i predatori dell'aids



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LE MONDE diplomatique - Febbraio 2002  
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 LO SCANDALO STAVUDINA 
I predatori dell'Aids 


Il 15 gennaio scorso, la Pfizer, la più grande industria farmaceutica del
mondo, si è impegnata a consegnare alla temibile Corte dei conti del
Congresso degli Stati uniti (Gao) i dati contabili indispensabili alla
verifica dei prezzi dei medicinali. Dieci case farmaceutiche hanno fatto
altrettanto. Ma, per ottenere i documenti, c'è voluto un ordine formale da
parte del Gao. Già nel settembre 2001 le autorità americane avevano
costretto la Bayer a ridurre il costo di un medicinale contro il
carbonchio. Negli Stati uniti, infatti, come del resto in Europa,
cominciano a destare allarme gli esorbitanti profitti dell'industria
farmaceutica, che oscillano tra il 15 e il 25 % del loro fatturato. Nei
paesi ricchi, le scelte produttive e le politiche tariffarie delle case di
produzione configurano un vero e proprio racket; nei paesi poveri, le loro
decisioni impediscono alla maggioranza della popolazione di curarsi. Da
questo punto di vista è esemplare la storia della stavudina, un farmaco
contro l'Aids: la molecola, nata dalla ricerca universitaria, è stata
concessa in esclusiva alla Bristol-Myers Squibb, che ne ha ostacolato la
commercializzazione nei paesi più colpiti dalla pandemia... 

un'inchiesta di PHILIPPE DEMENET * 
Avrebbero potuto chiamarlo Stavudine Building. Il nuovo edificio sorge
vicino alla Medical School, non lontano dai «college» neo-gotici e dalle
biblioteche stile medioevo dell'Università di Yale, a New Haven
(Connecticut). Non è con le sovvenzioni né con le tasse d'iscrizione che è
stata pagata, in contanti, la metà dei 176 milioni di dollari con cui è
stato costruito questo nuovo tempio della ricerca, ma con le royalties di
un medicinale contro l'Aids, scoperto e brevettato dall'università.
Da quando è stata immessa sul mercato, nel 1994, la stavudina (1) ha fatto
guadagnare a Yale almeno 261 milioni di dollari (292 milioni di euro) (2).
Il medicinale, che rappresenta il 90% delle royalties incassate
dall'università, l'ha immessa d'autorità nel plotone di testa delle
università americane che più hanno beneficiato dei diritti di proprietà
intellettuale. Gli atenei, infatti, restano proprietari delle invenzioni
realizzate (3), anche se, a Yale come altrove, l'80% dei budget della
ricerca biomedica è finanziato dai fondi pubblici federali del National
Institute of Health (Nih).
Ma un'invenzione brevettata non vale niente se non viene immessa sul
mercato. Nel 1988, due anni dopo aver depositato il brevetto (4),
l'università concede quindi al gigante farmaceutico Bristol-Myers Squibb
(Bms) i diritti esclusivi di sfruttamento della sua invenzione.
Grazie a questa «licenza esclusiva», la Bms si garantisce il monopolio in
tutti i paesi del mondo in cui l'università ha depositato il brevetto:
Stati uniti, Europa, Canada, Australia, Sudafrica... Ciò significa che la
compagnia è libera di fissare i prezzi come meglio crede: nel caso
specifico vende una pastiglia di 40 mg (la dose giornaliera è di due
pastiglie) a una media di 4,28 dollari (5).
Commercializzata con il nome di Zerit®, la stavudina conosce una carriera
folgorante. Pietra angolare della triterapia, a partire dal 1998 il
medicinale diventa l'antiretrovirale più prescritto nel mondo. In due anni
e mezzo (dal 1998 al primo semestre 2001), la Bms ne vende per più di 2,3
miliardi di dollari, soprattutto in Europa occidentale e negli Stati uniti.
In Sudafrica, il paese più colpito dalla pandemia (6), le vendite restano
invece insignificanti (600mila dollari nel 1998). A 2,23 dollari la dose,
lo Zerit rimane inaccessibile.
Durante tutto il 2001, il farmaco si trova al centro della battaglia per
l'accesso dei più poveri ai medicinali. Apre le ostilità il pronto
intervento sudafricano di Medici senza frontiere (Msf). Nel febbraio 2001,
il suo rappresentante, il dottor Eric Goemaere, scrive a Jonathan
Soderstrom, direttore dell'Office for Cooperative Research di Yale che
gestisce brevetti e licenze. Msf, che ha ricevuto il premio Nobel per la
pace nel 1999, chiede all'università «di autorizzare l'importazione [in
Sudafrica] di una versione generica della stavudina per garantire il
trattamento gratuito delle persone colpite da Hiv/Aids». Nella lettera si
fa anche menzione dell'offerta della Cipla Ltd, un'industria indiana, che
propone una versione generica della stavudina «trentaquattro volte meno
cara» dello Zerit.
Yale rinvia la palla alla Bms, che la rimanda a Yale. A fine febbraio,
quando trentanove compagnie farmaceutiche citano in giudizio il governo
sudafricano perché ha autorizzato il ricorso alle «licenze obbligatorie» in
caso di urgenza sanitaria, il campus di Yale entra in fermento.
Una studentessa di giurisprudenza, Amy Kapczynski, sostenuta da un
sindacato universitario, il Graduate, Employees and Students Organisation
(Geso), fa circolare una petizione a favore della richiesta del pronto
intervento medico.
Fra le 600 firme raccolte fra studenti, tecnici e ricercatori, c'è quella
del dottor William Prusoff, 81 anni, il quale, insieme al dottor Tai-Shun
Lin (oggi deceduto), ha evidenziato le proprietà della stavudina nel
trattamento dell'Aids (7). «Nessuno dovrebbe morire per motivi economici,
perché non può comprarsi un medicinale - afferma - . Sarei molto contento
di non percepire più alcuna royalty, se questo potesse servire a sradicare
la malattia».
Yale, infatti, distribuisce ai suoi ricercatori il 30% delle royalties
percepite. «Ultimamente - calcola l'anziano professore (che incassa solo la
metà del totale) - la mia quota ha raggiunto i ... 5,5 o 6 milioni di
dollari l'anno». Come mai tutto questo denaro? Non ha semplicemente fatto
il suo lavoro di ricercatore? «Non sono un uomo avido di denaro ma perché
le università dovrebbero permettere che le compagnie farmaceutiche si
riempiano le tasche con le nostre invenzioni?».
Una magra vittoria Come la maggior parte dei ricercatori della Medical
School di Yale, il dottor Prusoff minimizza l'importanza del suo apporto e
nega di poter influire sulle scelte della compagnia privata che sfrutta la
sua scoperta. «Posso sempre esprimere la mia opinione. Ma non è detto che
mi ascoltino», scherza. Può darsi, ma ancor prima che gli studenti
consegnino la loro petizione a Soderstrom, la Bms ha già fatto marcia
indietro. Il 14 marzo la compagnia, che ha sede a New York, annuncia una
drastica riduzione dei prezzi in Sudafrica e s'impegna a non perseguire in
giudizio un eventuale produttore di generici.
Il risultato dello scontro lascerà insoddisfatti gli attivisti di Yale.
L'università non ha rinunciato al suo brevetto sulla stavudina in Sudafrica
e non ha rimesso in discussione l'accordo con la Bms.
«In Sudafrica - dice Eric Goemaere - utilizziamo la stavudina della Bms,
perché, anche grazie ad Amy Kapczynski, i prezzi sono crollati».
Aspen Pharmacare, un produttore sudafricano di generici, attende di poterne
produrre una copia. «Ma tra Aspen e Bms non è stato firmato alcun accordo -
spiega Goemaere - . La compagnia sudafricana non ha ottenuto né
informazioni sulla molecola, né trasferimento di tecnologia.
Al contrario di altri, la Bms sembra aver ridimensionato notevolmente le
sue ambizioni. Ma la drastica riduzione dei prezzi le ha permesso di
scoraggiare la concorrenza e di impedire, almeno finora, la produzione di
generici».
«Il centro decisionale continua a restare negli Stati uniti - afferma con
rimpianto Amy Kapczynski - . Non è per questo che abbiamo lottato! Chi ha
bisogno di questi trattamenti deve avere voce in capitolo nelle decisioni.
Se Yale avesse rinunciato al suo brevetto locale, sarebbe stato diverso. Si
sarebbe potuta avviare una concorrenza reale. Ma se avesse rinunciato al
brevetto o rotto il contratto, Yale avrebbe toccato un tasto estremamente
delicato: quello delle relazioni tra università e industrie».
Su questo, come sul resto, la Bms rifiuta di esprimersi. Ma l'analisi è
confermata da Soderstrom: «Tra la Bms e l'università non c'è mai stato il
benché minimo contrasto - afferma - . La nostra comune preoccupazione era
trovare la risposta giusta [alla richiesta di Msf]. Non potevamo decidere,
noi di Yale, un'azione unilaterale. Abbiamo un accordo di licenza e da anni
portiamo avanti diversi programmi di ricerca con la Bms».
E infatti, la compagnia newyorkese sponsorizza ogni anno, a Yale, sia il
simposio Bms che il Graduate Student Research Symposium, che favorisce
l'incontro tra i laureati in scienze biomediche e i loro futuri datori di
lavoro. Alcuni dirigenti della Bms hanno svolto mansioni di grande
responsabilità a Yale e la compagnia - come ricorda Soderstrom - ha
finanziato molti programmi di ricerca sull'Alzheimer, il cancro, l'Aids...
«Certo, le industrie farmaceutiche a volte esagerano coi prezzi! -
riconosce il dottor Prusoff - . Ma noi dipendiamo da loro. Ci aiutano
enormemente: Yale non ha i mezzi né tecnici né finanziari per produrre un
medicinale. Perché il farmaco arrivi ai pazienti deve essere approvato
dalla Food and Drug Administration (Fda) il che richiede costosissime
sperimentazioni sull'uomo. Spesso succede che un medicinale si riveli
tossico. Sono milioni di dollari investiti in pura perdita. Tenendo conto
dei rischi, tra la scoperta e l'immissione sul mercato, bisogna calcolare
dai 500 agli 800 milioni di dollari!» Ma da dove ricava queste cifre, che
ha anche citato anche in un intervento pubblicato, il 19 marzo 2001, sul
New York Times? L'anziano signore confessa di non saperne niente. «Le sento
citare continuamente».
In realtà, provengono dal Pharmaceutical Research and Manufacturers of
America (Phrma), la lobby delle compagnie farmaceutiche, e dal Tufts Center
for the Study of Drug Development, un centro di ricerca sponsorizzato al
65% dall'industria farmaceutica. Secondo le due organizzazioni, il costo
medio per realizzare un nuovo medicinale era di 500 milioni fino al
dicembre 2001, quando il Tufts Center ha rivalutato la cifra a 802 milioni
di dollari. Ma la sua è un'analisi che riguarda solo una minoranza di
molecole: quelle scoperte e sviluppate senza l'aiuto dello stato. E la metà
della somma è perlomeno virtuale: si tratta di un «guadagno possibile», un
compenso che l'industria privata si concede in funzione degli interessi che
le stesse somme avrebbero reso se fossero state investite in borsa.
Dunque: valutazione eccessiva di rischi e compensi, amnesia sugli esoneri
fiscali... Sempre nel 2001, un organismo indipendente, il Public Citizen
(8), utilizzando gli stessi parametri di riferimento, ha calcolato che la
realizzazione di un'entità chimica completamente nuova costa al settore
privato al massimo110 milioni di dollari.
Quanto viene finanziato dal pubblico e quanto dal privato? La mancanza di
trasparenza è totale e i dati sono inattendibili: «Quando il settore
privato investe 1.000 dollari in un nuovo medicinale, lo valuta, nel costo
finale, 2.000 dollari, perché calcola rischi e compensi.
Quando, invece, è il settore pubblico che mette 1.000 dollari in un
medicinale, alla fine la sua parte sarà valutata sempre 1.000 dollari,
perché è una sovvenzione e non un investimento. Questo spiega perché il
contributo del pubblico alla ricerca e allo sviluppo è largamente
sottovalutato», osserva Els Torreele, ricercatrice di biotecnologia e
responsabile della campagna di Msf a favore delle malattie dimenticate.
«Peggio: per definire costo e prezzo di un medicinale il settore privato ha
preso l'abitudine di inglobare i soldi pubblici nei propri calcoli.
Risultato: il contribuente paga due volte lo stesso medicinale».
La catena del monopolio La stavudina e gli altri quattro antiretrovirali
della famiglia dei nucleosidici (9) sono stati inventati negli Stati uniti
grazie ai fondi pubblici. Anche per quanto riguarda gli altri nove
antiretrovirali (inibitori di proteasi e non nucleosidici), le sovvenzioni
statali hanno sostenuto, in un momento o in un altro, la ricerca o le fasi
di sperimentazione. Ma sono i fondi privati che danno il «la». «Nel corso
dei trent'anni in cui ho diretto la ricerca, il contributo dei privati non
ha mai superato il quarto del totale dei miei finanziamenti - riconosce il
dottor Prusoff - . Ma ho raccomandato la Bms per l'attribuzione di una
licenza sulla stavudina, perché, molti anni fa, il nostro dipartimento ha
ottenuto una grossa sovvenzione da questa società per la ricerca su
medicinali contro il cancro. Avevo ricevuto una piccola parte di questi
fondi per lavorare sugli antiretrovirali.
In cambio, la Bms si era riservata un diritto di prelazione su tutti i
composti prodotti. Tra cui la stavudina».
Ovunque a Yale, tranne che nella piccola cerchia di militanti del Geso,
predomina una visione fatalista. Ad esempio, perché alla Bms non è stata
concessa una licenza semplice - non esclusiva - , il che avrebbe permesso
all'università di riservarsi un mezzo di pressione a favore dell'interesse
pubblico? «Nessuna compagnia lo avrebbe accettato - ribatte Soderstrom - .
O licenza esclusiva oppure niente! Visti il tempo e i soldi necessari per
condurre le sperimentazioni cliniche e perfezionare un medicinale, è
difficilmente concepibile che un'impresa privata s'impegni con noi senza
avere i mezzi per proteggere il suo investimento!» Anne Valerie Kaninda,
consigliere medico nella sede di Msf di New York, offre un'altra
spiegazione a tanta intransigenza: «La licenza esclusiva - spiega -
prolunga la catena del monopolio iniziata con il brevetto. Ed è questo
monopolio che fa salire i prezzi».
Ogni attacco, anche minimo, alla «catena del monopolio» viene subito
considerato dall'industria un attacco alla ricerca. Quando, lo scorso
novembre, l'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), riunita a Doha,
decise di ammorbidire le regole del brevetto per i paesi poveri, ci fu
subito una levata di scudi: «Senza brevetti, i profitti non sono possibili
e la ricerca soffre», dichiarò Daniel Vasella, presidente di Novartis Ag
(10). Ma come spiegare allora che i grandi produttori di medicinali - che
incamerano profitti record - investono tre volte di più in marketing e
amministrazione che in ricerca e sviluppo (11)?
A sostegno della loro politica dei prezzi, i laboratori di ricerca, lo si è
visto, invocano i costi esorbitanti delle sperimentazioni in fase III -
quelle dedicate ai test su larga scala su malati volontari - che in genere
spettano a loro. Ma quale è stato il prezzo reale per la fase III nel caso
della stavudina? Nel suo intervento sul New York Times il dottor Prusoff
riportava una cifra impressionante: «oltre 13mila pazienti infettati
dall'Hiv» sarebbero stati testati dalla Bms nel quadro delle
sperimentazioni di fase III. Otto mesi più tardi, il ricercatore
riconosceva davanti a noi che questa cifra gli era stata probabilmente
«suggerita da qualcuno della Bms, troppo entusiasta». Da parte sua, uno
specialista dello sviluppo degli antiretrovirali ritiene che il numero
medio di malati testati nella fase III sia stato 3mila persone, con un
costo di 25mila-30mila dollari annui per paziente. «Tenuto conto dei premi
assicurativi, del trasporto dei campioni di sangue, della raccolta e del
trattamento dei dati, del controllo meno stringente sulle migliaia di
pazienti ai quali si distribuisce il medicinale per uso compassionevole,
degli studi tossicologici, dello sviluppo farmaceutico... Non siamo lontani
dai 500 milioni di dollari!» James Love, responsabile del Consumer Projet
on Technology, ha rifatto i calcoli relativi alla stavudina, basandosi sui
dati pubblicati dal Fda (822 pazienti testati) al costo medio di 10mila
dollari annui per paziente («cifra nettamente superiore alla media dei
contratti normalmente praticati nel settore»). In totale, tenendo conto dei
rischi («che non sono poi così alti, visto che il 70% dei medicinali in
fase III viene approvato») e dei compensi («anche il costo del capitale non
è molto alto, dato che la sperimentazione è durata solo due anni»), James
Love arriva alla conclusione che il test sulla stavudina non deve essere
costato alla Bms più di... 15 milioni di dollari.
La verità? Resta chiusa nei libri contabili che le compagnie farmaceutiche
rifiutano ostinatamente di aprire in nome del segreto commerciale.
Quando, a Pretoria, il giudice sudafricano ha voluto ottenere dati precisi
sulla politica dei prezzi relativa agli antiretrovirali, i trentanove
industriali hanno preferito ritirare la querela.



note:

* Giornalista.

(1) Chiamato anche d4T, la stavudina è un inibitore nucleosidico della
transcriptasi inversa dell'Hiv, della famiglia dell'Azt.

(2) Tra il 1994 e il 2000.

(3) Dopo il Bayh-Dole Act, del 1980.

(4) Il brevetto è stato registrato nel 1990.

(5) 4,56 dollari negli Stati uniti, ma 3,68 dollari (4,12 euro) in Francia,
dove i prezzi sono contrattati con grande sconforto delle multinazionali
farmaceutiche.

(6) 4,7 milioni di sudafricani sono colpiti dal virus dell'Hiv, e 250mila
muoiono ogni anno. L'Aids è responsabile del 40% dei decessi di persone tra
i 15 e i 49 anni.

(7) La molecola era stata sintetizzata nel 1966 da Jerome Horowitz della
Michigan Cancer Foundation grazie a un finanziamento pubblico del National
Cancer Institute.

(8) Ong che fa inchieste e svolge attività di lobbying per la difesa del
consumatore, fondata da Ralph Nader.

(9) Zidovudina o Azt, didanosina o ddI, zalcitabina o ddC, e lamivudina o 3TC.

(10) The Wall Street Journal, New York, 14 novembre 2001.

(11) Nel dicembre 2001, Alan Sager e Deborah Socolar, due ricercatori della
School of Public Health dell'Università di Boston, hanno pubblicato uno
studio comparativo sui livelli occupazionali. Nell'industria farmaceutica
americana il personale addetto al marketing è quasi il doppio (81%) di
quello impiegato nella ricerca. E la differenza si è considerevolmente
ampliata in cinque anni. La Bms, da parte sua, nel 2000 ha speso 3,86
miliardi di dollari per marketing e amministrazione, a fronte di 1,93
miliardi per ricerca e sviluppo.