una societa' da paura globale



     
 
il manifesto - 11 Giugno 2002 CULTURA pagina 13 
 
Una società da paura globale 
BENEDETTO VECCHI
 
 
Una società da paura globale 
La mobilità dell'élite globale contrapposta alla sedentarietà della
forza-lavoro. Una contraddizione sistemica nell'era della «modernità
liquida» in cui uomini e donne non possono pianificare la propria vita e la
precarietà è elevata a sistema. Il nuovo libro di Zygmunt Bauman «La
società indivualizzata»
BENEDETTO VECCHI
«Si parla di me, dunque sono». E' questa la frase usata da Zygmunt Bauman
per indicare il ruolo persaviso dei mass-media nella società della
«modernità liquida». Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da chiosare.
Ma sarebbe un errore, perché il sociologo d'origine polacca scrive della
«mediocrazia» per analizzare la crisi dell'università nella formazione
dell'opinione pubblica e per evidenziare la perdita di legittimazione che
la caratterizza in quanto istituzione predisposta, storicamente, nella
elaborazione della coscienza critica della società. Per Bauman, infatti,
l'accresciuto peso dei mass-media non va visto solo come lo svuotamento
dell'agorà, ma come un processo sociale che, in nome del pluralismo, punta
a rompere il monopolio dell'università nell'accesso al sapere e alla
conoscenza. Un processo sociale tuttavia niente affatto democratico, perché
mina alle fondamenta l'autonomia dell'università e a cui i deposti custodi
del sapere - i docenti - reagiscono diventando i paladini del libero
mercato, in base alla quale è la legge della domanda e dell'offerta a dover
indirizzare le politiche dell'educazione. Niente di più errato e suicida,
aggiunge Bauman, che subito dopo provocatoriamente si domanda non tanto
«che cosa fare», ma «chi potrebbe agire» in questo triste panorama. Una
domanda che trova una risposta proprio nei docenti in quanto, si potrebbe
dedurre, intermediari tra il sapere accumulato e chi vuole accedervi.
Inoltre, è proprio l'autonomia dell'università a garantire
quell'«apprendimento di terzo grado», studiato a suo tempo da Gregory
Bateson per designare una patologia della personalità derivante dalla
dissoluzione dei legami sociali «primari» (il sesso e la classe) e ora
indispensabile attitudine a reagire prontamente all'imprevisto e alla
mutevolezza della «modernità liquida».

Questo sull'«Istruzione nell'era postmoderna» è solo uno dei saggi che
compongono l'ultimo libro di Zygmunt Bauman La società individualizzata,
pubblicato dalla casa editrice bolognese il Mulino (pp. 318, 16 euro), e
che al pari degli altri riprende, riarticolandoli, i temi che hanno
caratterizzato la sua riflessione negli ultimi trent'anni. C'è ovviamente
il declino degli intellettuali, spodestati dal ruolo di «sacerdoti» della
modernità e ridotti a salariati dell'industria culturale; c'è la crisi
della democrazia, esplosa in tutta la sua virulenza con la la formazione di
un'élite globale che si «disimpegna» dagli affari pubblici dello
stato-nazione, ridotti sempre più a merce di scambio dalle rabbiose e
rancorose declamazioni di chi sostiene le ragioni di una improbabile
comunità. Anche il filo rosso della sua riflessione sullo stato sociale è
ripreso in questo libro (il saggio «Sono forse il custode di mio
fratello?»), questa volta però l'accento è posto sulla dimensione etica che
è alla base del welfare state, arrrivando alle conclusione che lo stato
sociale è l'esperienza più alta e nobile che il capitalismo è riuscito a
produrre nella sua storia secolare. Inoltre, come ogni sociologo di razza,
Bauman è attento anche a quelle manifestazioni dell'agire sociale che
trovano poco spazio nelle agende delle «politiche della vita», come l'amore
e la sessualità. E così i due saggi «L'amore ha bisogno della ragione?» e
«Sugli usi postmoderni del sesso» mettono sotto il microscopio della
critica la colonizzazione dello «spazio pubblico da parte del privato» che
rappresenta la postmoderna propensione «totalitaria» del capitalismo
flessibile. Ma il vero rovello di Bauman in questo, come nel precedente
volume Modernità liquida (Laterza), è la globalizzazione economica in
quanto rottura irreversibile di assetti sociali, istituzionali, financo
culturali che hanno caratterizzato la modernità.

Definizioni univoche sulla globalizzazione, come è noto, non ne esistono,
ma quella di Bauman si caratterizza per la sinteticità: «la globalizzazione
è la svalutazione dell'ordine in quanto tale». Una definizione decisamente
ambivalente, cioè un processo sociale, economico e culturale che si apre a
differenti sviluppi. E come in ogni processo sociale, verrebbe questa volta
da sottolineare, quel che conta sono i rapporti di forza presenti
all'interno della società. In ogni caso, la critica permanente all'ordine
costituito prefigura sempre una maggiore libertà di uomini e donne, perché
l'ordine costituito è sinonimo della subordinanzione di uomini e donne a
istituzioni che pongono limiti alla loro autodeterminazione e ai loro
progetti di vita. Ma nella realtà attuale la «svalutazione dell'ordine» ha
l'effetto di una vera e propria apocalisse culturale, determinando una
situazione in cui l'allentamento o la dissoluzione dei legami sociali non
favoriscono la crescita della libertà, quanto la diffusione di un
sentimento di panico, il quale a sua volta alimenta una «economia politica
dell'insicurezza» in cui la mobilità o, all'opposto, la sedentarietà
determinano la posizione occupata nella stratificazione sociale. Questa
presenza o assenza della libertà di movimento che spiega i diffusi
comportamenti opportunistici della moltitudine in una realtà dove il futuro
è percepito come una minaccia. In altri termini, l'opportunismo è per
Bauman la scelta razionale di chi sente minacciata la personale «politica
della vita». (Non è la prima volta che Bauman utilizza l'espressione
«politica della vita»: di sicuro è in questo libro che usa, senza mai
approfondirlo nelle sue valenze teoriche e politiche, il termine moltitudine).

L'unica libertà garantita nella «modernità liquida» è quella del movimento
dei capitali e delle élite globali, mentre alla «moltitudine» è riservata
la sedentarietà e la dannazione a rimanere ancorati a un luogo. In questa
tenaglia tra chi è libero di muoversi e chi è confinato negli spazi
circoscritti della nuda vita vige però il paradosso che è l'apologia del
potere che gli individui hanno nell'autodeteminare il proprio progetto di
vita a costituire la weltanschauung dominante nella «società
individualizzata». L'abisso che si apre tra l'individualità come «pratica
di autoaffermazione» e la limitata capacità di controllare il contesto
sociale in cui l'autodeterminazione del proprio progetto di vita dovrebbe
realizzarsi conduce alla condanna a morte della «soluzione biografica delle
contraddizioni sistemiche». Di fronte alla libertà di movimento della élite
e alla costrizione alla sedentatarietà della moltitudine, la politica è
ridotta a pura amministrazione dell'esistente, cioè è preposta a dimostrare
al capitale che è libero di andar via quando vuole.

Il principio di individuazione operante nel capitalismo flessibile, o nella
modernità liquida, è purtuttavia inscritto, cioè è ingabbiato all'interno
di contraddizioni sistemiche. Per Bauman, la massima esemplificazione
dell'ambivalenza assunta dalla retorica dell'individualità è data dal
declino del lavoro, o meglio dall'ascesa della precarietà a sistema della
relazioni tra capitale e lavoro, il cui conflitto ha costituito e tutt'ora
costituisce la contraddizione sistemica per eccellenza.

Vista da questo osservatorio la «società individualizzata» risplende in
tutta la sua ambivalenza. La promessa del paradiso in terra diventa
l'inferno vissuto quotidianamente da uomini e donne, mentre la precarietà
diventa il più sofisticato e perfetto strumento di sottomissione e
controllo che la modernità è riuscita a produrre. Non c'è quindi nessun
governo coatto del corpo come denunciava Michael Foucault. Semmai c'è la
trasformazione delle istituzioni della «riproduzione sociale» in apparati
predisposti alla produzione di addomesticate soggettività.

Questa passaggio dallo stato sociale al workstate vede impegnata non solo
l'università, ma tutto il ciclo della formazione che caratterizzava il
welfare state. La scuola è il luogo deputato a formare l'«uomo flessibile»;
la sanità, dal canto suo, non punta più alla cura del corpo, ma a renderlo
episodicamente efficiente e pronto ad adeguarsi ai ritmi del lavoro e alle
mutevolezze del mercato del lavoro, i trasporti diventano un optional
gradito solo nel caso servano a ridurre il tempo di circolazione delle
merci, compresa quella della forza-lavoro.

La trasformazione del welfare state in istituzione e norme per l'avviamento
al lavoro - un lavoro, va da sé, precario e i cui diritti sono subordinati
alla libertà di movimento del capitale - non è certo indolore. Il saggio
dedicato alle «identità» evoca gli studi di Bauman dedicati alla comunità.
Seguendo il filo rosso della sua riflessione, si potrebbe dire che il
linguaggio politico della moltitudine costretta alla sedentarietà è quello
soffocante, populista e reazionario della comunità. Ma anche in questo
caso, l'ambivalenza è la regola principale. L'autore infatti parla
espressamente di «razionalità» di alcuni comportamenti opportunistici e
cinici della moltitudine. Ma è pur sempre una razionalità disperata (e
disperante), di chi non vede alternative allo stato di cose presenti o di
chi cerca una soluzione biografica a contraddizioni sistemiche. Una
soluzione impossibile, ovviamente, ma da cui partire non per indulgenza nei
confronti della società individualizzata, ma per rompere scardinare quella
retorica dell'individualità che costringe il desiderio di libertà nella
camicia di forza del capitalismo flessibile.