lo status dei diritti sociali



      
il manifesto - 03 Settembre 2002  
CITTADINANZA
Lo status dei diritti sociali
Chi difende il welfare state non può non nascondere la sua crisi.
Abbandonare questa trincea significa avventurarsi nelle sabbie mobili
dell'arbitrio


Ripubblicato da Laterza «Cittadinanza e classe
sociale» di Thomas Marshall,
un classico della riflessione
sul ruolo progressivo
del conflitto sociale
BRUNO ACCARINO
Era stato Hegel, in un certo senso, a lanciare il grido di allarme: in
Inghilterra il fallimento delle leggi sui poveri e degli appelli alla
beneficenza privata abbandona i derelitti al loro destino e li induce a
rivolgersi alla mendicità pubblica. Quella di Hegel era solo una delle
tante voci che si erano espresse sul pauperismo, ma il pulpito dal quale
proveniva era particolarmente attrezzato quanto a concezione della
razionalità dello Stato. Hegel ne faceva una questione di tenuta della
sfera pubblica: vada per la carità, vada per tutte le forme più o meno
dignitose di elemosina, ma così restiamo nel campo dell'opinione (una
parolaccia, nel lessico hegeliano) e dell'accidentalità dell'obolo. Il
diagramma degli interventi sul pauperismo non poteva sfuggire a chi, come
Thomas Humphrey Marshall, rilesse nel 1950 tutta la questione dei diritti,
in un testo tanto breve quanto efficace e incisivo, ora opportunamente
ripubblicato (Cittadinanza e classe sociale, a cura di Sandro Mezzadra,
Laterza, pp.131, ? 15) dopo aver fatto da battistrada ad una vastissima
letteratura. A partire dalla legislazione elisabettiana, i poveri sono
qualcosa di più che i destinatari di un pacchetto di misure anti-indigenza
e anti-vagabondaggio, ma la loro sorte è segnata: nella sua versione del
1834 (una data che fu ben presente a Marx), la legge sui poveri rinunciò ad
ogni pretesa di violare il territorio del sistema salariale o di
interferire nelle forze del libero mercato: destinatari dell'assistenza
sono ormai solo più i vecchi e i malati. L'assistenza e la cittadinanza
marciano su binari paralleli e a somma zero: più sei assistito, meno sei
cittadino e più probabilità hai di entrare in una zona di meticciato o di
inesistenza sociale. Ciò che prima era ancora avvolto nell'ambiguità, che
cioè i postulanti non possono essere anche cittadini, diventa ora di una
chiarezza definitiva, fino alla eliminazione del diritto di voto,
restaurato solo nel 1918.

Lo schema elaborato da Marshall individua tre classi di diritti a cui
corrispondono tre periodi formativi della cittadinanza e, sia pur con
qualche approssimazione, tre secoli: i diritti civili si accoppiano al
diciottesimo secolo, quelli politici al diciannovesimo, quelli sociali al
ventesimo. Ben si può dire che i problemi nascono dai fenomeni di
sincronizzazione, cioè dalle sovrapposizioni simultanee delle tre classi di
diritti tra loro, giacché a nessuno verrebbe in mente di dire che i diritti
civili e quelli politici appartengono al passato, e troppo facile sarebbe
una descrizione dei diritti sociali nei termini di un cerchio maior che
comprende automaticamente e spontaneamente gli altri due cerchi minori.

I diritti civili ospitano le libertà personali, di fede, di pensiero, di
parola, oltre che l'apparato istituzionale relativo alle corti giudiziarie
(roba tutt'altro che obsoleta, come si vede), quelli politici la
possibilità di partecipare all'esercizio del potere politico, quelli
sociali le varie tipologie del welfare. Oggi ritoccheremmo questo schema,
ma un'acquisizione certa, intanto, ci viene assicurata proprio dallo
sguardo diacronico: benché in Marshall non manchino accenti
funzionalistici, è netta la consapevolezza delle lacrime e del sangue di
cui gronda la conquista anche di diritti oggi classificati come elementari,
e rispetto ai quali pratichiamo a volte una strana amnesia storica, salvo
rimanere interdetti nei casi di catastrofe improvvisa e di revoca di ciò
che sembrava irreversibilmente conquistato.

Ciò non toglie che, nella loro fase aurorale, i diritti civili fossero
pienamente e funzionalmente compatibili con le esigenze della razionalità
di mercato. Manipolando sobriamente il modello proposto, poco dopo la metà
dell'800, da Henry Sumner Maine («from status to contract»), un modello che
a sua volta tenne a battesimo la coppia comunità/società, Marshall intende
conservare la nozione di status anche per forme avanzate di cittadinanza:
il contratto moderno è un accordo tra uomini liberi e che posseggono uno
status di cittadinanza. Sullo status uniforme della cittadinanza si
edificano le basi ugualitarie su cui può a sua volta crescere la struttura
della disuguaglianza. In questo scenario irrompono elementi - primo fra
tutti l'identità nazionale - che esaltano il potenziale integrativo della
cittadinanza e le forniscono il senso dell'appartenenza ad una comunità.
Saltati i vincoli parentali e (in parte) i privilegi ereditari, la
cittadinanza si fa comunitaria pur senza integralismi organicistici:
«appartenenza fondata sulla fedeltà ad una civiltà che è possesso comune».
Attraverso lo strumento del sindacalismo e della contrattazione collettiva,
inoltre, si determina una cittadinanza industriale «secondaria» (indiretta)
che altera la mappa semplice della rappresentanza per via elettorale
(individuo-voto-governo). Nella loro forma moderna, i diritti sociali
comportano una invasione del contratto da parte dello status e la
subordinazione del prezzo di mercato alla giustizia sociale.

In alcuni casi, a differenza di quanto registrasse e sperasse Marshall, il
principio della libera contrattazione ha invece sfondato: nessuno status,
oggi, impone il controllo degli affitti, protegge i diritti degli occupanti
anche dopo la scadenza dei contratti, requisisce case e insomma sacrifica
«la santità del contratto» alle «esigenze della politica sociale».
Cronologicamente, l'abbandono di un equilibrio negoziale omogeneo e
protetto sul problema dell'abitazione è stato l'avanguardia degli
interventi di riprivatizzazione nei territori della sanità e dell'istruzione.

Sarebbe questo, per eccellenza, il punto di innesto delle politiche di
welfare. Nel 1950 a Marshall mancava, evidentemente, l'esperienza
post-bellica delle socialdemocrazie nordeuropee e della cosiddetta economia
sociale di mercato, ma non è privo di interesse il fatto che l'Inghilterra
sia a pari titolo la patria del manchesterismo e del welfare, con il
parallelo a distanza, nel secondo caso, dei pur diversissimi laboratori
bismarckiano e weimariano. Il trauma del thatcherismo o anche quello, molto
italiano, dell'addio prossimo venturo al sistema pensionistico, lo si
intende se si misura con quanta serietà si discutesse, attorno a Beveridge
e già negli anni '40, di prestazioni sociali dello Stato.

A tutto questo abbiamo oggi il dovere di affiancare - come segnala Sandro
Mezzadra, che non a caso sta esplorando terreni di verifica della sua
ricerca nei post-colonial studies - il patrimonio che ci deriva dalla
storiografia di ispirazione foucaultiana, dalla critica femminista del
falso universalismo della cittadinanza, dallo squagliarsi del sistema dei
diritti al cospetto di figure nuove come i migranti e di eventi inediti
come la porosità dei confini nazionali. Ma non dispiace leggere un autore
sostanzialmente convinto, pur con qualche esitazione, che l'espansione
della cittadinanza sia in conflitto con il modo capitalistico di
produzione. A Marshall manca forse un pizzico di sensibilità
storico-istituzionale che gli suggerisca la gamma delle possibili
contromisure ad una cittadinanza fattasi intrusiva e pericolosa: sterzate
autoritarie e, quando non basta, guerre. Una maggiore scansione storica,
inoltre, consente di capire che i diritti possono affiorare dopo un lungo
letargo alla coscienza, ma possono anche essere derubricati dal basso,
dagli stessi titolari, e tornare in stato letargico o essere mortificati o
svuotati. La storia dello spegnimento o dell'assopimento della coscienza
dei diritti non è solo storia del dispotismo o di restrizioni imposte
dall'alto: è anche, localmente, storia dell'obbedienza, dell'apatia, della
crisi organizzativa e ideale della sinistra.

È insomma sempre difficile fare critica costruttiva e determinata delle
forme, e della loro anelasticità, senza regalare punti vulnerabili
all'avversario. La forza d'urto della critica marxiana della finzione
giuridico-contrattuale tra operai e capitale non è racchiusa nella sua
impronta anti-formalistica (non sarebbe stato un progresso rispetto ad un
John Stuart Mill o ad un qualsiasi liberale non rimbecillito), ma in una
rivoluzione di pensiero: non si ragiona più di lavoro, ma di forza-lavoro
come merce. Di qui, in epoca post-fordista, è d'obbligo ripartire, ma
custodendo un approccio universalistico, come quello di Marshall, che si
commisuri non più solo alla scala di interessi di classe, semmai a quella
di bisogni strutturali di sopravvivenza della civiltà.

Le sirene che evocano uno sviluppo della cittadinanza diverso da quello
individualistico-liberale sono del resto sempre in agguato ed esercitano un
certo potere seduttivo, solo che il fronte degli anti-formalisti è oggi
spesso capitanato dalla destra europea. Diceva Gianfranco Miglio, uno del
quale, a fronte della statura intellettuale dei nostri attuali leghisti e
delle bizzarrie filosofiche (si fa per dire) di Pera, abbiamo una sempre
più struggente nostalgia: si provi a immaginare quanto fossero pieni i
diritti (e quanto fossero effettive le modalità di esercizio degli stessi)
di membri di aggregazioni assembleari premoderne - militari, professionali,
cetuali - prima che su di loro si abbattesse la maledizione della delega e
della rappresentanza. Se paragonati all'odierna evanescenza di diritti
strombazzati e quotidianamente violati, erano un paradiso di trasparenza e
di operante materialità. La questione è toccata anche da Marshall ed
attiene all'incontro tra forme di rappresentanza e forme di cittadinanza, e
insomma a quella grande patologia storica per cui, senza Stato nazionale,
non avremmo avuto neanche la morfologia della cittadinanza quale oggi la
conosciamo. Originariamente, però, i parlamenti esordiscono con la
rappresentanza delle comunità, non degli individui, ed erano i parlamentari
ad obbligare i loro elettori, non viceversa. La contrattazione collettiva
perciò ha una sua unicità, quasi uno statuto eccentrico. Ecco perché gli
sgarbi plateali del governo a Cofferati pesano più degli ingranaggi
intrinseci della legge elettorale maggioritaria.

Fin qui il passaggio è tra diritti civili e diritti politici. Resta il nodo
dei diritti sociali. In un altro testo recentemente apparso (K. Bayertz -
M. Baurmann, L'interesse e il dono. Questioni di solidarietà, a cura di P.
P. Portinaro, Comunità, ? 17,50) si ricorda come il concetto di solidarietà
abbia le sue radici storiche nel diritto romano, dove la obligatio in
solidum indicava una specifica forma di responsabilità in forza della quale
ogni membro di una comunità doveva farsi carico della totalità dei debiti
sussistenti, mentre la comunità si faceva carico di quelli di ogni singolo
membro. Niente ancora a che vedere con l'obbligazione morale reciproca tra
individuo e società e tanto meno con la fratellanza. Non è il caso di
andare subito in tilt perché si riaffaccia l'ombra della responsabilità
collettiva, che ha comunque sempre qualcosa di vagamente tribale, e
registriamo pure il darsi, come in certe fasi storiche del movimento
operaio, di una solidarietà non religiosa e tanto meno ecclesiastica, se è
vero che il socialista sansimoniano Pierre Leroux ne introdusse il concetto
in opposizione alla misericordia e alla carità. Viceversa, il carattere
iperpoliticistico che è stato dato talvolta all'incontro con i cattolici ha
impedito il dialogo con una sensibilità religiosa a carattere non
statualistico che potrebbe essere accettata anche in campo laico. Ma, come
che si voglia sciogliere il nodo dei rapporti tra diritti e dono, tra
servizi sociali mediati da grandi strutture burocratico-istituzionali e
volontariato, non si può non vedere come le proposte di sussidiarietà
alternative allo Stato sociale, per sprecone e distorto che sia, non
garantiscono di non metter capo a strozzature lobbistiche e a profili
paternalistici di assistenza, con l'aggiunta di qualche spruzzata di
americanismo ipermoderno (le assicurazioni).

Come dice la parola stessa, la sussidiarietà è il patrimonio dei panchinari
e delle riserve, non dei titolari (di diritti). Di un eccellente e
lubrificato circuito di sussidiarietà, poi, hanno sempre usufruito tutte le
mafie, piccole e grandi. A mezzo secolo di distanza, il saggio di Marshall
dimostra, anche al di là delle sue intenzioni, che la logica dei diritti è
arrivata, qua e là, al capolinea di una avvincente parabola storica, che è
condannata a zoppicare perché è costitutivamente in imbarazzo quando deve
gestire differenze, che è malata di occidentalità e di occidentalismo, ma
che nel suo insieme va superata solo da chi voglia conservarla, rimodularla
e potenziarla. Forse va presa per quello che è: non uno slogan per tutte le
stagioni, magari nemmeno il telaio di un programma politico
onnicomprensivo, ma certo una trincea. Chi la difende non fa la
rivoluzione, ma chi la abbandona sceglie di avventurarsi nella notte.