la lezione del carac enron



dal corriere.it 
  
 
  
 Giovedì 19 Settembre 2002 
 
 
 
 
 
 
 
Anatomia di uno scandalo
L’aristocrazia senza morale dei supermanager pigliatutto

La lezione del crac Enron? Mettere un tetto all’abuso indecente delle stock
option


Tra le principali cause di degenerazione del modello americano c’è anche lo
squilibrio politico-sociale a favore del top management delle grandi
società che si è man mano prodotto negli ultimi vent’anni e che ha permesso
a questa «nuova aristocrazia» di appropriarsi di corrispettivi che non
hanno più alcuna relazione di nessun tipo con le prestazioni fornite, con i
risultati raggiunti, con il loro tipo di attività, con l’andamento reale
delle aziende. Questi valori non rappresentano più un corrispettivo per dei
servizi professionali, ma un’appropriazione basata su una incontrollata
posizione di potere. In una relazione del 1998 affermavo: «Nel frattempo
nella grande impresa è avvenuta, negli ultimi vent’anni, una nuova grande
rivoluzione. Spariti i robber baron , spariti i tycoon , spariti i grandi
imprenditori alla Henry Ford, spariti i grandi manager alla Watson, se non
per pochi casi che fanno più folklore che sistema, il potere di questo
settore determinante della vita economica è stato, lentamente ma
tenacemente, scalato da una nuova classe, fatta per lo più di volti
anonimi, che si è autopromossa a "nuova aristocrazia", che con le antiche
aristocrazie ha numerose analogie e molte differenze. L’elemento comune
principale è che essa preleva un "surplus" che non ha più alcuna relazione
con i servizi resi, ma che deriva solo da una posizione di potere occupato.
I compensi e le forme partecipative prelevati dal big management del big
business sono diventati di natura e proporzione tali da non potere più, in
nessun modo, essere ricondotti ad un corrispettivo per un qualsiasi lavoro
professionale direttivo. Essi sono un prelievo e non più un corrispettivo.
Una delle differenze principali con le vecchie aristocrazie è che queste
avevano la funzione di dirigere e proteggere la loro popolazione, mentre
l’aristocrazia industriale non ha alcuna pretesa di questo tipo: essa vuol
solo servirsi della popolazione di appartenenza, non dirigerla. Un’altra
differenza è che essa non assicura ai suoi membri una solida stabilità.
Saldamente insediata come classe, la nuova aristocrazia industriale è
sottoposta, nei suoi singoli membri, a rapide mutazioni: il mercato e la
competizione non permettono il prolungarsi a lungo di posizioni
parassitarie o anche solo protette. Quello qui discusso è uno sviluppo che
Alexis de Tocqueville (nel capitolo XX del suo "La democrazia in America"
del 1835 - intitolato appunto "Come l’aristocrazia può nascere
dall’industria") prevedeva con queste parole: "Perciò, a mano a mano che la
massa della nazione si volge alla democrazia, la classe particolare che si
occupa dell’industria diviene più aristocratica... Io penso che nel suo
complesso l’aristocrazia industriale, che vediamo sorgere sotto i nostri
occhi, sia una delle più dure che mai siano apparse sulla Terra, ma al
tempo stesso una delle più ristrette e meno pericolose. Tuttavia proprio
verso questa parte gli amici della democrazia devono continuamente
rivolgere lo sguardo e diffidare poiché, se la diseguaglianza permanente
delle condizioni e l’aristocrazia dovessero penetrare di nuovo nel mondo,
si può prevedere che penetreranno da questa porta"». 
Per quanto ne so questa tesi, benché basata su fatti di plateale evidenza,
non è stata sinora oggetto di attenzione negli Stati Uniti. Ma anche qui
incominciano i primi segnali. Tre studiosi dell’Harvard Law School e uno
della University of Berkeley in California hanno in corso di pubblicazione
sul prossimo numero della Chicago Law Review uno studio dal titolo
Managerial power and rent extraction . Dalla recensione di questo studio
pubblicata sul l’ Economist del 13 luglio dal sottotitolo The pay of chief
executives can seem ridiculous. Often it is , sembra che dallo stesso
emerga la tesi che la teoria contrattuale non spiega più i contenuti reali
dei compensi dei top manager . Qui cominciamo ad addentrarci nel cuore dei
problemi veri, nell’indecente abuso delle stock option e nella conseguente
spinta a realizzare concentrazioni ed acquisizioni prive di ogni contenuto
industriale. 
LO SCONTRO CON GLI AMMINISTRATORI COME SCONTRO POLITICO. Ma il problema non
è tanto nelle manipolazioni di bilancio che sono solo una conseguenza e uno
strumento; il problema è nel potere assoluto, arbitrario, mitico che la
società americana ha riconosciuto ai corporate executive . Il problema sta
nell’assenza di bilanciamento dei poteri. E, quindi, è una questione che va
al cuore della vita democratica. Altro che quattro regolette contabili
violate! Altro che la teoria delle poche «mele marce» della quale si è
fatto portavoce il presidente Bush. Del resto la convinzione che siamo di
fronte ad una vicenda storicamente rilevante incomincia a farsi strada.
Daniel Yergin (l’autore di Commanding Heights , uno studio storico dedicato
agli scontri tra il libero mercato e la regolamentazione governativa)
afferma: «Il suono del collasso di WorldCom è il suono della fine di
un’epoca. I suoi riflessi si sentiranno in tutto il Paese e molto forte a
Washington» ( Financial Times , 13-14 luglio 2002). E Peter Clapman, il
potente presidente del Tira-Cref (il fondo che gestisce 280 miliardi di
dollari degli insegnanti Usa) ha affermato: «Sento molti che sostengono una
tesi bizzarra: Enron, WorldCom & Co., dicono, sono solo mele marce. E
chiariti i loro problemi non v’è necessità di reazioni eccessive che
rischiano di porre troppi paletti al mercato. Io sostengo il contrario. Ci
sono troppe mele marce. E o si rimette in sesto l’intero sistema con regole
chiare (che non sono dirigismo) o si rischia grosso». In forma estremamente
incisiva William Crist, presidente di Calpers, il più grande e forse il più
potente fondo americano, ha detto: «Il presidente Bush non coglie per
niente il punto. Non sono le attività criminali in primo piano... il fatto
è che le grandi società sono gestite da insider per il loro proprio
interesse». E Kevin Phillips pubblica un libro dal titolo Wealth and
Democracy: how great fortunes and government created America’s aristocracy
. I ceo (chief executive officer, amministratori delegati, ndr), dunque,
come casta o come aristocrazia. 
Finalmente siamo arrivati a toccare il cuore del problema. La profezia di
Tocqueville si è dimostrata ancora una volta corretta. Ma proprio per
questo, realizzare una svolta significativa verso un diverso e migliore
sistema non sarà per nulla facile. Il compito di George Bush non è
sostanzialmente molto diverso di quello che deve affrontare Putin nel
tentare di mettere la museruola agli ex comunisti che si sono trasformati
in magnati industriali ed oligarchi finanziari ed hanno preso tutto per sé
il potere economico in Russia. La differenza è che Putin è solo mentre Bush
arranca dietro le migliori istituzioni americane che hanno assunto la
leadership e lo trascinano in avanti. 
AZIONE E RETICENZE. Resta da discutere la domanda se sia vero che l’America
si è messa al lavoro per rimediare alla crisi finanziaria e di credibilità
con prontezza e bene, mostrando una «straordinaria capacità di reazione»,
come ha scritto Sergio Romano. La risposta non è univoca ed è certamente
negativa per il presidente e per le principali lobby economiche. Lasciamo
la parola ad alcuni dei più autorevoli organi di stampa americana e
internazionali. Il 17 giugno Business Week , in un articolo intitolato: «Ma
quale pulizia? Mentre Washington vacilla, la riforma finanziaria sta
andando rapidamente da nessuna parte», affermava: «Ma ora la spinta per una
riforma legislativa post Enron è in stallo, vittima dell’indifferenza del
presidente, dell’ostilità repubblicana, della fiera opposizione delle lobby
del business e della disorganizzazione dei riformisti democratici». E
ancora il 27 giugno Joseph Stiglitz affermava: «Ormai è diventato un
problema politico. E la Sec (la Consob americana, ndr ) si vede costretta
ad agire. Ma per ora non vedo alcuna azione adeguata». Poi Bush ha parlato,
a Wall Street il 9 luglio, e in seguito in Alabama. Ma ogni volta i suoi
discorsi sono apparsi poco o nulla convincenti. Long on rhetoric and short
on substance , scrive il New York Times , mentre il Washington Post :
«George W. Bush ha continuato la sua offensiva retorica contro gli scandali
societari, chiedendo ai due rami del Congresso di concordare un pacchetto
unitario di riforma post Enron prima della pausa di agosto. Un’azione
rapida è un’eccellente idea se ciò volesse dire unire il Congresso sul
progetto di legge approvato dal Senato con la schiacciante maggioranza di
97 a 0. Ma rifiutandosi di venire allo scoperto apertamente in appoggio a
questo progetto, Bush sta rallentando il momento di una vera riforma». E
ancora il 18 luglio, il più famoso e popolare economista americano, il
premio Nobel ’70 Paul Samuelson, esprimendo un giudizio di assoluta
insufficienza su quanto si è fatto e su quanto si è promesso di fare
afferma: «Il danno più grave per la credibilità della finanza Usa in questo
momento lo fanno gli scandali finanziari. La " lobby dei ceo" sta facendo
di tutto perché rimangano nascoste le frodi e gli imbrogli finanziari di
cui, a quanto pare, si è fatto un enorme uso. E Bush è con loro. Del resto
quando era a capo di società petrolifere si comportava come i capi della
Enron, iscrivendo falsi profitti che facevano lievitare i titoli e poi
vendendoli». 
Riepilogando: 1) il presidente si è mosso tardi e sino ad ora ha fatto
prevalentemente retorica; 2) la Sec, presieduta da un avvocato d’affari che
per tutta la vita è stato consulente e portavoce della lobby delle grandi
società di revisione, è stata lentissima, incerta e ambigua; 3) la
congregazione dei manager d’impresa si è fatta notare per un’assenza totale
dal dibattito e per un fragoroso silenzio, con pochissime eccezioni
individuali. 4) Il Congresso è stato a lungo lentissimo e confuso. La
Camera dei Rappresentanti aveva da tempo in bollitura un provvedimento in
concreto inutile. Solo recentemente il Senato ha approvato all’unanimità
dei presenti (97 voti contro 0) un provvedimento di una qualche serietà. E
questo provvedimento, pur non avendo trovato il supporto esplicito del
presidente, sotto l’incalzare degli eventi è diventato, il 26 luglio, il
progetto di tutto il Congresso ed è diventato legge. Questo provvedimento
porta innovazioni importanti. Ma i punti principali restano aperti. 
Quelli essenziali sono tre. 1) Introdurre la regola che il costo delle
stock option venga spesato nei conti economici delle società e che i
relativi schemi vengano sempre approvati dagli azionisti. Si tratta di
regole decisive per frenare gli abusi attuali. Secondo me non basta: è
necessario fissare anche un limite legale alle stock option e ai compensi
totali dei ceo. Ma questo, oggi in America, pare impossibile. I sostenitori
di questa innovazione contabile sono molti e autorevoli, come lo stesso
Greenspan, in passato contrario. Ma non vanno avanti perché la lobby dei
ceo e lo stesso Bush non sono d’accordo. 
2) Potenziare il numero degli amministratori indipendenti (non facenti
parte, cioè, del management ). Questa proposta ha buone possibilità di
andare avanti, essendo appoggiata anche da Bush e da istituzioni come la
Borsa di New York. Ma i consiglieri indipendenti possono incidere ben poco
laddove la figura del presidente delle società coincide con quella
dell’amministratore delegato. È, insomma, indispensabile che il presidente
del consiglio d’amministrazione sia indipendente e diverso dal ceo. Solo
così si instaura una vera dialettica nell’azienda e i consiglieri
indipendenti possono contare qualcosa. Anche questa è una proposta che sta
facendo passi avanti sia pure faticosamente. 
3) Serve un organismo forte e indipendente per monitorare e guidare la
professione degli esperti contabili. Serve, a dire il vero, da almeno 20
anni ma la lobby delle società di revisione (che tra l’altro ha versato
oltre due milioni di dollari di contributi elettorali a 63 dei 70 membri
della Commissione finanza della Camera dei rappresentanti e a tutti i 21
membri della Commissione bancaria del Senato, cioè i due organismi
legislativi competenti in questa materia) si è sempre opposta con durezza.
La legge ha approvato finalmente l’istituzione di questo organismo. Ma se
funzionerà concretamente è tutto da vedere. 
Chi avrà la forza e il coraggio di imporre le riforme? Bush non è Roosevelt
e il presidente della Sec, Harvey Pitt, già avvocato d’affari delle
maggiori società di revisione, non sembra il soggetto ideale per resistere
alle loro lobby . Vale la pena di riflettere sulle parole di Paul Volcker
che, chiamato a tentare il salvataggio dell’Andersen, provò a ripristinare
standard accettabili di rigore e serietà nella professione: «In verità - si
è sfogato con Business Week - non vidi nessuno davanti a me. Ricevetti
molti attestati di simpatia, ma la corporate America non era là, voleva
essere lasciata in pace». 
Insomma, quello che si è fatto finora in America è poco, anche se alcune
iniziative recenti cominciano a toccare punti importanti. Un dato positivo
è che, nonostante lentezze e reticenze di governo e Parlamento, si stanno
muovendo forze e istituzioni di mercato: si sono messi in moto gli
investitori più saggi come Warren Buffett e un gruppo limitato ma
significativo di società espressione del sano conservatorismo americano
(dalla Coca-Cola alla Ford) che hanno «scavalcato a sinistra» il presidente
Bush, mentre la dormiente Sec si è svegliata ed è in preda a un nervoso
attivismo. La Borsa di New York avanza proposte positive mentre i grandi
fondi pensione dichiarano che in futuro eserciteranno il loro peso, anche
politico, in modo nuovo. 
Ad aver fallito è soprattutto il nuovo sistema di deregolamentazione
imposto sulla base di un liberismo troppo dogmatico. L’autoregolamentazione
del mercato non ha funzionato. Sull’onda della deregulation i mercati hanno
indirizzato migliaia di miliardi di dollari in impieghi che non daranno mai
un penny di frutto. Nelle telecomunicazioni, ad esempio, abbiamo assistito
a sovrainvestimenti e fusioni che sono stati una pura devastazione economica. 
AMERICA E ITALIA. Giudicando con severità quanto accaduto in America non
intendo certo dire che in Italia avremmo fatto di meglio o che siamo in una
situazione migliore. In realtà il nostro Paese - che peraltro è immerso in
un conflitto d’interessi inestricabile e istituzionalizzato a tutti i
livelli - ha cose primordiali cui pensare prima di poter seriamente parlare
di questi nodi. I problemi dell’Italia sono diversi e andranno analizzati a
parte. Ma la vicenda americana, con la crisi dell’unico credibile sistema
al quale ci rapportavamo e ci ispiravamo, ha conseguenze profondissime
anche per noi.