capitalismo digitale



 
il manifesto - 11 Maggio 2002 
 
Il capitalismo digitale del XXII secolo 
Finalmente tradotto in italiano «La nascita della società in rete» di
Manuel Castells, catalano in fuga dal franchismo e docente a Berkeley dal
1979. Parte di una trilogia pubblicata negli Usa nel 1996, è una analisi
rigorosa e approfondita del modello produttivo dominante: l'impresa a rete.
Una mappa del capitalismo globale, dal Giappone all'Italia, e del
conseguente mercato del lavoro segnato dalla flessibilità e dalla
superiorità dell'animale umano nell'elaborare simboli come principale forza
produttiva
BENEDETTO VECCHI
Un lavoro spudoratamente ambizioso, quello di Manuel Castells, docente a
Berkeley dal 1979, dopo la fuga dalla Spagna franchista negli anni Sessanta
e una intensa parentesi parigina alla Ecole des hautes ètudes dove ha
lavorato a stretto contatto con Alain Touraine. Castells, noto per la sua
teoria delle città «informazionali», ha voluto infatti elaborare una
lettura «forte» della moderna società capitalistica, partendo dal
presupposto che è in atto una turbolenta transizione da uno società
industriale a una società appunto «informazionale», caratterizzata dal
ruolo strategico che ha la conoscenza e la capacità umana di elaborare
simboli nel produrre la ricchezza. Il risultato del suo impegno di docente
e ricercatore è, per così dire, condensato in una trilogia sull'età
dell'informazione, mandata alle stampe nella prima metà degli anni `90 e
considerata, nell'ovattato mondo accademico statunitense, un'opera
paragonabile, se non superiore, ai classici della sociologia anglosassone.
Le iperboli si sprecarono per The age of information. Più modestamente,
l'autore ha sempre sostenuto che la sua era solo una tappa di un più
generale lavoro di indagine sulle trasformazioni sociali, politiche ed
economiche del capitalismo. La prima edizione della trilogia fu pubblicata
negli Stati uniti nel 1996 e comprendeva The rise of network society, The
power of identity e The end of millennium ed era il risultato dell'analisi
critica di quanto la pubblicistica aveva prodotto sulla società
capitalistica - a questo proposito, la bibliografia offerta da Castells
colpisce per numero e varietà dei libri citati - e l'elaborazione delle sue
ricerche sul ruolo della tecnologia, sull'organizzazione produttiva, sulla
esplosione di conflitti legati alle identità autoctone negli Stati uniti,
in Giappone, in Europa e in America latina. Va detto che l'eco della prima
crisi globale della società dell'informazione, originata in Asia dallo
sgonfiamento di una bolla speculativa, considerata dai più come un
incidente di percorso, era invece suonata a Castells come un campanello
d'allarme, assieme all'esplosione del web, che lo aveva spinto a una
revisione della trilogia terminata tre anni più tardi. Ed è proprio questa
seconda edizione che la casa editrice dell'Università Bocconi di Milano ha
deciso di tradurre, dando vita a un programma di pubblicazione che ha visto
come prima uscita La nascita della società in rete (Università Bocconi
editore, pp. 598, 34.50 euro), mentre è in previsione per la fine dell'anno
la pubblicazione de Il potere delle identità.

La nascità della società in rete mantiene intatta la sua capacità
analitica, nonostante l'uscita in questi ultimi tre anni di moltissime
opere dedicata alla globalizzazione economica o al capitalismo flessibile.
E' appunto un libro ambizioso, perché si prefigge l'obiettivo di tracciare
una mappa del capitalismo mondiale partendo dalla convinzione che «ciò che
è cambiato non è il tipo di attività che impegna l'umanità, ma la sua
abilità tecnologica nell'impiegare come forza produttiva diretta ciò che
contraddistingue la nostra specie come eccezione biologica: la sua
superiorità capace di elaborare simboli». Questa centralità della natura
generica dell'essere umano - cioè la sua «superiorità capace di elaborare
simboli» attraverso il linguaggio - ha potuto dispiegarsi solo attraverso
una specifica tecnologia, quella digitale del computer. Ma Castells, memore
dei suoi trascorsi marxisti (un marxismo però sempre mediato dallo
strutturalismo), sostiene che il «capitalismo informazionale» si
caratterizza comunque per la pervasività nella «ricerca del profitto nei
rapporti capitale-lavoro», avviando una «globalizzazione della produzione,
della circolazione e dei mercati alla ricerca, in ogni luogo, delle
condizioni più vantaggiose per la realizzazione dei profitti»,
assicurandosi, al contempo, «l'appoggio dello stato per aumentare la
produttività e competività delle economie nazionali, spesso a scapito della
protezione sociale e delle regolamentazioni di interesse pubblico».

La storia della tecnologia presentata da Castells è a suo modo
affascinante, perché mette sempre in rapporto lo sviluppo tecnologico con
le politiche statali a sostegno della ricerca scientifica, sia quando
scrive del Giappone nel XIII secolo che degli Stati uniti del XXI secolo.
Con un'accurata ricerca bibliografica, sostiene infatti che la burocrazia
imperiale giapponese agli albori della modernità ha ostacolato la ricerca
scientifica per paura di perdere potere a favore di una «nuova classe di
mercanti», determinando una marginalizzazione del Sol levante nell'economia
mondiale per molti secoli. Lo stesso conflitto tra burocrazia e attività
scientifica si è avuta in Cina più o meno nello stesso periodo. Solo con la
II guerra mondiale e con la rivoluzione in Cina, lo stato ritorna a essere
il protagonista in questi due paesi in quanto motore dello sviluppo della
ricerca scientifica. La lunga stagione dello «stato sviluppista» che ha
garantito le condizioni «ambientali» - cioè sociali, politiche, financo
scientifiche - per la crescita economica non ha riguardato solo Cina e
Giappone, ma anche Thailandia, Singapore, Macao, Hong Kong, ma superpotenze
economiche del vecchio continente e gli Stati uniti.

Silicon Valley, infatti, non sarebbe mai diventata ciò che è senza gli
ingenti finanziamenti del ministero della difesa negli anni `40 e `50: un
fiume di dollari che ha permesso a imprese fino ad allora sconosciute di
diventare i pilastri dell'innovazione tecnologica. Un impegno statale che
ha avuto però una peculiarità: ha garantito una parziale autonomia al mondo
accademico. Così, le università, prime beneficiarie dei finanziamenti
statali, sono state l'interfaccia tra imprese e ministero della difesa
statunitense, ma non hanno quasi mai finalizzato un progetto di ricerca a
immediate ricadute produttive, lasciando così i ricercatori liberi di
seguire la propria «creatività». Il compito di tradurre «produttivamente» i
risultati della ricerca scientifica è spettato alle legislazioni inerenti
al copyright e ai brevetti che di fatto hanno trasformato la scienza in una
merce come le altre.

Da un lato, massima libertà alla creatività di ricerca, dall'altra
dispositivi legislativi che riducono i risultati a input nel processo
produttivo in quanto merce tra le merci. Lo spirito libertario refrattario
all'ordine gerarchico della comunità scientifica è quindi vissuto all'ombra
del dipartimento della difesa, mentre la critica corrosiva alla burocrazia
delle grandi organizzazioni tipica del mainstream accademico statunitense è
stata usata dai cantori del libero mercato come testa d'ariete ideologica
per demolire il modello organizzativo della grande impresa.

La descrizione della globalizzazione della produzione occupa molte pagine
de La nascità della società in rete. Ma per Castells va sgomberato il campo
dalle simmetrice letture sul piccolo e bello e sull'avvento di
megagalattiche imprese transnazionali. Il futuro del capitalismo
informazionale non sta nelle piccole imprese, né su imprese transnazionali,
quanto nello sviluppo di reti di imprese grandi e piccole che hanno
caratteristiche transnazionali, cioè in quella dinamica che Castells
definisce cross-border network. L'impresa del futuro sarà quindi a rete,
con precise gerarchie, nodi di comando e condizioni di subalternità. Anche
in questo caso, Castells si avvale di una mole ingente di dati e inchieste
sul campo. La produzione di merci è quindi sociale e ha come orizzonte il
pianeta terra. Questo non significa che alcune regioni del mondo non si
specializzino in alcune produzioni e questo spiega perché alcuni paesi del
Sud del mondo hanno conosciuto recenti processi di industrializzazione. Ma
in un'impresa a rete, come d'altronde illustra bene lo sviluppo di
Internet, ogni nodo svolge un ruolo ben specifico, ma può essere bypassato
nel caso che le condizioni «ambientali» di quello specifico nodo non
soddisfino più i requisiti di competività e di ricerca del profitto
definiti dalla logica dominante nella rete produttiva. In questo senso, la
comparazione tra modelli locali di capitalismo - quello asiatico, il
renano, lo statunitense e quello del nord-est italiano - è la descrizione
del diverso potere tra i centri di progettazione della rete produttiva e i
singoli nodi, nonché del diverso grado di internità del potere politico con
il capitalismo informazionale. E se in Giappone il potente ministero
dell'industria e del commercio svolge il ruolo di «capitalista collettivo»,
la parentela e i legami familiari sono favoriti dallo stato cinese nelle
regioni a statuto speciale. Diverso è il caso degli Usa, dove lo stato
garantisce le condizioni giuridiche dei rapporti tra imprese, della
proprietà intellettuale e del rapporto tra capitale e lavoro. Per quanto
riguarda l'Europa il riferimento è al welfare state e alla relazioni di
tipo neocorporativo tra imprese e sindacati, mentre la terza Italia viene
vista come il laboratorio per un originale tentativo di intervento minimale
dello stato, che garantisce però, anche se a livello locale, quelle
infrastrutture e erogazione di servizi sociali, indispensabili piattaforme
per garantire lo sviluppo di modelli imprenditoriali basati sulla parentela
e i legami familiari.

La nascita della società in rete passa poi in rassegna il modello
occupazionale del capitalismo informazionale, operando una critica radicale
delle teorie sul post-industriale, sulla società dei servizi e della fine
del lavoro. Nell'era dell'informazione si lavora molto, si è mobili -
significativa è l'analisi sui migranti, in particolare quando l'autore non
parla di fuga dei cervelli, ma di circolazione dei cervelli -, cresce
l'occupazione nelle imprese di servizio alla produzione nelle quali spesso
nascondono lavoro operaio. E tuttavia emerge una figura lavorativa
«inedita» che miscela lavoratori poveri e knowledge workers, salariati
classici e consulenti ad alta specilizzazione. Questo bacino del lavoro
sociale ruota attorno al flexible worker, cioè una forza-lavoro precaria e
intermittente e purtuttavia espressione di quella capacità di elaborare
simboli, cioè la principale forza produttiva del capitalismo informazionale.

Per quanto riguarda La nascita della società in rete non è in discussione
la potenza descrittiva di alcune tendenze in atto, quanto il valore
euristico assegnato a un malcelato strutturalismo in base al quale nel
capitalismo informazionale, ma questo vale per ogni tipologia di società, è
all'opera una logica sistemica che tutto sovradetermina, cancellando così i
soggetti e i rapporti di forza tra le classi di cui c'è comunque traccia
nel libro di Castells.

Il merito di Castells sta nell'aver compiuto una poderosa messa in
discussione dei miti del libero mercato, della fine dello stato e del
lavoro. Ha precisato quale è il modello produttivo dominante - l'impresa a
rete -, ricondando che virtualità va intesa come regno del possibile. Ma il
sentiero del possibile si biforca e di fronte al bivio Castells spesso si
dimentica di mettere al centro dell'analisi quali forze sociali,
inprenditoriali, politiche entrano in campo per dirimere il persistente
conflitto tra il lavoro vivo e il comando dell'impresa a rete. La sua
società in rete è sì percorsa da conflitti, ma che attengono solo alla
«identità». Ma i conflitti della società in rete parlano linguaggi che solo
a una prima lettura appartengono alla sfera della riproduzione sociale.
Semmai sono tutti interni a quella produzione sociale in cui le forme di
vita sono da considerare la posta in gioco per chi vuol piegare il bacino
del lavoro vivo alla logica del capitalismo informazionale.