torino da buttare



dal manifesto

     
    
 
    
 

12 Marzo 2002 
  
 
  
Torino da buttare 
Tra un anno la città potrebbe rivivere il dramma dell'80, quando la Fiat
cacciò 23 mila operai. Il declino dell'auto, se non sarà fermato, metterà a
rischio, con il lavoro, il futuro stesso di Torino 
LORIS CAMPETTI 




Basterà aggiungere un "ex" sui cartelli informativi lungo le autostrade e
la tangenziale del capoluogo piemontese: "Torino ex città dell'auto". O più
semplicemente, "Città del museo dell'auto". Niente più produzione di
vetture, niente più Salone dell'automobile, ma è giusto che il turista
svedese o inglese che arriva nella Capitale della neve sappia che una volta
in questo borgo sabaudo tute blu e amaranto, carrozzieri e design la
facevano da padroni. Le Olimpiadi bianche del 2006, effettivamente,
potrebbero essere ospitate in una città postindustriale, o meglio
postnovecentesca, come preferiscono dire da queste parti. Tolta di mezzo
l'ingombrante e puzzolente automobile, prodotto obsoleto del secolo che fu,
barricati in collina gli eredi della Famiglia che rese famosa la città e
riconvertiti in creativi, cooperanti, partite iva e muratori i figli della
classe estinta, i nipotini dell'homo faber, la Torino olimpionica sarà
certamente più libera di volare, più vivibile, più pluralista. Da Mirafiori
ai mille fiori. Oppure, al contrario, Torino intesa come città laboratorio,
fucina di culture e conflitti, non esisterà più, e quel che resterà
assomiglierà invece a una delle tante, anonime città postindustriali degli
Stati uniti, un cumulo di rancorosi ricordi in un ammasso di cemento e
linee di montaggio dismesse che non attrarrà neppure quei maghrebini che
oggi, agli occhi dei benpensanti, rappresenterebbero il problema più grave,
una mina sulla convivenza civile, un attentato agli antichi legami sociali
di Porta Palazzo e San Salvario.
In questi mesi si sta decidendo il futuro di Torino, la partita in gioco è
dunque molto impegnativa. Quello che si è aperto con la crisi della Fiat è
uno scontro duro, falsamente rappresentato come uno scontro tra
conservatori e innovatori, di qua gli industrialisti e di là i postmoderni.
In realtà, il conflitto andrebbe raccontato in tutt'altro modo. Da un lato
c'è chi vede ancora sotto la Mole antonelliana una città laboratorio,
fucina di idee e ricerche per rilanciare il suo bagaglio di sapere
industriale in un futuro dove per l'automobile e per tutte le intelligenze
e le professionalità che la plasmano ci sia un posto d'onore. Un'automobile
che, come ha lucidamente argomentato Francesco Garibaldo (il manifesto, 28
febbraio), tutt'altro che prodotto maturo o peggio obsoleto, risponderebbe
a nuove domande sociali e commerciali, incorporerebbe ben altra tecnologia
rispetto alla vettura che siamo abituati a guidare. Dall'altro lato c'è chi
ha in mente una città che, finalmente emancipata dai vincoli e dalle
cadenze della grande fabbrica, possa esprimere tutta la sua creatività,
nascendo a nuova vita sotto mille forme diverse. Tendenzialmente una città
terziarizzata e finanziarizzata che punti sui grandi eventi (a partire
dalle Olimpiadi sulla neve) e dunque sul cemento, città vetrina e città
mercato ma anche rivitalizzata da una non meglio precisata ricerca
avanzata. Solo che le vetrine, insieme all'industria dell'auto, stanno
chiudendo. Torino è una città costruita intorno e sotto la Fiat, dove
tutto, dalla convegnistica al Politecnico, è vissuto per un secolo
all'ombra della famiglia Agnelli, trainato dalle sue quattro ruote motrici.
Torino, per diventare la città sognata dal suo sindaco, il diessino Sergio
Chiamparino, ha la sfortuna di sorgere troppo vicina sia alla Fiera di
Milano che al Salone dell'auto di Ginevra, o al Museo della tecnica di
Monaco di Baviera. Tolte le quattro ruote motrici e il back ground suo
proprio, dicono i detrattori di questa improvvisata modernità, sotto le
corna del toro non resterebbero che le mummie del Museo egizio.
La divisione non è, come si potrebbe essere indotti a pensare, tra destra e
sinistra. Almeno dall'80, dalla sconfitta dei 35 giorni a Mirafiori, la
Fiat intesa come fabbrica di automobili, come città degli operai, è una
città a sé, sempre più distante dalla città dei cittadini. Più o meno come
capita in alcuni nostri centri marittimi dove il porto, con le sue mille
attività e mestieri, è quasi un corpo estraneo, esterno, separato dalla
popolazione residente. La sinistra torinese, in particolare, non ama o non
ama più la Fiat e i suoi abitanti in tuta blu. E pensa di poter fare di
necessità virtù, accompagnando e mitigando socialmente la fine dell'era
dell'auto decretata dal Grande Patriarca Gianni Agnelli (Giuanin lamiera,
lo chiamano nella sua val Chisone, quella che inizia dalla neocapitale
olimpica, Sestriere), su indicazione dell'azionista americano General
Motors. Così, quel Novecento che allunga proditoriamente i suoi tentacoli
nel nuovo secolo potrebbe finalmente ricevere, proprio a Torino, un
funerale di prima classe. Chiusa Rivalta, trasformato lo stabilimento della
Fiat Avio - accanto al Lingotto ridisegnato da Renzo Piano - in un
luccicante Palaghiaccio, chiusa o ridotta a polmone di assemblaggio
Mirafiori, Torino potrebbe ripartire dall'anno zero disegnando il suo
futuro, fuori dalla cappa dell'automobile. Dall'altra parte, invece, si
rivendica la necessità di rovesciare il luogo comune dell'ineluttabilità e
dell'irreversibilità del declino dell'auto, proprio in nome della sua
trasformazione radicale basata sull'innovazione dei prodotti prima ancora
che dei processi produttivi. Si va verso l'utilizzo di nuovi combustibili,
decisamente meno inquinanti, a partire dal motore a idrogeno. Ma su questo,
che è il terreno del futuro per i motori, la Fiat è in ritardo rispetto
alla concorrenza internazionale. O per sua scelta, o per ordini americani.
Ma non c'è nessuna ragione perché l'Italia, Torino, abbandonino questo
nuovo mercato consegnandolo agli americani, ai tedeschi e ai giapponesi.
Anche perché, altrimenti, a Torino non resterebbe che l'assemblaggio di
vetture residuali. E siccome a Mirafiori l'utilizzo degli impianti non va
oltre il 75%, contro il 90% di quelli meridionali ed esteri, che senso
avrebbe tenere in vita Mirafiori?

L'Alfa in pole position
In casa Fiom hanno cominciato a studiare gli effetti della ricetta Fiat, se
il processo liquidatorio che è nei programmi della proprietà dovesse
realizzarsi senza ostacoli, anzi accompagnato dal sostegno sociale e
politico delle istituzioni di sinistra (comune e provincia) e di destra
(regione Piemonte). Ma prima di analizzare i numeri della
deindustrializzazione, può tornare utile qualche considerazione generale.
In base al patto sottoscritto con la Gm, che già oggi detiene il 20% delle
azioni della multinazionale torinese, tra due anni la Fiat potrebbe
esercitare l'opzione, in parole semplici vendere anche il restante 80%
dell'auto al gigante americano. Dopo aver ripetuto per mesi che la Fiat non
intende compiere questo passo, con tanto di giuramento dei manager (che
cambiano) e dei padroni (che sono sempre gli stessi), è di pochi giorni fa
la dichiarazione del presidente e amministratore delegato della Gm, Richard
Wagoner, che esclude l'ipotesi di mangiarsi a fette o in un sol boccone la
multinazionale torinese prima del 2004. Una dichiarazione imbarazzante
quanto illuminante sul futuro e sull'autonomia della multinazionale
torinese. Quel che sappiamo per certo è che gli Agnelli un solo gioiello di
famiglia, automobilisticamente parlando, non sono minimamente intenzionati
a vendere: la Ferrari. Ma stiamo parlando della nicchia di lusso, del fiore
all'occhiello prima ancora che della Fiat, dell'Italia. Per parlare dei
marchi che fanno i grandi numeri, invece, sappiamo che la ristrutturazione
avviata a dicembre per ridurre l'impressionante indebitamento della società
(quello finanziario supera abbondantemente i 60 mila miliardi di lire, più
della metà del fatturato), la Fiat Auto è stata fatta in quattro pezzi e il
marchio Alfa Romeo è stato separato dalla coppia Fiat-Lancia. Per venderla
meglio, dicono i maligni, dato che l'Alfa è il boccone più succulento a cui
certamente punta la General Motors, vuoi per il prestigio del biscione,
vuoi per la fascia di mercato in cui è inserita. Non è un caso che l'unico
marchio con cui la multinazionale torinese rientrerà nel ricco e difficile
mercato nordamericano è proprio il marchio Alfa Romeo. La Lancia non gode
di altrettanta buona salute e prospettive. Per quanto riguarda il marchio
più importante, la Fiat, va detto che è proprio quello messo più a rischio
dall'accordo con Gm. Se una volta le utilitarie, cioè le vetture di fascia
bassa A e B, erano il punto di forza dei torinesi, oggi la situazione si è
ribaltata: tutte le case hanno dato l'assalto a questa fetta di mercato a
bassa redditività e la Fiat non è che uno dei tanti concorrenti in gara.
Per di più, l'acquisto - ancora non ben definito nei dettagli - della
Daewoo, ha messo in casa Gm un altro concorrente fastidioso nel
supermercato delle piccole vetture. Si sa che le sinergie, in casi come
questi, sono sinonimi di tagli. Gli effetti su produzione e occupazione
Fiat potrebbero essere molto pesanti.

I numeri del declino
Fatte queste considerazioni, passiamo all'esame dei numeri del declino Fiat
a Torino, così come sono stati raccolti, documentati e presentati a una
stampa piuttosto distratta dalla Fiom. Primo punto: la Fiat sostiene di non
aver licenziato e che non intende procedere a licenziamenti in Italia. Il
suo piano di ristrutturazione prevederebbe la chiusura di 18 stabilimenti
in tutto il mondo, di cui soltanto due in Italia e 6 mila licenziamenti,
nessuno in Italia. In realtà, solo nel corso del 2001 la Fiat ha già
proceduto al "licenziamento camuffato" di 6 mila dipendenti in Italia, la
maggior parte dei quali a Torino, così ripartiti: 2 mila con accordi di
mobilità fino alla pensione (Tnt, Comau, Enti centrali, ecc.); oltre mille
normali pensionamenti non sostituiti; oltre 2.500 contratti a termine e
interinali non rinnovati. Nessuno (o quasi) che se ne sia accorto.
Secondo punto, l'andamento e le prospettive della produzione dal 1997 al
2003, che potete ritrovare nei grafici di questa pagina. I dati forniti dal
'97 al 2001 sono presi dal bilancio Fiat, quelli del 2002 sono in
consuntivo e quelli del 2003 a budget. Fino al 2001, la produzione torinese
è articolata nei due stabilimenti di Mirafiori e Rivalta. Dall'anno in
corso, con la chiusura di Rivalta, di fabbriche di automobili a Torino ne
resta solo una. Nel `97 a Torino sono state costruite 568.368 vetture, che
scendono a 481.539 nel '98, a 459.336 nel '99, poco meno nel 2000. Un nuovo
crollo produttivo si è avuto nel 2001 (l'anno record per il numero di
automobili immatricolate in Italia) con 374.379 automobili, mentre i
programmi per l'anno in corso prevedono una produzione di appena 305.970
vetture. Nel 2003 le vetture costruite a Torino scenderebbero addirittura
sotto le 200 mila (197.000), poco più di un terzo di quelle del '97. Uno
stabilimento gigantesco come Mirafiori per una produzione così bassa,
inferiore a quella effettuata a Melfi e pari a quella di Cassino, di poco
superiore a quella di Pomigliano, a questo punto non si giustificherebbe
più. Soprattutto se si considera che negli stabilimenti meridionali
l'utilizzo degli impianti e la flessibilità sono nettamente maggiori e i
salari inferiori (chi ha detto che in Italia sono state abolite le gabbie
salariali?). Ma ci sarà sempre un sud più a sud, un luogo potenzialmente
più competitivo: da Melfi a Bursa in Turchia, o in Polonia, il passo è
breve. E se a Torino l'occupazione è a forte rischio, anche gli operai
meridionali della Fiat farebbero bene a preoccuparsi per il futuro. Solo
per fare qualche esempio, un paio di motori importanti a cui avrebbero
dovuto lavorare i meccanici di Mirafiori (che ora si chiamano Powertrain,
una delle due joint venture Fiat-Gm) sembrerebbero invece destinati allo
stabilimento polacco della Fiat di Belsko Biala e a quello tedesco della
Opel (Gm). Così come intere vetture destinate ai mercati europei e italiano
sono assemblate in Turchia (la Doblò, e tra poco anche la Marea) e in
Polonia (la Seicento).

Emergenza sociale
Questi dati terribili prefigurano una vera emergenza sociale a Torino nel
corso del prossimo anno. Dal 2001 al 2003 si rischia di perdere in città
32.718 posti di lavoro tra diretti e indiretti, cioè terziarizzati, tutti
interni agli stabilimenti Fiat. Da 69 mila dipendenti si scenderebbe a
36.308 dipendenti. Se si calcola che ormai la quota maggiore delle vetture
Fiat è costruita fuori dalle fabbriche della Fiat (l'80-85%), si possono
immaginare gli effetti catastrofici della ricaduta del declino Fiat
sull'indotto, cioè tra le aziende fornitrici. I dati occupazionali
presentati dalla Fiom sono dedotti direttamente dalla riduzione dei livelli
produttivi, modello per modello, annunciati dalla Fiat. La riduzione in 5
anni a un terzo della produzione torinese, ridisegna la presenza Fiat in
Italia e nel mondo. Nel 1997 un terzo esatto delle vetture usciva dagli
stabilimenti di Mirafiori e Rivalta, nel 2002 la produzione torinese si
riduce a un quinto, il 20% di quella italiana che comunque, nello stesso
periodo di tempo, è scesa da 1,7 a 1,5 milioni di vetture. All'estero,
nella globalizzazione povera della Fiat, si fanno sentire molto
negativamente le crisi argentina e turca, mentre Cina e India non decollano
e della Russia neanche si parla più. (1/continua)