gli astuti vandali liberisti



     
 
il manifesto - 26 Giugno 2002 
 
Gli astuti vandali liberisti 
FRANCESCO INDOVINA
 
Gli astuti vandali liberisti 
Possibile ci siano beni il cui fine non sia rendere? La Casa delle libertà
sfrutterà monumenti e spiagge, boschi e ville. E il bel paese rischia di
restarne spogliato 
Fare cassa, innanzitutto ma anche eliminare la tutela e la pianificazione
territoriale, fare sanatorie sugli abusi, grandi opere senza controlli.
Governando con piglio autoritario e autoreferenziale sotto l'imperativo del
denaro
FRANCESCO INDOVINA
Il premio Attila, da destinare a quanti, persone o istituzioni, nel corso
della loro attività portino distruzione alla struttura sociale, al
patrimonio storico-ambientale e all'organizzazione del territorio del
paese, dovrebbe essere assegnato, quasi di diritto, alla «casa della
libertà», nonché ai governi espressione di tale maggioranza.
Un'impostazione liberista sta sconquassando la società italiana in tutti i
suoi aspetti, la necessaria modernizzazione del paese non è tanto un
grimaldello, strumento in un certo senso raffinato, ma un piede di porco,
che tutto sfascia. Come i barbari distruggono più di quanto ottengono, una
furia vandalica verso la nostra società è in atto. Che i passati governi di
centro sinistra siano stati investiti in parte della stessa filosofia
liberista, è altra questione. L'idea che «ha da passà a nuttata» pare molto
pericolosa. Liberismo e modernizzazione risultano compromissori per le
coscienze, attraenti, entusiasmanti, ma anche mistificanti per il tasso di
«imbroglio» che contengono.

Il prossimo Documento programmatico del governo sembra avanzi la proposta
di una riduzione delle imposte. Meno soldi allo stato, più disponibilità
per i singoli e le famiglie. Tuttavia contemporaneamente si aumentano i
ticket della salute e aumentano le tariffe dei servizi. Vistosamente il
governo dà con la mano destra, mentre con la sinistra, di nascosto, infila
la mano nei nostri portafogli. È in atto una vistosa ridistribuzione del
reddito verso chi più ha.

Ammettiamo che l'attuale sistema contributivo e la dinamica
dell'occupazione non possano garantire le pensioni future, la soluzione è
stata trovata con la pensione integrativa privata. I lavoratori sono
invitati (obbligati, in certe versioni) a stipularne una; i fondi pensioni,
si favoleggia, attraverso una gestione intelligente ed efficiente
produrranno alti rendimenti, molto più alti che nel sistema pubblico, con
benefici per gli assicurati. Sarebbe bene informarsi: i dipendenti pubblici
della California dal pasticcio (si fa per dire) Enron, hanno subito una
drastica riduzione dei loro investimenti pensionistici. Un caso? Non credo,
la gestione delle imprese, delle borse e della finanza internazionale è
sempre più caratterizzata da speculazione, filibustery, e spoliazioni che
non garantiscono né i proprietari, né i consumatori, né i fornitori.

Un aumento dei contributi verso il sistema pubblico poteva avere effetti
migliori sul piano delle garanzie future, ma così sarebbe stato necessario
che le imprese contribuissero e non si sarebbe alimentato il settore
assicurativo (conflitti di interesse a parte). Tutto questo è fondato
sull'esaltazione della scelta individuale: lo stato preleva meno soldi, le
disponibilità di ciascuno aumentano e ciascuno decide liberamente dove
curarsi, dove studiare, dove assicurasi, dove servirsi, ecc. La
«liberazione» dall'oppressione statale è solo mistificazione: la
maggioranza delle persone, non sto parlando solo dei poveri o dei meno
fortunati, è oggettivamente obbligata ad andare all'ospedale pubblico o
convenzionato e pagherà il «giusto» ticket, pochi sono quelli che potranno
scegliere di curarsi in Svizzera o in Usa. La maggioranza sarà costretta
alla pensione integrativa e verserà ad «efficienti» fondi pensioni quote
mensili del suo reddito con la speranza che il suo fondo non sia coinvolto
in qualche crac (tiene poco anche la Fiat). In sostanza dovremo tutti
pagare di più.

Provvedimenti approvati, in itinere, o presentati dal governo (Legge
Obiettivo, Disposizione in materia di infrastrutture e trasporti, vari
articoli delle finanziarie, ecc., nonché, recentemente, la formazione della
Patrimonio spa e della Infrastrutture spa) hanno determinato un nuovo
codice di comportamento nei riguardi del territorio e del patrimonio
storico-ambientale. Tre i principi di fondo: fare cassa (un criterio che è
stato, soprattutto negli enti locali, anche del centro sinistra), ridurre
fino a eliminarla ogni ipotesi di pianificazione e, contro ogni
federalismo, accentrare le decisione e renderle indiscutibili (al massimo
si possono «migliorare»). Tutta la precedente legislazione di salvaguardia
e di corretta gestione (Ronchey, Merloni, Compagna, Ronchi, ecc.) è
continuamente manomessa e disattesa, senza dire delle procedure di
sanatoria, per lo più regionali, su tutti gli abusi. Infrastrutture, centri
storici, rifiuti, rifiuti pericolosi, parchi, fiumi, organizzazione dello
spazio, tutto è sottoposto a revisione, l'unico imperativo è quello del
denaro (nella versione di far risparmiare alle imprese, di fare cassa, di
governare con piglio autoritario e autoreferenziale). Su tale materia,
Italia Nostra ha predisposto un dettagliato dossier sul quale fa una
campagna politica da sostenere.

In questi giorni l'attenzione dell'opinione pubblica è stata focalizzata
dall'ultima trovata del nostro ministro del Tesoro: l'approvazione del
decreto costitutivo delle società, Patrimonio spa e la Infrastrutture spa.
Un'approvazione che ha messo in fibrillazione la stessa maggioranza, con
scambio di insulti tra uomini di governo.

Il principio è banale (volgare) e allettante: perché non fare fruttare
l'enorme patrimonio, anche storico, artistico e ambientale del paese?
Perché non trasformare un costo in un rendimento? Cosa osta a vendere
caserme e palazzi? I beni demaniali sono proprio del tutto non cedibili?
Non è bene che la concessione di essi renda bene? Perché il patrimonio
artistico non possa essere gestito in modo da dare rendimenti? non può
essere dato in garanzia? Tutte domande apparentemente legittime e,
suadentemente, in attesa di risposte affermative.

Che ci possano essere dei beni pubblici la cui finalità non sia il
rendimento, che essi incarnino altri valori che sebbene non monetari non
hanno minore ma, forse, maggiore valenza che gli euro, non pare a questa
maggioranza immaginabile. Al massimo possono pensare che ci sono dei beni
invendibili, perché non hanno mercato (come la fontana di Trevi), ma per
quanto possibile direttamente o indirettamente devono poter rendere.

L'intervento del capo dello stato è sembrato liberatorio dell'ansia
nazionale; come è noto, ha accompagnato la firma della legge costitutiva
delle due società prima citate, con una lettera al presidente del consiglio
che richiama al «rispetto dei requisiti e delle finalità dei beni
pubblici». Sono stati messi, come si dice, dei paletti, ma non c'è tanto da
stare tranquilli, le trappole sono infinite.

La dichiarazione del ministro dei beni culturali sull'impossibilità di fare
una lista dei monumenti incedibili la dice lunga sulle riserve mentali.
Questo non vuol dire che la formazione della lista sia facile, ma il
ministro, ammesso che la dizione «monumento» non sia di per sé impedimento
alla vendita, avrebbe potuto proporre di elaborare la lista del cedibile,
mettendosi così a rischio. Non è nel suo stile. Né pare fornire
tranquillità il fatto che il Cipe deciderà collegialmente cosa vendere, lì
Tremonti la fa da padrone.

L'affermazione che nessuno pensa di vendere il Colosseo ci inquieta.
Vendere forse no, chi lo comprerebbe? ma valorizzarlo? Per esempio
concedendolo a qualche società che possa usarlo come arena dei nostri tempi
per eventi di violenza postmoderna (si ha presente il film Roller Ball),
magari a questa stessa società potrebbero essere affidati, da una nuova
legge Bossi/Fini, degli extra-comunitari clandestini per farne dei
gladiatori dell'era postmoderna (ovviamente con il loro personale consenso,
politically correct). Ma in questione non c'è il Colosseo o la fontana di
Trevi, ma tutto il resto.

Niente di più ragionevole, per esempio, di sdemanializzare e vedere le
caserme inutilizzate, ormai in zone centrali. Ma il ministro per fare più
cassa deve venderle con una destinazione d'uso la più remunerativa
possibile. Non ci si potrà meravigliare che inventi una nuova tipologia di
asta: le offerte saranno accompagnate dalla destinazione d'uso desiderata;
chi vince decide anche la destinazione d'uso. Ma le amministrazioni locali
che hanno piani, che hanno previsto destinazioni diverse, e ogni
destinazione proietta effetti diversi sull'intorno e sulla città
complessiva, che fanno? Semplice, abrogano i loro piani, per loro ha deciso
il ministro e il vincitore dell'asta. Quello che vale per le caserme vale
per ville, palazzi, ed ogni cosa che sia ammessa alla vendita.

Il problema non è tanto che qualcosa possa essere sdemanializzato, venduto
o valorizzato, ma l'impostazione generale che guida l'azione del governo,
che suona: tutto è vendibile e valorizzabile tranne quello che solleva
scandalo. Così tutto il patrimonio viene trasferito alla Patrimonio spa, la
quale ne può cedere una parte alla Infrastruttura spa, che la userà come
garanzia, e se la garanzia non andasse a buon fine verrà... ceduta. Il
presidente della repubblica ha sottolineato che non può essere ceduto a
Infrastrutture spa il patrimonio non alienabile, ma il patrimonio non
alienabile non può essere definito, e così il cerchio si chiude ed il paese
rischia; o qualcosa di più, di essere spogliato.