quando il welfare produce consenso



     
    il manifesto - 25 Settembre 2002 
 
IL MODELLO SVEDESE
Quando il welfare produce consenso
Un voto utile Il risultato elettorale di Stoccolma smentisce i luoghi
comuni dei centrosinistra europei sui poteri miracolistici del mercato e
sulle «obbligatorie» convergenze al centro
LUIGI CAVALLARO
Non solo dalla Germania arrivano lezioni per la sinistra nostrana. Se è
vero (lo ricordava ieri Luciana Castellina) che l'affermazione di Schröder
richiama tutti noi sulla possibilità di vincere senza prima immolarci
sull'altare del Patto di stabilità, o rinunziare a valori come il paficismo
e l'ecologismo (per non parlare di un'attenta politica industriale ed
energetica), la recente vittoria dei socialdemocratici in Svezia
costituisce un interessante banco di prova per testare un altro assunto
largamente corrente presso l'intellettualità nostrana: per reggere il
confronto con la globalizzazione, il nostro welfare state dovrebbe essere
ridimensionato a vantaggio dell'iniziativa privata. In Svezia, infatti, le
sinistre hanno vinto non perché promettessero di «riformare» il welfare, ma
- al contrario - perché hanno insistito sul suo mantenimento e ampliamento.
E benché le ragioni per cui in Svezia appare essersi concretizzata quella
«quadratura del cerchio» che, in altre parti d'Europa, sembra invece
irraggiungibile, siano da ricercare nell'evoluzione che il regime di
welfare svedese ha subito negli ultimi trent'anni, provare a metterle a
fuoco può assumere il valore di un concreto suggerimento di politica
economica. Come emerge nitidamente nei lavori di G¢sta Esping-Andersen, le
peculiarità del modello scandinavo di «Stato del benessere» non sono tanto
da ricercare nel carattere universale delle provvidenze erogate
(dall'istruzione alla sanità, alle pensioni, concesse a tutti i cittadini e
non solo a coloro che certificano un qualche stato di indigenza), né in una
loro particolare «generosità» (basti pensare alle pensioni di cui godono i
dipendenti pubblici in certi regimi «continentali»: Francia, Germania e
Italia), quanto piuttosto nel fatto che, venuto a crisi quel particolare
regime d'accumulazione che fu il fordismo, dunque venuto a crisi un modello
occupazionale basato sul lavoro maschile standardizzato e a tempo
indeterminato, sul quale era (ed è tuttora) costruito il sistema delle
protezioni sociali della stragrande maggioranza dei paesi occidentali, il
welfare scandinavo ha cominciato ad aggiungere (aggiungere, si badi, non
sostituire) alle misure già esistenti un'enorme quantità di servizi sociali
a favore delle donne occupate. In primo luogo per garantire l'assistenza ai
bambini (grazie ad una rete straordinaria di asili-nido, tale per cui una
famiglia svedese sopporta circa un terzo del costo che una famiglia
italiana deve fronteggiare per fruire di un servizio analogo, che incide
qui da noi per circa il 40% del reddito familiare medio) e, in secondo
luogo, per assicurare l'assistenza agli anziani.

Si è trattato di una politica a favore della famiglia, ma in un senso molto
diverso dalla tradizionale accezione conservatrice, specie nei paesi con
forte presenza della cultura cattolica. Mentre in questi ultimi una
politica «a favore della famiglia» si identifica spesso in un insieme di
trasferimenti in denaro che possano distogliere la donna dall'offrire il
proprio lavoro sul mercato, la politica svedese ha mirato piuttosto ad
alleggerire la donna dai carichi di cura della famiglia, diminuendo il
grado della sua dipendenza dai vincoli di reciprocità che si instaurano al
suo interno; è stata, cioè, una politica «women-friendly» e non una
riproposizione di familismi stantii quanto oppressivi.

I risultati non si sono fatti attendere. Il primo è stato la fortissima
espansione dell'occupazione pubblica, oggi a circa il 30% del totale della
forza-lavoro occupata, il doppio della media Ocse. In Svezia, infatti,
l'offerta di servizi di cura e riproduzione, notoriamente ad alta intensità
di lavoro, è stata essenzialmente gestita dallo Stato in proprio e non per
delega al «terzo settore», sicché la «terziarizzazione» dell'economia è
coincisa con l'estensione del welfare state, invece che con il suo
ridimensionamento. Un secondo risultato è stato il mantenimento di un
elevato tasso di natalità (2,1 figli per donna, contro l'1,3 circa delle
cattolicissime Spagna e Italia). Evidentemente fiduciose nella rete
pubblica di assistenza, le donne svedesi non hanno rinunciato ai piaceri
della maternità - non hanno dovuto vivere, come le loro sorelle italiane o
spagnole, lo spiacevole trade-off fra occupazione e cura della famiglia.

Il terzo risultato è stato l'innalzamento del tasso di occupazione (nei
paesi scandinavi si attesta fra il 75 e l'80%, contro una media del 50-60%
nell'Europa continentale), che - con il mantenimento di un tasso di
fecondità di poco inferiore agli anni `50 e `60 (quelli del baby-boom, per
intenderci) - ha posto le pensioni svedesi al riparo dalla mannaia dei
mercati finanziari. E un quarto risultato, coerente coi primi tre, è stato
un mercato del lavoro caratterizzato da un elevatissimo livello di
eguaglianza salariale (del resto, circa l'80% della forza-lavoro è iscritta
ai sindacati, il che permette una centralizzazione delle contrattazioni
salariali che è premessa indefettibile affinché l'obiettivo della stabilità
dei prezzi venga sottratto alle ossessioni deflazionistiche delle autorità
monetarie) e da un consistente grado di flessibilità. Del resto, perché
meravigliarsi? Non è che i lavoratori siano «rigidi» per natura o
maledizione. Lo diventano se debbono fronteggiare una situazione in cui il
loro salario è l'unica fonte di reddito e il loro reddito è l'unico modo
per accedere ai servizi di cura e riproduzione.

Tutto ha un costo: il prelievo fiscale svedese è elevatissimo, circa il 58%
del pil. Ma l'esperienza scandinava consente di avvalorare un'importante
intuizione del Nobel James Buchanan, tra i maggiori teorici di economia
della finanza pubblica, senza per ciò stesso sposarne le tesi
ultraliberiste: indipendentemente dalla distribuzione effettiva dei carichi
fiscali e dei benefici, ciò che conta è come la distribuzione viene
percepita. E la «percezione fiscale» muta, ovviamente, a seconda
dell'impiego che lo stato fa delle risorse: a seconda di cosa, come produce
e per chi. Non è un caso che gli atteggiamenti di «rivolta fiscale» si sono
sempre accompagnati a precise richieste di allargamento della spesa
pubblica, svelando così come la «rivolta» concernesse più l'uso che il peso
delle tasse.

Quando si tratteggia un quadro del genere, gli scettici fanno leva su due
obiezioni per sostenerne la non esportabilità. La prima è che l'esiguità
della popolazione - gli svedesi sono circa sette milioni - favorirebbe la
diffusione di forti legami solidaristici, difficili invece da creare in
realtà più popolose. La seconda è che, anche in Svezia, la disoccupazione è
giunta al 9-10%, vale a dire ad un livello analogo a quello degli altri
paesi europei.

La prima obiezione è semplicemente falsa. Chiunque sia un po' addentro a
questi argomenti sa che le difficoltà, che impediscono ai gruppi numerosi
di cooperare efficacemente in modo volontario per il raggiungimento di fini
comuni, insorgono quando i gruppi superano le poche unità e che, senza un
efficace sistema di regole, sanzioni e incentivi, nessuna comunità
organizzata può produrre i beni pubblici di cui ha bisogno. Insomma, non è
che gli svedesi sono «solidali» perché sono pochi; lo sono perché
dispongono di un insieme di apparati statuali (dislocati sia nella società
politica che nella società civile) che opera efficacemente sul piano
preventivo e repressivo. E questa semplice verità vale per una collettività
di 7 milioni di persone come per una di cinquantasette. La seconda
obiezione si basa su di un'illusione ottica. E' vero, infatti, che alcune
stime indicano la disoccupazione svedese al 9%, ma si tratta di un tasso
che - come si è già detto - è calcolato su una forza-lavoro che tocca il
75-80% degli attivi e non il 50-60%. Se in Italia offrisse i suoi servigi
sul mercato un'analoga percentuale della forza-lavoro attiva, il tasso di
disoccupazione sarebbe verosilmente pari al 15-16%; specularmente, se fosse
calcolato sulla medesima percentuale di attivi, il tasso di disoccupazione
svedese sarebbe prossimo al 4%.

Insomma, il «modello scandinavo», benché certo non immune da difficoltà,
regge bene la sfida con la globalizzazione, la fine del fordismo, l'avvento
dell'«economia della conoscenza» e, in genere, con tutte quelle formulette
che - quasi come giaculatorie - ci sentiamo ripetere (per esempio,
sull'ultimo numero della rivista Italianieuropei) per sostenere che una
«sinistra moderna» deve rassegnarsi a seguire il Blair di turno e rinnegare
se stessa e i suoi sostenitori sull'altare del governo.