chi vuole spegnere la voce del sindacato



da repubblica

MARTEDÌ, 15 GENNAIO 2002 Stampa questo articolo 
  
  
Chi vuole spegnere la voce del sindacato  
  
  
  
  
LUCIANO GALLINO  

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Come ogni sistema di governo ispirato dal culto del capo, al fine di
potersi radicare durevolmente nel paese il berlusconismo ha assoluto
bisogno di indebolire sindacato. Nel regime verso il quale il suo governo
pare voler condurre il paese, nessuna forma di rapporto sociale organizzato
si deve frapporre tra la persona del capo e gli individui. Quali sedi in
cui si costruivano pressoché giorno per giorno rapporti sociali profondi,
quelli che all'occasione fan sentire la propria identità personale
rinsaldata in una identità collettiva, i partiti politici sono andati in
crisi per conto loro. La chiesa, da questo specifico punto di vista, non
sembra stia molto meglio, anche se una importante funzione sussidiaria
continuano a svolgerla le associazioni cattoliche. Le organizzazioni non
governative stanno crescendo, ma esercitano una presa ancor debole nella
società politica. Resta in prima fila, ad impedire che i messaggi del capo
arrivino direttamente alla mente e al cuore degli individui, il sindacato.
Dunque è necessario ridurlo all'impotenza.
Nell'attacco al sindacato le strategie adottate dal governo Berlusconi sono
principalmente due. La prima, sviluppata in sintonia con i ceti sociali che
lo sostengono, consiste nell'etichettarlo instancabilmente come residuo
premoderno, istituzione demodé, struttura in ritardo irrimediabile sui
tempi. È una strategia che sin dagli Anni '80 è stata attuata con successo
in Gran Bretagna e, con altrettanto fragore seppure finora con minor
successo, in Francia, specie ad opera dell'associazione padronale. Il
sindacato, predica tale strategia, è un ostacolo alla modernizzazione del
paese. Chi lo sostiene, compresi i lavoratori che ancora vi credono e ad
esso si iscrivono, è un nemico della libertà e del nuovo che si affaccia
prepotentemente nel mondo. Da siffatta ideologia della modernità ha scritto
recentemente Laurent Joffrin, caporedattore del Nouvel Observateur, in un
graffiante saggio su "Le gouvernement invisible" deriva che viene «reputato
moderno ciò che risponde ai criteri dell'ideologia liberale libertaria.
Tutto il resto si trova respinto nelle tenebre dell'arcaismo. Così, sotto
la copertura della novità, della modernità, la scala dei valori è
brutalmente cambiata: la libertà fa premio sull'eguaglianza, l'individuo
sulla collettività, la società civile sulla società politica e il mercato
sullo Stato».
Non bastasse la poderosa offensiva del berlusconismo, le difficoltà per il
sindacato italiano sono accresciute dal fatto che l'ideologia della
modernità ha fatto presa anche su una parte significativa della sinistra.
Si veda quel che è accaduto in occasione dell'ultimo congresso dei Ds. La
mozione in cui più chiaramente si parlava di questioni di interesse
effettivo per la vita di tante persone, come le conseguenze della
globalizzazione, le nuove povertà, l'occupazione, i salari che in termini
reali sono fermi da oltre un decennio, era quella di Berlinguer. Essa fu
sconfitta non da ultimo perché in molte sezioni del partito essa venne
presentata dai dirigenti o dai segretari locali come un insieme di idee
vecchie, superate, non all'altezza dei tempi. I tempi chiedono, essi
assicuravano i presenti, che si proceda per la strada della
modernizzazione. Che è un tema, a ben guardare e ricordare, ch'era di moda,
ed allora aveva sì dei contenuti reali e comprensibili per le persone,
intorno agli anni '60. Nella misura — amplissima — in cui dette questioni
hanno dei risvolti sindacali, la sconfitta della mozione Berlinguer, non
tanto per la cosa in sé, ma per il modo in cui è stata costruita in nome
dell'ideologia della modernità interpretata da sinistra, è stata una
sconfitta anche per il sindacato. E non soltanto per la Cgil.
L'altra strategia che il governo Berlusconi sta perseguendo allo scopo di
drasticamente ridurre il peso del sindacato sta scritta in tre documenti,
il "Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia" predisposto dal
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali; il documento in cui si
propone la "Delega al Governo in materia di mercato del lavoro", e la
"Relazione di accompagnamento" alla proposta stessa. In tutto sono 137
pagine fitte di analisi, di misure da adottare, di programmi e di procedure
da porre in essere. Sicuramente ben pensate e ben costruite. Dirette ad uno
scopo che, arrivati alla centotrentasettesima pagina, e dopo qualche
rilettura, emerge con la massima chiarezza.
Insieme con l'avvio della demolizione dell'art. 18 dello Statuto dei
lavoratori, tale scopo si può compendiare in una sola frase: il regime che
avanza punta tutto sulla individualizzazione dei rapporti di lavoro. Sul
mercato del lavoro l'individuo, il lavoratore, deve essere e sentirsi solo.
Con le sue competenze professionali, la sua voglia di fare, la sua
disponibilità ad accettare — se disoccupato — qualsiasi lavoro e salario
gli venga offerto. Messo di fronte dalla legge ad una varietà di tipologie
di lavoro tra cui scegliere ch'è semplicemente impressionante: lavoro a
chiamata, temporaneo, coordinato e continuativo, occasionale, accessorio,
intermittente, a prestazioni ripartite, a tempo parziale verticale od
orizzontale, oppure con contratto a tempo determinato che diventa
indeterminato se l'impresa — grazie alle modifiche dell'art. 18 — acquista
il diritto di porvi termine quando crede. Però un individuo sospinto sempre
più lontano dalle tutele sindacali, grazie anche alla prevista riduzione
della portata dei contratti nazionali a favore di quelli aziendali.
Ciascuno per sé, e il capo del governo per tutti. Perché soltanto un capo
onnisciente e pressoché onnipotente può pensare, e riuscire a far credere,
di poter assicurare un lavoro decente, un futuro prevedibile, la
possibilità di costruirsi una vita, a lavoratori che il sindacato non potrà
più sostenere perché in una medesima azienda saranno presenti dieci
tipologie di lavoro, venti aziende subappaltatrici differenti, centinaia di
contratti individuali ed un livello salariale minimo affidato non ad un
contratto nazionale, bensì al mercato del lavoro locale.
La società non esiste, esistono soltanto gli individui, diceva vent'anni fa
la signora Thatcher. Quello che ci viene proposto dal regime emergente,
attraverso le modifiche che vuole introdurre in materia di mercato del
lavoro, va dunque ben al di là di questo e della posizione del sindacato. È
un modello di nonsocietà nel quale gli innumeri fili della devozione di
ciascun individuo nei confronti d'una personalità carismatica — della quale
cioè si crede che sia dotata di poteri all'incirca sovrumani —
sostituiscono la maggior parte delle strutture sociali intermedie che hanno
per generazioni conferito identità e dignità alle persone, e contribuito a
trasformare la debolezza del singolo in una forza relativa, anche se pur
sempre impari a confronto della controparte. Se un simile modello di
convivenza si affermerà, per di più – come risulta finora — con un ampio
consenso popolare, gli storici del futuro avranno il loro da fare per
comprendere un enigma: in che modo gli abitanti d'un grande paese abbiano
potuto consegnarsi ad esso, l'uno descrivendolo con compiacimento all'altro
come una genuina forma di progresso rispetto alle bassure d'una democrazia
che tra i suoi pilastri aveva anche il sindacato.