incontro a un sicuro ingorgo,
da cui non sappiamo neanche se usciremo in tempo - perché questo è l'unico
modo che conosciamo o abbiamo a disposizione per spostarci - e
l'ostinazione con cui le case automobilistiche continuano a riproporre
tutti gli anni lo stesso prodotto (con varianti sempre più insignificanti)
perché è diventato una droga per l'economia e nessuno sa proporre un'altra
strada per sostenere occupazione e sviluppo. Queste due pazzie sono
accomunate da una terza: l'ostinazione con cui continuiamo ad accrescere
con i nostri comportamenti l'effetto serra, nonostante che sia ormai chiaro
a tutti che ciò si sta trasformando sotto i nostri occhi in una catastrofe.

E' difficile pensare che tutto ciò dipenda solo dalla mancanza di una
politica industriale - o da una errata politica industriale - del governo,
dopo che per decenni nell'industria automobilistica e in quelle connesse
del petrolio, dei pneumatici e dell'asfalto è stato pompato il meglio delle
risorse del paese: non solo dalla parte dell'offerta, con regalie di ogni
genere ai produttori, ma sempre più, mano a mano che queste non bastavano
più, anche dalla parte della domanda, incentivando il consumatore a
cambiare auto o a comprarne una in più.

La crisi attuale dipende proprio dalle politiche industriali che sono state
messe in atto in passato, con un crescendo continuo mano a mano che ci
avviciniamo ai giorni nostri: e non solo in Italia, ma in tutto il mondo,
come ci fa notare anche Marcello De Cecco su la Repubblica di domenica 13
ottobre, puntando il dito sugli incentivi «privati» (finanziamento delle
vendite a rate a tassi irrisori) con cui l'industria auto di tutto il mondo
è stata sostenuta nel corso degli ultimi anni. Se in Italia i nodi sono
arrivati al pettine prima che in altri paesi industriali, è stupido
attribuirne la causa alla stupidità della dirigenza Fiat, che non avrebbe
investito abbastanza in «nuovi modelli».

Viene da dire: meno male che non lo ha fatto, gettando nel pozzo senza
fondo di una causa persa una quantità doppia di risorse, che in una maniera
o nell'altra avrebbero dovuto essere fornite dallo stato, o che sarebbero
comunque state sottratte ad altre destinazioni. C'è qualcuno che pensa
davvero che la Fiat avrebbe potuto evitare di incappare nelle maglie della
crisi che l'industria automobilistica attraversa a livello mondiale con
modelli più «seducenti», un po' più di elettronica costipata sotto il
cruscotto, un motore un po' più pulito - in attesa dell'idrogeno: cioè
Aspettando Godot - o magari un'alleanza più stretta con un colosso
multinazionale? D'altronde quella c'è già; ma c'è da piangere a pensare che
qualcuno aspetta di là una soluzione alla crisi.

La crisi è arrivata in Italia prima che altrove perché in Italia sono
arrivati prima al pettine i nodi della saturazione del mercato:
innanzitutto il backlash, cioè il contraccolpo, degli incentivi espliciti o
nascosti forniti alla Fiat dalle politiche economiche (protezionismo,
autostrade, contributi a fondo perduto, incentivi alla rottamazione,
credito a go-go); tanto che i padroni della Fiat hanno potuto costruirsi un
impero finanziario in altri settori, anche se che l'automobile è l'unico
settore industriale rimasto al paese. Ma era l'unico anche in passato,
perché siderurgia, costruzioni, macchine utensili, gomma, e persino
l'informatica, finché avevano un peso, non ne erano che appendici e avevano
nell'industria automobilistica il loro home bread market. Poi i problemi
connessi alla densità automobilistica d'Italia, la più alta del mondo sulla
base sia dei veicoli per abitante, che dei veicoli per chilometro di strada
- e le strade non sono certo poche. Infine, i problemi connessi
all'incidenza dell'automobile sui consumi privati e sulla spesa pubblica,
se ci fossero statistiche affidabili.

Ma, soprattutto, in Italia è arrivata al suo culmine la schizofrenia delle
politiche pubbliche sull'auto: da una lato una promozione senza ritegno
delle vendite - con tutte le salmerie al loro servizio: pubblicità e
spettacolo, ma anche urbanistica, analisi sociale, educazione, critica del
costume, ecc. - accompagnate, per non «irritare» l'automobilista-elettore,
dal lassismo più bieco nell'osservanza delle regole: sicurezza, sosta e
parcheggio, rumore, velocità, standard di produzione, gestione della
rottamazione e del recupero, tutela dei centri storici e del paesaggio, ecc.

Dall'altro una politica sempre più improvvisata, raccogliticcia, priva di
respiro, per far fronte alle emergenze che l'invadenza dell'auto sta
accumulando a ritmi sempre più rapidi: targhe alterne, Ztl (Zone a Traffico
Limitato) improvvisate e prive di controlli, blocchi del traffico e della
distribuzione delle merci, regolamentazione del parcheggio senza
programmazione, miliardi spesi per far posto, sottoterra, a poche centinaia
di auto, quando quelle che bisognerebbe togliere dalla strada sono
centinaia di migliaia. Non parliamo dei sottopassi e cavalcavia urbani che
devastano interi quartieri nella speranza di sciogliere ingorghi che
improvvisamente - se e quando l'opera viene conclusa - si riformano uguali
a poche centinaia di metri di distanza. Qualcuno si è mai chiesto quanto
possono essere affidabili amministrazioni che si imbarcano in politiche del
genere? E quanto ha pesato l'impasse generata da questa crisi epocale
dell'auto - l'incapacità di trovare una qualunque soluzione praticabile ai
problemi del traffico - sulla credibilità di politici ridotti al ruolo del

Il grande vigile urbano

Questa «strategia» - una vera e propria non-scelta - ha impedito finora
alla maggior parte di noi di vedere (come ne La lettera rubata di Poe) ciò
che invece è macroscopicamente davanti ai nostri occhi: e cioè che da
almeno dieci anni ha fatto il suo ingresso nel mondo una nuova tecnologia
che rende il possesso dell'auto individuale obsoleto e superfluo, com'erano
diventati obsoleti e superflui carri e carrozze mano a mano che progrediva
la tecnologia del motore a scoppio e tutti gli sforzi per tenere in vita un
sistema così antiquato sono condannati alla sconfitta, come lo era il
sistema del traino animale. Questa tecnologia, inutile dirlo, perché in
realtà lo sappiamo tutti, e l'interconnessione in rete wireless, senza
fili.1. segue