la passione delle pensioni



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LE MONDE diplomatique - Giugno 2002  
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 la previdenza al gioco dei fondi 
La passione delle pensioni 


Galapagos 
«Avremo mai la pensione?». La bella domanda, che riecheggia spesso tra i
giovani e i meno giovani per i quali la prospettiva della pensione è molto
distante, è il titolo del saggio (140 pagine che si leggono d'un fiato) di
Angelo Marano pubblicato da Feltrinelli (1). Marano (che si è specializzato
a New York) non arriva alla conclusione che le pensioni spariranno. Però il
sistema previdenziale è in profonda trasformazione e il futuro,
probabilmente, ci riserverà un assetto niente affatto condivisibile nel
quale i sacrificati saranno i lavoratori che vedranno ridursi il loro
sistema di garanzie. Insomma, non c'è da stare tranquilli.
Il libro di Marano ci conduce all'interno del sistema pensionistico
italiano (ma non solo, visto che i riferimenti e i confronti internazionali
non macano) dedicando le prime pagine a un argomento che viene troppo
spesso dimenticato: a che servono le pensioni? Può sembrare una domanda
banale, ma non lo è. Delle tre funzioni primarie («previdenziale»,
«assistenziale» e «assicurativa») spiega l'autore, «possono corispondere
modelli di funzionamento assai diversi». Storicamente è la funzione
previdenziale quella che ha dato il via ai moderni sistemi pensionistici.
Una funzione che ha l'obiettivo di «assicurare a ciascun lavoratore il
mantenimento del medesimo tenore di vita anche dopo il pensionamento».
Una funzione che, in quasi tutti gli stati è stata assolta dallo stato,
unico soggetto in grado di offrire garanzie del pagamento delle rendite.
Un sistema quello previdenziale, che nella sua evoluzione è approdato,
naturalmente, nel sistema a ripartizione, di solidarietà (di classe,
verrebbe da specificare) tra generazioni. Il sistema a ripartizione nel
quale «i contributi dei lavoratori correnti vengono girati ai pensionati»
subentra - nell'esperienza italiana - a quello a capitalizzazione che
minato dalla guerra e dalla successiva iperinflazione mostrò limiti
insopportabili per milioni di pensionati che percepivano rendite
assurdamente basse, visto che corrispondevano ai contributi (ipersvalutati)
versati nella vita lavorativa.
Marano non nasconde che il sistema a ripartizione comporta rischi
dipendenti dall'andamento demografico e da quello della congiuntura
economica e della dinamica dell'occupazione. Tuttavia il sistema a
ripartizione rimane decisamente il migliore: anche se in Italia le riforme
degli anni novanta (che hanno decisamente messo sotto controllo la spesa)
lo hanno depotenziato, per esempio eliminando dalla rivalutazione annua
delle pensioni la componente legata all'andamento dei salari che era il
legame diretto tra il reddito dei lavoratori attivi e quelli in pensione.
Con l'alibi del'eccessivo costo (anche per le imprese, oltre che per i
conti dello stato) dell'attauale sistema, si sono rafforzate le spinte per
una controriforma che riduca la previdenza a mera assistenza, garantendo
solo gli standard minimi, lasciando al risparmio individuale la costruzione
di un futuro meno incerto. Il miglior esempio per comprendere il
depotenziamento del sistema pensionistico conseguente alle riforme degli
anni '90, lo ha fornito pochi giorni fa Massimo Paci, presidente dell'Inps:
per effetto delle riforme si andrà in pensione al massimo con il 45% della
retribuzione, anzichè con l'80% come prevedeva il precedente sistema.
Questo, però, ancora non basta. I tentativi di smatellamento del sistema
pensionistico vanno oltre.
Questa concezione, ultraliberista, trova consensi politici anche
all'interno del centro-sinistra, anche se in forme meno estremiste, secondo
i principi del «welfare delle opportunità» là dove lo stato abdica
ampiamente al proprio ruolo, limitando gli interventi. In questa ipotesi,
il sistema pensionistico rimarrebbe in piedi, ma in forme decisamente
ridimensionate rispetto agli attuali livelli, mentre dovrebbe essere
sviluppato un sistema misto, basato su forme sempre più estese di
previdenza integrativa.
Ma con quali risorse può decollare il sistema dei fondi pensione, cioè la
previdenza integrativa? Visti i bassi livelli retributivi, si punta tutto
sui Tfr (le liquidazioni) sottratti alle imprese cui sarebbero però
concesse agevolazioni fiscali e contributive per compensarle di questo
sacrificio. Insomma, la previdenza integrativa sarebbe finanziata dagli
stessi lavoratori. I loro soldi sarebbero investiti sui mercati finanziari
che, secondo la vulgata, sarebbero in grado di garantire maggiori
rendimenti rispetto a quelli offerti dall'attuale sistema a ripartizione.
In tale sistema, la rivalutazione sarebbe legata al tasso di crescita
annuale del Pil. Ma è proprio così?
Marano dedica un'ampia analisi ai rendimenti dei mercati finanziari e ne
trae una conclusione (documentata) molto netta: i fondi pensione «potranno
sì permettere lo sviluppo dei mercati finanziari - non necessariamente
italiani - ma per molti altri versi, soprattutto per i lavoratori, essi
costituiranno una soluzione inefficiente o, addirittura, un salto nel buio».
Breve, ma ricca, l'analisi che il saggio dedica ai rendimenti delle
pensioni integrative. Partendo da una affermazione («numeri non credibili»,
secondo Joseph Stiglitz) di Martin Feldstein, Marano analizza il rendimento
storico dei mercati azionari. E conclude che a parte gli Stati uniti
(caratterizzati da alti rendimenti difficilmente spiegabili, tanto che si
parla di equity premium puzzle, «nel resto del mondo, in Italia in
particolare, la profittabilità dell'investimento azionario su periodi
lunghi appare molto più dubbia e ancora da dimostrare».
Di più: Marano sottolinea più volte «la rischiosità dei fondi pensione,
dovuta alla variabilità e imprevedibilità dei mercati finanziari».
Non una affermazione teorica, la sua, ma una evidenza empirica dimostrata
da dati storici e per altri versi dai numerosi dissesti di fondi pensione.
E ancora: i costi di gestione dei fondi sono decisamente più elvati di
quelli della previdenza pubblica e non prevedono forme di rivalutazione
monetaria legata all'inflazione. Come dire: del futuro non v'è certezza.
Ma potremmo anche aggiungere che se il rendimento dei fondi pensione è
alto, questo significa che il capitale si appropria di una fetta sempre
maggiore di plusvalore sottratto ai lavoratori attivi. D'altra parte,
conclude Marano, la tendenza è inequivocabile: «la previdenza, come più in
generale tutti gli istituti dello stato sociale, diventa un'arena dove
interessi contrastanti del capitale competono per il controllo e la
riappropriazione delle risorse dei lavoratori». Ovvero: «il mondo
finanziario e assicurativo punta a sostituirsi allo stato, assorbendo oggi
i fondi del Tfr, domani una fetta delle contribuzioni attualmente destinati
alla previdenza pubblica». La conclusione?
Non c'è da stare allegri, anche perché l'ideologia di questo tipo di
mercato (che sarebbe stato rifiutato anche da Adam Smith) ha fatto breccia
anche nel cuore di parte della sinistra. E non solo quella di Blair.



note:


(1) Angelo Marano, Avremo mai la pensione? Feltrinelli, 2002, 8 euro.