se il mondo batte cassa



        
 
 
il manifesto - 18 Luglio 2002 ------------------------------------------------
 
 
Se il mondo batte cassa 
LUIGI CAVALLARO
 
 
Se il mondo batte cassa 
Lo sviluppo dell'economia mondiale evidenzia due modelli di politica
monetaria. Il primo, che ha segnato tutti i «gloriosi trenta anni
keynesiani», ha cercato di limitare la crescita dei mercati finanziari
internazionali. Il secondo, che caratterizza questo inizio millennio, punta
alla creazione di un mercato finanziario globale che ha il suo centro negli
Usa. In entrambi i casi, gli stati-nazione mantengono intatto il loro ruolo
centrale nella definizione delle politiche monetarie, a differenza di
quanto sostengono i cantori della fine delle sovranità nazionali. Alcune
considerazioni a partire da «Il granello di sabbia. I pro e i contro della
Tobin tax», un libro curato da Riccardo Bellofiore ed Emiliano Brancaccio e
edito da Feltrinelli
LUIGI CAVALLARO
Secondo John Stuart Mill, uno dei sintomi del permanere della barbarie nei
rapporti economici internazionali del XIX secolo era costituito dal fatto
che quasi tutti i paesi indipendenti preferivano affermare la propria
nazionalità conservando una propria moneta particolare, ancorché ciò
avvenisse a discapito di ciascun paese e dei suoi vicini. E' chiaro che, se
Mill avesse ragione, la nostra ostinazione nel mantenere, ancor oggi,
codesta «barbarie» dovrebbe ritenersi frutto solo d'irredimibile
imbecillità. Prima di indagare questo problema, può essere però opportuno
chiarire in che senso l'esistenza di più monete può essere assunta come
sintomo dell'esistenza di distinte (e potenzialmente conflittuali)
sovranità nazionali. Consideriamo una versione semplificata del modello di
Mundell e Fleming, il più classico dei contributi alla modellistica in tema
di politica economica in regime di economia aperta, e immaginiamo due
paesi, ciascuno dei quali produce una merce che è un sostituto imperfetto
di un'altra, prodotta nell'altro paese. Supponiamo che esista perfetta
mobilità dei capitali e che, allo scopo di combattere un eccesso di
disoccupazione dovuto a carenza di domanda, nel primo paese l'autorità
monetaria decida di avviare una politica monetaria espansiva, riducendo il
tasso di sconto. La conseguenza immediata è la riduzione dei tassi
d'interesse e un aumento della quantità di moneta a disposizione dei
consumatori e degli imprenditori, che - sotto certe condizioni, che qui non
esaminiamo - inducono un aumento della spesa globale, sia per investimenti
che per consumi. Ne viene un aumento delle importazioni e, naturalmente, un
aumento dell'accumulazione del capitale nel secondo paese, dove -
correlativamente - il tasso di interesse aumenta.

Ora, la differenza fra i tassi d'interesse non può permanere in regime di
perfetta mobilità dei capitali, essendo tipico di questi ultimi spostarsi
là dove maggiori sono i rendimenti. Di conseguenza, se fra i due paesi
esiste un sistema di cambi flessibili (nel senso che nessuna delle autorità
monetarie assume come proprio obiettivo il mantenimento di un certo livello
del tasso di cambio fra le valute), lo squilibrio fra i tassi d'interesse
si tradurrà in un deprezzamento della valuta del primo paese rispetto a
quella del secondo paese, dal momento che i capitali tenderanno a uscire da
l primo paese (che registrerà uno squilibrio della bilancia dei pagamenti)
e ad affluire nel secondo paese. Ma a seguito del mutamento del rapporto di
cambio, le merci prodotte nel primo paese diverranno relativamente più
convenienti per i consumatori del secondo paese: aumenteranno, di
conseguenza, le importazioni di quest'ultimo dal primo paese, il che
indurrà in quest'ultimo paese la ripresa del processo d'accumulazione, a
discapito proprio del secondo paese.

Anche in questa forma semplificata, il modello illustra chiaramente le
potenzialità della politica monetaria: in regime di cambi flessibili,
l'autorità monetaria di un paese può senz'altro spostare «altrove» le
difficoltà in cui si dibatte la propria economia (non per caso la manovra
di politica monetaria qui esaminata è definita beggar-thy-neighbour). Non
solo, ma per suo tramite si comprende anche un altro fenomeno tipico delle
economie aperte, e cioè la tendenza delle manovre espansive a diffondersi
da un paese all'altro: è evidente, infatti, che l'unica contromisura a
disposizione del secondo paese per evitargli di «importare» la congiuntura
sfavorevole del primo paese è quella di ribassare a sua volta i tassi
d'interesse, cercando di spostare su un terzo paese le conseguenze della
manovra del primo; il terzo, a sua volta, farà altrettanto e, in questo
modo, gli effetti dell'espansione monetaria avviata nel primo paese
raggiungeranno tutti i paesi coinvolti nel commercio internazionale.

Non è casuale, allora, che, come corollario dell'avvenuta materializzazione
dell'«Impero» - l'ordinamento giuridico del capitalismo mondializzato, anzi
il capitalismo stesso che, trionfando, si è fatto Stato, secondo la
definizione di Michael Hardt e Toni Negri nel loro fortunato Empire - si
sia argomentata la scomparsa di quella relativa autonomia decisionale in
materia di politica monetaria e di determinazione dei flussi merceologici
che, secondo il modello di Mundell e Fleming, permette ai paesi più forti
di regolare il loro ciclo economico interno, esportando nei paesi più
deboli le proprie interne contraddizioni (si veda Andrea Fumagalli,
Christian Marazzi, Adelino Zanini, La moneta nell'Impero, con prefazione di
Toni Negri, Verona, Ombre Corte, pp. 117, 9,30). Una sovranità monetaria
nazionale, infatti, non è punto compatibile con l'«Impero»: l'affermarsi di
un mercato mondiale, secondo questa concezione, implica la decostruzione
monetaria dei mercati nazionali, la dissoluzione dei regimi nazionali e/o
regionali della regolazione monetaria e la loro subordinazione alla logica
dei mercati finanziari, onde non sarebbero più - scrive Marazzi - le
variazioni dei tassi d'interesse nei paesi-centro a guidare l'afflusso e il
deflusso dei capitali rispetto alla periferia, ma i mercati finanziari ad
imporre alle autorità monetarie nazionali quelle variazioni dei tassi
necessarie ad assicurarne la liquidità.

Ora, è senz'altro indubitabile che la disintermediazione dell'offerta di
servizi finanziari a vantaggio di intermediari non bancari, l'esplosione
dei cosiddetti prodotti derivati, la crescente integrazione dei mercati
finanziari resa possibile dalla rivoluzione informatica e, in prospettiva
(come sottolinea Zanini), lo sviluppo della cosiddetta e-money sono fattori
che, enfatizzando la mobilità dei capitali, riducono i gradi di libertà
della politica (e dunque della sovranità) monetaria. Ed è altrettanto
indubitabile, si potrebbe aggiungere, che i risultati sconfortanti dei test
econometrici cui è stata sottoposta la modellistica concernente l'andamento
dei tassi di cambio, onde saggiarne la capacità previsiva, confermano a
contrario che sui mercati finanziari conta non tanto la conoscenza dei
cosiddetti «fondamentali», cioè delle determinanti ultime dei tassi di
cambio di lungo periodo su cui le varie autorità monetarie basano le loro
manovre, quanto piuttosto la capacità dei singoli operatori di indovinare
come si muoverà il mercato nei prossimi dieci minuti, capacità che dipende
a sua volta dall'istituirsi e dal permanere di «convenzioni» che, per il
fatto stesso di fondarsi sulla comunicazione implicita o esplicita tra i
vari operatori, travalicano la determinazione territoriale delle autorità
monetarie. Ma ciò significa soltanto che, in regime di cambi flessibili, la
politica monetaria diventa politica di cambio, nel senso che la sua
capacità di fungere da stimolo dell'economia dipende dal deprezzamento del
cambio e dai suoi effetti sulla bilancia commerciale, ossia dallo
spostamento della domanda estera e nazionale verso merci nazionali, che
viene assunto come obiettivo anche a costo di provocare shock
deflazionistici in altri paesi.

Che ciò enfatizzi il carattere destabilizzante della politica monetaria,
piuttosto che ridurne (o addirittura escluderne) la portata, e renda
desiderabile «gettare sabbia negli ingranaggi ben oliati del sistema» è, mi
sembra, la lezione fondamentale che si può ricavare dall'insegnamento di
James Tobin, la cui coerenza riformista in tema di tassazione delle
transazioni finanziarie internazionali - recentemente revocata in dubbio da
interessate e corsare «brevi» del quotidiano di Confindustria - il lettore
italiano può finalmente verificare dalla sua «viva voce» in un ricco volume
curato da Riccardo Bellofiore ed Emiliano Brancaccio (Il granello di
sabbia. I pro e i contro della Tobin tax, Feltrinelli, pp. 138, 8,00 euro).

Il motivo può essere compreso tornando a considerare la versione
semplificata del modello di Mundell e Fleming, che sopra abbiamo
presentato, ma supponendo, stavolta, che tra i due paesi viga un accordo
che prevede un regime di cambi fissi. Se nel primo paese viene avviata una
politica monetaria espansiva, la diminuzione del tasso d'interesse rispetto
all'altro paese mette capo (come nell'esempio precedente) ad un
peggioramento del saldo dei movimenti di capitale; d'altra parte,
all'aumento della spesa per consumi e per investimenti corrisponde un
deterioramento del saldo delle partite correnti. L'uno e l'altro deficit
implicano un deflusso di riserve valutarie (e quindi di base monetaria)
all'estero, che termina solo quando l'autorità monetaria adotta opportune
contromisure per ripristinare la soluzione iniziale. Supponendo (come
nell'esempio precedente) che vi sia perfetta mobilità di capitali, non si
avrà alcuna temporanea riduzione del tasso d'interesse, dal momento che la
perdita di riserve valutarie indurrà l'autorità monetaria a intervenire
immediatamente al rialzo. La conclusione è che, nell'ipotesi (e solo
nell'ipotesi) di cambi fissi e perfetta mobilità dei capitali, la sovranità
monetaria è nulla.

Ora, fintanto che ciascuna moneta era convertibile in oro e quest'ultimo
funzionava come «denaro mondiale» (à la Marx, per intenderci), si poteva
contare su di una stabilità dei cambi pressoché analoga a quella vigente in
regime di cambi fissi, dal momento che l'aumento di liquidità in un paese,
mettendo capo ad un disavanzo della bilancia commerciale, avrebbe provocato
un deflusso d'oro idoneo ad aggiustare la quantità di mezzi fiduciari in
circolazione alle riserve auree effettivamente possedute dalla banca
centrale. Ma da quando questa misura comune è venuta a mancare e i vari
Stati-nazione hanno adottato sistemi di cartamoneta inconvertibile, cioè di
moneta esclusivamente fiduciaria, non operano più i meccanismi
(relativamente) automatici del gold standard e, in queste condizioni, la
possibilità di ciascun paese di usare la politica monetaria per esportare
all'estero le proprie difficoltà congiunturali è limitata soltanto dalla
disponibilità degli operatori finanziari e commerciali di altri paesi a
detenere la sua valuta: quanto più disponibilità c'è, tanto maggiori
saranno i gradi di libertà della politica (e della sovranità) monetaria.
Che sarà massima, ovviamente, per quel paese la cui moneta emerga (o venga
imposta) come moneta di riserva internazionale: quest'ultimo, infatti,
godrà di un vero e proprio «signoraggio» (come spiegò vent'anni fa il
compianto Riccardo Parboni), che gli permetterà di comprare merci dal resto
del mondo senza offrire nulla in cambio se non una moneta priva di valore
intrinseco, e riuscirà così a «tassare» gli altri paesi, senza che essi se
ne accorgano, in misura pari al tasso di espansione della massa della sua
moneta in circolazione.

Ciò, naturalmente, non significa che il paese che batte la moneta di
riserva possa variare illimitatamente a proprio favore la redistribuzione
del reddito mondiale via disavanzi commerciali finanziati dall'emissione di
propria moneta: anche per esso, infatti, si pone un confidence problem,
onde l'abuso del torchio monetario potrebbe spingere gli operatori a
convertire la valuta in loro possesso in altre attività, pregiudicando in
tal modo il buon esito della strategia. Piuttosto, vale ad evidenziare una
rilevante asimmetria nella distribuzione del potere nello spazio del
mercato mondiale, dal momento che la sovranità di cui gode il paese
detentore della moneta di riserva non è comparabile con nessun'altra, e
soprattutto evidenzia una potenziale conflittualità fra i membri della
cosiddetta «aristocrazia» mondiale, giacché il paese la cui moneta funge da
«denaro mondiale» si opporrà strenuamente a ogni accordo relativo al valore
esterno della propria moneta e contrasterà ogni tentativo che dovessero
compiere gli altri per istituire riserve valutarie alternative.

Qual è la morale di queste scarne considerazioni? Sulla scorta di un
suggerimento di Marcello de Cecco, si può metterla in questi termini. Il
secolo appena concluso ci consegna due modelli di globalizzazione, entrambi
gestiti dagli stati ma con una differenza fondamentale: il primo modello
cerca di ridurre al minimo lo sviluppo di mercati finanziari
internazionali, che risultano assai difficili da controllare, e tende a
costruire lo spazio economico globale in modo che la divisione
internazionale del lavoro ubbidisca alle necessità espresse dalle strutture
burocratiche degli stati-nazione; il secondo, invece, mette alla propria
base lo sviluppo di un mercato finanziario globale ed è pilotato da quello
stato che riesce a collocarne al proprio interno il «cuore», in modo da
trarne il massimo di beneficio (alla faccia di J.S. Mill) via politica
monetaria. Entrambi sono frutto di precise scelte politiche, ispirate da un
diverso modo di intendere il processo economico e le sue conseguenze
sull'organizzazione sociale: il primo modello è di matrice
euro-continentale, il secondo di ispirazione anglo-americana e, dopo i
«trionfi» della versione inglese dei vent'anni precedenti la Grande Guerra
e la parentesi dei «trenta gloriosi keynesiani», è di nuovo vincente nella
versione americana post Bretton Woods.

E allora? Stante l'impossibilità - ratione militari - di allocare altrove
da Wall Street il centro del mercato finanziario mondiale, l'unico modo di
contrastare gli effetti dirompenti della via americana alla globalizzazione
è quello di indurre gli altri stati a concertare misure capaci di ridurre
la libertà di movimento dei capitali. In quest'ottica - hanno ragione
senz'altro Bellofiore e Brancaccio - l'istituzione di una Tobin tax, al di
là dei vantaggi immediati che potrebbe comportare, avrebbe un impatto
simbolico formidabile, per il solo fatto di imporsi ai governi in forza di
una spinta «dal basso» dei movimenti. Diversamente, possiamo sempre
affabulare d'imperi: non serve a nulla, ma è molto autoconsolatorio.