auto:il motore del 2000



dal manifesto di giovedi 28 febbraio 2002

     
    
 
    
 

28 Febbraio 2002 
  
 
Il motore del 2000 
Il declino della Fiat apre inquietanti scenari sulla sorte di Torino. Ma il
problema non è solo di carattere occupazionale e sociale, riguarda tutto
l'assetto industriale del paese, la scommessa che fa con se stesso 
FRANCESCO GARIBALDO 




Sul destino dell'auto (della Fiat e di Torino) gli stereotipi si sprecano.
Il primo è quello che la produzione di automobili, in quanto attività
manifatturiera, non sia all'altezza di un paese moderno; il "mantra" è:
"bisogna uscire da queste attività arretrate per finalmente entrare nella
vera alta tecnologia" oppure "divenire una moderna Parma ducale". Chiunque
abbia dato un'occhiata alla piattaforma a cella combustibile, AUTOnomy,
della General Motors, (una specie di gigantesco skate-board, col sistema
propulsivo elettrico all'interno, sul quale si può montare qualunque
carrozzeria) si sarà reso conto dell'innovazione tecnologica e produttiva
che rappresenta. Ed è solo una delle possibili soluzioni già alla portata
del prossimo futuro. L'intera industria dell'automobile verrà infatti
riprogettata, a partire dal processo produttivo, con una conseguente
modifica della tradizionale divisione del lavoro, dentro e fuori la grande
azienda automobilistica. Il settore quindi manterrebbe il suo ruolo di polo
di innovazione tecnologica ed organizzativa nel comparto manifatturiero,
"tirando" anche parti della cosiddetta nuova economia (per integrare campi
di ricerca che vanno dalla biologia, alla chimica, alla fisica). Inoltre la
trasformazione storica del prodotto "automobilistico" ha fatto saltare la
contrapposizione rigida nel trasporto delle persone, tra mezzi pubblici -
treni, tram, autobus, ecc. - e mezzi privati. La domanda di mobilità,
combinata con quella di salvaguardia ambientale e con quella di rigidi
criteri di economicità della spesa pubblica, impongono soluzioni di
mobilità in grado di progettare soluzioni parziali a problemi parziali. La
strada ormai tracciata - si pensi alle biciclette elettriche ad idrogeno -
va nella direzione di una pluralità di mezzi per la mobilità, che riguarda
sia gli utilizzatori (dai classici quattro passeggeri a "moduli" per otto o
ottanta persone) sia i sistemi di propulsione che spaziano dall'ibrido
combustione-elettrico, ai carburanti (dalla benzina all'idrogeno passando
per il metano e il gpl, agli ibridi ad aria compressa e scoppio, e a tutta
la gamma degli elettrici). Variano poi le organizzazioni produttive ed
aziendali: dalla multinazionale plurigamma all'azienda regionale che
produce, in franchising come nel caso delle auto ad aria compressa. Si sta
infine uscendo dal binomio esclusivo auto-proprietà privata, si diffondo
schemi di leasing che consentono di trasformare l'uso dell'auto da quello
proprietario a quello dell'acquisto di un servizio.
Il mondo dell'automobile, insomma, è vivo e vegeto e rappresenta per ogni
paese un potenziale tecnologico, produttivo, economico, organizzativo di
grande rilevanza; non è un caso che le nazioni leader del mondo ricco -
Inghilterra a parte - sono e vogliono rimanere delle "potenze
automobilistiche". Infine questa varietà di gamma e di modalità produttiva
costituisce l'unica speranza di una soluzione realistica ed a breve della
congestione urbana con i relativi costi per la salute pubblica.


Addio all'auto?
Per tutto questo è errato il secondo stucchevole stereotipo che dice: se
l'auto va male e va sparendo dallo scenario produttivo, di un paese o di
una regione, è sì un fatto negativo, per le conseguenze occupazionali e
sociali, ma come lo sono i dolori del parto, cio è un male a breve corso
che apre un nuovo e migliore futuro. Si tratta quindi, secondo costoro, di
addolcire o accompagnare la crisi sociale che ne consegue ma nulla di più,
anzi più rapidamente si consuma il passaggio meglio è. Da quanto detto tale
prospettiva è del tutto infondata. A tal punto che viene fatto di pensare
che si tratti di un pregiudizio sociale, che diviene progetto politico,
verso l'esistenza stessa di un'attività industriale e del correlato
diffondersi di una classe operaia che svolge lavori che vengono considerati
solo manuali, cosa ormai consegnata ai pregiudizi più reazionari.
In realtà occorre muoversi nella direzione opposta; cogliere cioè le
potenzialità innovative del nuovo prodotto che continuiamo a chiamare
convenzionalmente automobile. Oltre alle potenzialità tecnologiche e
sociali, ci sono quelle che riguardano l'organizzazione industriale. Si è
detto infatti che quanto sta iniziando ad accadere cambia la divisione del
lavoro tradizionale. Ciò riguarda in primo luogo la catena di subfornitura,
che oggi si basa su due presupposti: che il valore aggiunto della catena
del valore sia fondamentalmente quello dell'assemblatore finale e del suo
potere di marchio che gli consente di fissare il prezzo delle attività
industriali e di servizio che stanno a monte. In secondo luogo sulla
selezione di subfornitori di primo livello che vengono messi in concorrenza
sul piano non più solo regionale ma anche di blocchi economici regionali
quando non globalmente; si pensi alla filosofia dell'accordo GM-Fiat e al
continuo taglio dei prezzi, negli ultimi due anni, ai fornitori. Questi due
concetti vanno completamente rivisti. Infatti nella nuova divisione del
lavoro cambiano le barriere all'ingresso e nuovi produttori, in tutta la
catena del valore, possono entrare con grandi innovazioni tecnologiche - di
qui l'ossessiva attenzione delle grandi al presidio dei nuovi propulsori -
e i fornitori di primo livello possono diventare realmente, più che dei
fornitori, partner tecnologici nella ricostruzione del prodotto
automobilistico. Se infatti il prodotto richiede la confluenza di prodotti
tecnologici complessi che vanno ripensati per poter essere integrati,
allora si profila una divisione dal lavoro nel settore di natura totalmente
diversa con una distribuzione e articolazione della catena del valore del
tutto diversa a quella a cascata oggi dominante. Tutto ciò non avviene
spontaneamente grazie a un mercato mitico, ma costruendo con atti politici
ed amministrativi uno specifico mercato; il motto potrebbe essere fare come
in California. Se infatti uno stato o un gruppo di regioni definisse un
piano di progressiva limitazione delle emissioni pericolose e definisse
degli standard di risparmio del carburante di derivazione petrolifera,
allora si determinerebbero delle nuove convenienze di mercato per i
produttori e chi lo facesse prima potrebbe attrarre investimenti innovativi
che sono alla ricerca di mercati possibili di sbocco. In questa prospettiva
alcune realtà territoriali italiane, tra queste Torino, potrebbero vantare
un'expertise ed una disponibilità di competenze professionali di tutto
rispetto sia pure in un'ipotesi di loro riqualificazione. Tutto ciò
richiede una forte responsabilità delle Regioni in concorrenza con il
governo nazionale. Il punto è che siamo ad un'ipotesi che si gioca ad
horas. Un piano siffatto non deve superare gli 8 anni e prevedere degli
incentivi ai cittadini, sotto forma di deduzioni fiscali. La manovra dal
lato della domanda non è sufficiente, occorre predisporre, dal lato
dell'offerta, la possibilità per l'intero settore, di un processo di
riposizionamento, con tutte le disponibilità create da una politica
pubblica di sostegno, che non consiste nel dare degli incentivi a cascata
ma nel premiare selettivamente chi si dirige in una certa direzione. La
parola d'ordine di tale riposizionamento è la costruzione di reti di
impresa e di imprese virtuali che siano basate sulla integrazione di
competenze ad alto livello di specializzazione e con alti margini di
ritorno, su questo esistono in tutta Europa, in particolare in Germania,
programmi avanzati di ricerca che, in Italia, stentano a decollare per una
mancanza di domanda, dato che la parola d'ordine è tagliare i costi, in
primis, quello del lavoro.
In questo quadro la situazione che si va delineando per la Fiat e
specificatamente per Torino, è molto preoccupante, non solo e non tanto per
i rischi "sociali" a breve, ma anche e principalmente per i rischi a medio
e lungo termine della sostenibilità di un equilibrio sociale ed economico,
della capacità di generare ricchezza e sostenibilità sociale e ambientale
di un territorio. La recente decisione dell'annullamento del salone
dell'auto di Torino è solo la punta dell'iceberg, un "warning" territoriale.

Appello al pubblico
Perché tale preoccupazione? Consideriamo alcuni elementi strutturali. In
primo luogo alcuni dati di fondo della situazione internazionale: il primo
è dato dalla presenza di un eccesso strutturale di capacità produttiva
installata nel mondo, eccesso che è tale non rispetto ad una specifica ed
eccezionale congiuntura negativa dei consumi ma rispetto ad un trend
"naturale" di crescita; se poi dovessero accelerarsi le adozioni delle
innovazioni sopra citate, allora vi sarebbe una ulteriore complicazione
data dalla obsolescenza non prevista di investimenti che non
"rientrerebbero" mai più. L'Economist del 29 marzo del 2001 dava a quella
data un eccesso di capacità produttiva pari alla differenza tra 80 milioni
di veicoli che si possono teoricamente produrre a fronte di 60 milioni
prodotti; gli ultimi dati di gennaio 2002 non migliorano la situazione.
Se poi le cifre dichiarate dalla Fiom sono esatte, allora siamo molto
vicini al limite di tolleranza - economica - del sottoutilizzo degli
impianti, almeno per Torino: infatti teoricamente nulla impedisce di
pensare che i volumi vengano prodotti in altri impianti italiani - cioè il
Sud - oppure europei, o extra europei. Quanto sta accadendo in Sudamerica
non è incoraggiante sotto questo profilo e per quanto riguarda l'Asia
bisognerà pur considerare le conseguenze dell'acquisto della Daewoo. Se si
considerano infatti, sulla scena mondiale, insieme GM, Fiat e Daewoo e si
pone mente alle gamme coperte e ai mercati di riferimento si giunge
facilmente a considerazioni piuttosto desolanti. Sarebbe interessante
verificare se e quale livello di indebitamento si è aggiunto, nella
provincia di Torino, a quello Fiat a causa della cessione di parti
rilevanti delle attività Fiat a fornitori di primo livello che hanno quindi
accresciuto la loro capacità produttiva: la domanda che mi pongo è hanno
pagato con disponibilità proprie o hanno dovuto ricorrere al credito e, se
sì, in che misura. La domanda non è oziosa dato che una riduzione dei
volumi, come quella denunciata dalla Fiom e uno spostamento in capo ad
altre aziende della precedente capacità produttiva installata da Fiat, se
non è coperta da volumi provenienti dalla Fiat, da quali ordini è coperta?
Ciò ci porta alle considerazioni finali. Chiunque oggi pensi ad una via di
uscita nel futuro non può certamente limitarsi a una richiesta di riduzione
del "disagio sociale" di chi verrà colpito ma non può neanche fare
considerazioni sul futuro che saltino i prossimi due, tre anni perché per
poter poi entrare in qualche futuro possibile bisogna traversare questi
anni, non solo garantendo un reddito a chi perde il salario ma garantendo
la salvaguardia del patrimonio industriale esistente che è l'unica garanzia
per evitare che il destino di tanti sia di staccare i biglietti a una
mostra o gestire una pizzeria in più.